Dan Crary picture

E’ raro poter riuscire ad organizzare interviste radiofoniche con musicisti country, dato il limitato numero di concerti che normalmente si tengono nel nostro paese. E non è detto poi che questi dispongano di tempo libero da dedicare alla promozione.
I rari ‘tour’ sono infatti quasi sempre di poche date, molto spesso ‘buchi’ da colmare all’ultimo momento da promoter svizzeri, tedeschi o olandesi che organizzano le visite europee degli americani partendo dalla loro zona.
Non è stato il caso di Tim O’Brien & Darrell Scott, in Italia per una decina di giorni, più per vacanza che per lavoro, e nemmeno di Dan Crary, ormai quasi di casa qui da noi da quando collabora con Beppe Gambetta. L’intervista che segue è stata rilasciata lo scorso maggio, dopo il gran successo del concerto genovese ‘Chitarre dal mondo’ …

Ciao Dan, come va?
Ciao Maurizio, bene, davvero molto bene.
Questa è una delle tue tante visite in Italia. Riusciresti a dire quante sono state in questi anni?
Tante, troppe per ricordarle tutte. Ma è sempre un piacere venire qui, quindi spero di tornare ancora.
Come è andato il tour?
Abbiamo avuto diverse belle serate, particolarmente quella organizzata a Genova il 28 aprile dal Signor Gambetta, un vero e proprio successo, tutto esaurito con 1.100 spettatori entusiasti e urlanti. Un gran bel tour.
Parliamo della tua vita. Dove sei nato e cresciuto?
In Kansas, ma da un bel po’ vivo in California.
Quando hai cominciato a suonare la chitarra?
Ne è passato di tempo, era il 1952
E la chitarra flat-picking?
Credo di aver cominciato a suonare con la tecnica flat-picking perché non ne conoscevo altre… Nel ’52 con c’erano così tanti stili chitarristici come è possibile ascoltare oggi in una città come Milano o Los Angeles. A Kansas City si suonava la chitarra elettrica o la chitarra acustica ‘standard’. I maestri che mi insegnavano a quel tempo suonavano la standard guitar, non avevo mai sentito altro che suonare la chitarra ritmica col plettro, mai la chitarra flat-picking o finger-picking. Fu una mia ricerca personale, senza riferimenti. E’ così che cominciai.

Ciò che si dice e si legge è che tu sei stato uno dei primi musicisti bluegrass a cimentarsi nella tecnica flat-picking
La tecnica flat-picking era stata già utilizzata molto tempo prima che cominciassi a farmi conoscere. Il primo flat-picker è probabilmente stato Hank Snow (si ascoltino i dischi dei Delmore Brothers in particolare e di altri old timers degli anni ‘30, si scoprirà che nell’old time erano diversi a lanciarsi in fraseggi molto vicini a quello che viene oggi comunemente definito flat-picking. Ndr). Negli anni ’50 si cominciò ad ascoltare qualche assolo da parte di Don Reno, Bill Napier e George Shuffler, ma bisognò attendere fino agli anni ’60, quando Doc Watson e Clarence White cominciarono a definire un vero e proprio stile. E’ in realtà una lunga storia, di cui io cominciai a far parte soltanto in quel periodo.
Se un merito deve essermi attribuito, è sicuramente quello di aver dato un ruolo decisivo alla chitarra flat-picking nel contesto di una formazione bluegrass. Eravamo nella seconda metà degli anni ’60, con i Bluegrass Alliance, la prima formazione che prevedeva che la chitarra eseguisse degli assolo regolarmente, come il mandolino, il banjo o il fiddle.
Come ricordi il periodo dei primi anni ’60 quando cominciarono ad essere organizzati bluegrass festival, una tendenza che si consolidò a tal punto che oggi se ne contano centinaia negli USA e non solo.
E’ proprio come dici, gli anni ’60 lanciarono questa nuova maniera per i musicisti di raggiungere ampie fette di pubblico. La mia prima esperienza sul palco di uno di questi festival risale al 1969, non credo di aver suonato poi così bene in quell’occasione, ma certo fui l’unico chitarrista a suonare assoli con la chitarra flat-picking.

