L’allegoria dell’albero con profonde radici e innumerevoli rami, tutti floridi, ricchi di foglie e diramazioni è una figura di uso ricorrente nella comunità del country per descrivere la tradizione, quel corpo di modelli di riferimento etnici, stilistici ed ideali a cui fare risalire la musica popolare contemporanea di matrice anglosassone, cioè quella con cui siamo cresciuti.
I critici italiani generalmente vedono il concetto di tradizione come fumo negli occhi. Avete mai notato leggendo Musica o altri bollettini del nulla musicale contemporaneo che ‘il rock’ viene considerato e commentato ormai come concetto avulso da qualsiasi tradizione, un genere musicale apparentemente esploso da chissà quale casuale Big Bang negli anni ’60 che si avvita su se stesso per poter comprendere tutto ed il contrario di tutto: ibride superstars del pop internazionale e disastri ecologici di provincia come Carmen Consoli?
Parlare di radici come qualcosa di prezioso a cui fare perenne riferimento è generalmente, per questi critici, un esercizio scolastico che sembra non andare più indietro dei Beatles.
E avete mai letto quegli articoli in cui la validità ed il successo dei Johnny Cash e dei Gram Parsons vengono attribuiti al fatto che ad un certo punto della loro esistenza i suddetti hanno “riportato al Rock il Country” quasi per scusarsi di aver sbagliato fino ad allora e forse per desiderio di redenzione?
E noi stupidi che avevamo capito il contrario. Che abbiamo rovistato in soffita e scoperto che i Beatles erano grandi perché reinterpretavano in modo attuale sia le radici nere che quelle bianche della musica; che nel loro repertorio c’erano Buck Owens, Buddy Holly e Carl Perkins e nei loro riferimenti c’erano Elvis, Chet Atkins, Johnny Cash ed un bel po’ di Nashville sound dell’epoca. Che scendendo di ramo in ramo, andando per istinto, abbiamo scoperto Merle Haggard, Elvis, Johnny Cash, Hank Williams, Patsy Cline, Bill Monroe, la Carter Family e poi sempre più giù per la curiosità di capire da dove viene la musica che ci piace.
“E’ curioso – raccontava Patsy Cline – più faccio questo mestiere più mi sento legata alla Grand Ole Opry ed alla sua comunità. C’è questo fortissimo senso delle radici comuni e della famiglia qui che ti mantiene così legato a ciò che è importante perché se tagli le radici l’albero muore per quanto sia in salute”. Non è proprio quello che sta succedendo al rock, gente?
Be’ a noi l’idea di richiamarsi a qualcosa che viene da lontano e che ha visto l’apporto creativo di tanti talenti attraverso i decenni piace. Piace l’idea di una musica che passa attraverso il tempo e si rinnova ciclicamente senza rinnegare le proprie origini sintetizzando allo stesso tempo stimoli ed interazioni di ogni tipo raccolti lungo la strada.
Piace una musica che racconta storie quotidiane di vita e di emozioni che sono universali. Ebbene sì, questo breve sfogo introduttivo mi è venuto naturale, di contrasto alla gioia nell’apprendere il programma di quest’anno della Country Night di Gstaad.
Aprite occhi e orecchie! Quest’anno niente avventure alla Mavericks bensì tre nomi eccellenti ed un’esordiente di lusso, tutti, per l’appunto solidamente legati, vedremo per quali vie, al tronco della tradizione: Mark Chesnutt, Lorrie Morgan, Ricky Skaggs e Allison Moore.
Un programma eccellente di cui notiamo il perfetto assemblaggio in termini di suddivisione dei sessi, di vocalisti e strumentisti, di più e meno recente esperienza, di coesione di stili, di recente passato e di presente.
Ed in quanto a stili, ce n’è per tutti: honky tonk, neotradizionalismo, bluegrass, new Nashville sound. Il tutto in due repliche come ormai abituale da diversi anni, il 10 e l’11 Settembre, con il consueto contorno: raduno di Harley Davidson, mercatino western e stand di CD e video dove gli italiani spendono in anticipo le loro tredicesime imprecando a denti stretti contro i discografici italiani che li lasciano in balia di spietati commercianti svizzero-teutonici. Senza dimenticare la parata nelle strade del paese la domenica mattina, il brunch con live music e soprattutto le notti nel saloon principale dove solitamente alcuni dei musicisti ufficiali riprendono con più agio il filo del discorso con il pubblico fino alle ore piccolissime.
La mia sensazione per quest’anno è che nel saloon vedremo Ricky Skaggs. Ma andiamo per ordine e vediamo che cosa ci aspetta.
Aprirà certamente la serata Allison Moore, fresca (e graziosa) rivelazione con il CD Alabama Song da cui il single Set You Free. Rivelatasi al Presidente MCA Tony Brown ad un concerto in tributo di Walter Hyatt, ed ottenuto presto un contratto, la bionda ‘Alabama native’ scrive 10 degli 11 brani per il suo album di debutto.
Qui in Italia potrebbe essere stata notata dai più attenti per la partecipazione alla colonna sonora de L’uomo Che Sussurava Ai Cavalli con Soft Place To Fall, che le ha guadagnato buone recensioni e un Academy Award nomination a Hollywood per ‘Best Original Song’.
A Gstaad potremo sentire quanto vale sul palco.
Mark Chesnutt, direbbero gli americani, è il dono di Dio al perdente honky tonker dal cuore spezzato che c’è in ognuno di noi, interprete di tutti i più umani sentimenti e delle emozioni dell’uomo comune. Con in più il flavor di ogni cosa che proviene non solo dalla Stella Solitaria bensì da Beaumont, cittadina dell’East Texas dalle poche attrattive se non fosse che per una scena musicale tradizionalmente vivace e per essere di conseguenza luogo natale di tante altre celebrità del country, da Tracy Byrd a George Jones.
E proprio quest’ultimo è il modello di riferimento del giovane Mark fin da quando, a 15 anni, marinava la scuola per andare a cantare nelle dance halls del circondario. A 27 anni, nel 1990, era già un veterano, quasi un jukebox umano per il repertorio illimitato di country classics.
Suo padre Bob ci aveva provato a Nashville a suo tempo ma senza successo. Lui invece, a forza di insistere, nel 1991 azzecca la canzone giusta per la MCA: Too Cold At Home, che diventa d’oro.
Seguono altri cinque CD, il migliore dei quali, a mio gusto è il secondo, Longnecks And Short Stories che con la ballatona epica Old Country e lo shuffle Uptown Downtown conferma le qualità vocali ed i modelli ispirativi del nostro.
Non manca il primo duetto (chissà quanto sognato dal giovane Chesnutt) con George Jones, un uptempo veloce con un bizzarro testo a rievocare un incontro casuale nei boschi con un vivo e vegeto Hank Williams (!).
In ogni CD, Chesnutt, pur con alti e bassi nella scelta del materiale, rivisita tutti gli stili tradizionali con ironia ma anche con profonda emotività.
Scherzi e ‘torch songs’ per un paradosso degli estremi sono forse i suoi numeri più azzeccati. Sentire per credere Numbers On The Jukebox da Thank God For Believers in cui viene portata all’estremo la classica metafora delle pene d’amore che stanno “dietro il vetro del jukebox, in ogni singola hurting song?” o sentire per la prima categoria il vivace simil-cajun It’s A LittleToo Late, inedito nel Greatest Hits del 1996.
Il Mark Chesnutt dal vivo è quasi uguale a quello su disco. L’importante è che non si lasci eccitare dai volumi troppo alti nel qual caso tende ad autosovrastarsi e ad andare un po’ fuori controllo. Un difettuccio che, intendiamoci, non è solo suo ma anche, per esempio, dei Tim McGraw o delle Shania Twain. Ma il contenitore di Gstaad non dovrebbe prestarsi.
Lorrie Morgan (Loretta Lynn Morgan!) è un caso speciale nell’attuale panorama femminile di Nashville, non tanto per le sue capacità e caratteristiche vocali che di primo acchito potrebbero farla accostare alla migliore Dolly Parton, quanto per la scelta del repertorio: molta tradizione rivisitata e poche tentazioni pop come tante sue colleghe. In più è figlia e moglie d’arte. Figlia del grande George Morgan, ‘the Candy Kid’, quello di Candy Kisses e Room Full Of Roses, moglie per poco tempo del compianto Keith Whitley, il ‘Kentucky Bluebird’, ed attualmente moglie di John Randall. Questo per il gossip.
Come Mark Chesnutt esordisce giovanissima, a 10 anni, con un non comune senso degli affari, facendo pagare i suoi famigliari per sentirla cantare. A 13 anni il suo primo record: esordisce al Grand Ole Opry dove la sua interpretazione di Paper Roses riceve una standing ovation.
Poi anni di gavetta e di piccoli successi tra cui nel 1978 un eccesso: un duetto tecnologico con il defunto papa, I’m Completely Satisfied, ad anticipare persino Bocephus in un identico exploit in disco e video con papa Hank.
Un tour come opening act di George Jones, un anno di bluegrass, poi l’exploit vero nel 1989 con l’album Leave The Light On per la RCA. Da quel momento inizia la consueta sfilza di premi e riconoscimenti, dischi di platino (4), CMA Awards (2), Female Vocalist Of The Year di TNN/Music City News per tre anni di fila, ecc.
Io l’ho scoperta al terzo CD, Watch Me, del 1992 per l’insulsa What Part Of No che all’epoca veniva trasmessa in radio ogni mezz’ora. La canzone non mi piaceva ma mi piaceva la voce e quel modo di cantare tradizionale, quella combinazione di passione e sensibilità che, a naso, preludeva a qualcosa di buono.
Infatti, grazie al naso, mi si rivelavano gioiellini come Half Enough, Behind His Last Goodbye e il piacevole remake dell’hit di Bonnie Tyler It’s A Heartache.