Abbiamo parlato un bel po’, a questo punto credo opportuno far ascoltare un brano. Ho scelto un medley degli Stanley Brothers tratto dal disco Guitar del 1991 registrato con Mark O’Connor, Sam Bush, Bela Fleck, Byron Berline, John Hickman, etc. Cosa ci dici di questo disco?
Questo è stato un ritorno in studio a mio nome dopo parecchi anni, dalla registrazione del debutto intitolato Bluegrass Guitar del 1970 e Sweet Southern Girl del 1979. Successivamente mi dedicai ai miei studi universitari e a varie collaborazioni discografiche con diverse formazioni, fino al 1991, anno in cui registrai Guitar.
Ci puoi descrivere la tua evoluzione stilistica?
E’ difficile parlarne, certo un grosso cambiamento c’è stato, ed è legato alla scelta di abbandonare le situazioni di gruppo per dedicarmi alla carriera solista o in duo con Beppe Gambetta. Suonare in una band implica un approccio decisamente diverso alla chitarra, sia dal punto di vista ritmico che solita.
Cosa ascoltavi quando eri giovane?
Principalmente country music. Alla radio allora non ascoltavi molti generi. In quegli anni riuscivo ad ascoltare soltanto musica classica, un po’ di blues ma soprattutto, come dicevo, country music.
Più o meno ciò che è scritto nella maggior parte delle biografie di artisti country. La radio è stata molto importante anche per te. In Kansas riuscivi a seguire la Grand Ole Opry?
Si, anche se ero molto lontano da Nashville. Il segnale era buono.
Kansas City è una città che ha sempre proposto una buona quantità di ottima black music, soprattutto negli anni ’40 e ’50. Quanto è stata importante per te?
L’ho ascoltata più tardi. La musica dei neri era limitata da una mentalità razzista molto diffusa nella società. Solo più tardi ho scoperto la grandezza degli artisti blues.
Torniamo alla chitarra flat-picking. Quando hai scoperto la musica di Doc Watson?
Erano i primi anni ’60, all’inizio della sua carriera discografica. Subito, dal primo ascolto, mi resi conto che si trattava di un meraviglioso chitarrista e anche cantante. Suonavo già da una decina di anni, e questo mi permise di apprendere quanto di più interessante trovavo nel suo stile e lo integrai a quello che facevo. Non credo di aver mai volutamente copiato quello che faceva Doc Watson, ma oggi ciò che io e Beppe Gambetta stiamo facendo è comunque ‘pagare’ un tributo alla musica di Doc & Merle Watson.
Vuoi dirci qualcosa circa il disco ‘Take A Step Over’ del 1989 che ci andiamo ad ascoltare ora?
Ha degli alti e bassi. Mi piacciono particolarmente i brani strumentali, ho un forte legame con alcuni brani che mi ricordano l’infanzia e che ho voluto inserire in questo disco.

Quale chitarra usavi in queste registrazioni?
La prima ‘Dan Crary Signature Model’ della Taylor. Fu prodotta da Stuart Mossman seguendo mie precise indicazioni. Volevo un suono bilanciato tra i bassi e gli alti, che abbattesse l’eccesso di suoni bassi caratteristico di questo tipo di chitarre, al fine di possedere un nuovo strumento che meglio si adattasse alle esigenze dello studio di registrazione.
Parliamo ora di un’altra tua esperienza di gruppo, quella vissuta con gli amici Byron Berline e John Hickman.
Byron verso la fine degli anni ’70 stava ormai chiudendo la parentesi Sundance. La nascita del nostro trio va attribuita ad una casuale circostanza che si rivelò fondamentale. Un promoter giapponese contattò Byron chiedendogli di andare nel suo paese, ma in trio, poiché non disponeva di molti soldi. Fatto il tour e visti i risultati decidemmo di rimanere assieme.
Ho letto da qualche parte una dichiarazione del periodo con la quale giustificavate l’assenza di un bassista sostenendo che la mano destra ‘pesante’ del chitarrista non ne faceva sentire la mancanza.
Si, è vero, aggiungi però che dovetti completare il mio lavoro di chitarrista ritmico apportando giri di basso normalmente non necessari. E poi fu anche una sfida a noi stessi…
Ma nel 1989 ve ne siete usciti con un LP che portava come titolo ‘Now We Are Four’
Sì, a un certo punto cominciammo a sentire l’esigenza di avere un vero cantante lead che suonasse anche il basso, lo trovammo in Steve Spurgin e con lui registrammo questo album, uno dei miei preferiti.
Domanda obbligatoria: come ti sei trovato a suonare in Italia, come reagisce il pubblico ai tuoi concerti?
In Europa mi è sembrato il più caldo. E’ un piacere suonare per voi. E poi, lasci il palco vai a tavola e trovi un altro motivo per cui vorresti tornare spesso!

So bene quanto apprezzi questo aspetto del nostro paese. Tu ami la tavola e il buon vino, Beppe si diverte molto anche ai fornelli, quindi ottima intesa anche al di là del rapporto musicale…
Già, beata chi lo sposa (ride), se fossi donna ci penserei (Beppe, magari non lo sapete, si è sposato di recente! Ndr)
E’ Beppe il chitarrista con il quale hai avuto la più lunga collaborazione professionale…
E’ una delle persone con cui vado più d’accordo, si viaggia bene con lui e insieme viaggiamo molto.
Chiudiamo col disco ‘Synergia’, registrato dal vivo in coppia con Beppe Gambetta…
Ci abbiamo lavorato duramente per tre anni, tre anni di concerti e registrazioni, ora siamo un po’ stanchi e ci vogliamo concentrare nel venderlo…
E’ distribuito? E la promozione?
Lo abbiamo mandato un po’ a tutti gli addetti ai lavori. Radio RAI lo ha già trasmesso diverse volte, anche altre radio, le recensioni sono state positive, e la distribuzione è IRD.
Chiudiamo con Mozart, la vostra versione dal vivo di un brano comparso già nel disco Guitar, il titolo era Memories Of Mozart (Rondo Alla Turka), ora nel disco live è diventato Mozart In Hell…
Lo suoniamo sempre volentieri, sperando però che nel pubblico non vi sia qualche musicista classico che voglia schiaffeggiarci. Non è ancora successo…

Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 61, 2002

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