Stile romantico ma buon beat di fondo, steel sempre in buona evidenza, pronta a svariare e ottimi arrangiamenti.
Da buona figlia dell’establishment di Music City, ha sempre potuto contare su grandi collaborazioni in ogni album: l’ubiquo Vince Gill, Travis Tritt, Allison Krauss, tanti altri, e naturalmente Dolly Parton.
Attualmente la sua produzione di studio, compresi i greatest hits e i Christmas album dovrebbe contare la decina di esemplari. Visto il repertorio e gli arrangiamenti mi azzardo ad ipotizzare che dal vivo sia anche meglio e più vivace che su disco. Si accettano scommesse.
Di Ricky Skaggs in ambiente discografìco si dice che qualsiasi cosa produca sia da ascoltare con attenzione. Ed è opinione generale che qualsiasi cosa abbia delle corde lui possa suonarla. In effetti è diffìcile non concordare sulla straordinaria bravura dell’ormai maturo nativo di Cordell, Kentucky, come cantante e come strumentista.
Bastano pochissime notizie bibliografìche per capirne la dimensione artistica: a sette anni è già in TV con Flatt & Scruggs; a 15 è nella bluegrass band del Dott. Ralph Stanley (casualmente con il coetaneo Keith Whitley, futuro marito di Lorrie Morgan (al cui solo album, Second Generation Bluegrass del 1972 e That’s It del 1974 avrebbe partecipato); a 18 con i Country Gentlemen e J.D. Crowe; poi con la sua band Boone Creek e dopo poco, nel 1977, con la Hot Band di Emmylou Harris in sostituzione di Rodney Crowell, giusto in tempo per il Roses In The Snow album.
Ancora un paio di collaborazioni discograflche con Tony Rice ed il nostro pubblica il suo primo album Sweet Temptation coadiuvato alle harmonies dalla sua leader Emmylou Harris. L’album, se ve lo ricordate, è molto bello, ancora prevalentemente di bluegrass.
Tanti di noi scoprirono Ricky Skaggs in quel momento. Seguì nel 1981 quel Waitin’ For The Sun To Shine che lo rese definitivamente famoso e che inaugurava una serie di grandi successi, premi , riconoscimenti.
La sua musica era solidamente tradizionale così come il suo modo di usare la voce ma i virtuosismi strumentali, il gusto impeccabile e l’impostazione ‘progressiva’ acquisita con la nuova generazione di musicisti con cui era cresciuto gli davano una marcia in più rispetto a molti crooners della Nashville dei primi anni ’80.
Qualcuno lo considera il trait d’union con i nuovi talenti degli anni ’80 che paradossalmente lo avrebbero sospinto nelle retrovie. Il suo spiccato tradizionalismo e la sua crisi mistica dei primi ’90 certo non lo aiutavano: tendeva a fare di ogni concerto una predica ed a scrivere canzoni a sfondo religioso.
Era pronto a vincere gli Awards di Entertainer (Religious Music Association), a diventare rappresentante e simbolo in tutto il paese del verbo evangelico. L’impressione, a vederlo in quegli anni era che fosse completamente compreso da tale ruolo e che anteponesse la sua missione al talento musicale.
Scaricato dalla Columbia, partecipa con successo all’esperimento dei Nashville Cats di Mark O’Connor e viene recuperato nel 1995 dalla Atlantic per la quale produce Solid Ground, una buona ripartenza con canzoni poco impegnative ma piacevoli, prologo al ritorno al primo posto in classifica nel 1997 con Bluegrass Rules.
Con il suo downhome picking e la sua caratteristica voce da tenore bluegrass, il suono di Ricky Skaggs non ha eguali nella insidiosa tendenza all’omogenizzazione dei prodotti di Music City.
Dal vivo, Ricky Skaggs è eccezionale, un’esperienza da vivere per tutti i fans di bluegrass e country music. Il mio ricordo risale al Festival di Kerrville del 1980 quando lo vidi suonare con Buck White e famiglia. Pur non conoscendolo ancora, mi aveva colpito per il virtuosismo sugli strumenti, per la totale assenza di esibizionismo, per la semplicità nell’offrirsi al pubblico.
Se si presentasse a Gstaad con una band all’altezza e ci evitasse predicozzi (confido nella difficoltà di comunicare ad un pubblico straniero), assisteremmo ad un grande concerto.
Se dunque l’edizione precedente della Country Night aveva chiamato a raccolta i fans di country, dei Mavericks e del rockabilly (per la presenza di BR549), quest’anno sarà l’occasione di vedere ricomparire i fans del bluegrass che in Italia sono parecchi.
Che la festa riprenda dunque con l’estate! Si prepara infatti qualcosa di buono visto che la Country Night sarà anticipata degnamente dall’omonimo appuntamento del 19 Giugno al Centro Sportivo Italtel di Settimo Milanese con Laurie Lewis e Heather Myles e dal Festival di Interlaken (primo weekend di Luglio) con Carlene Carter e i Bellamy Brothers.
Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 47, 1999