Dave Keyes. Eclettismo e radici picture

Molto richiesto come sideman, Popa Chubby in primis, ma anche molti altri, l’ottimo pianista di New York conduce in parallelo una carriera solista che conta già sei album. In essi dimostra una buona vena compositiva ed interpretativa, una sintesi di molte componenti di musica americana, con il blues mai troppo lontano ed elementi rhythm and blues, gospel o soul. Sempre attivo in proprio o al fianco di vari artisti (Ronnie Spector ad esempio), di recente ne abbiamo apprezzato il lavoro accanto a Marie Knight nel disco dal vivo editato dall’etichetta di Mark Carpentieri (Il Blues n. 143), Keyes ha trovato il tempo di risponde alle nostre domande.

Hai dedicato il tuo ultimo disco a Leon Russell. E’ stata una influenza particolare sul tuo stile?
Sono cresciuto all’epoca di Hendrix e di band guidate da chitarristi. Leon era una eccezione perchè suonava il piano, sì c’era Elton Johhn, ma il modo di suonare di Leon era intriso di swamp blues e gospel e mi piaceva molto di più del pop di Elton. Leon sapeva combinare vari stili, era forte! Lo vidi nel film Mad Dog & Englishmen, era lui il leader della band che accompagnava Joe Cocker e pensai che fosse formidabile.

Parlaci ancora del disco, The Healing è molto compatto e curato negli arrangiamenti e alcune canzoni hanno un bel messaggio.
Grazie. Ci è voluto un po’ di tempo per realizzarlo. Per prima cosa ho inciso le parti ritmiche, c’è stata una session nello studio di Popa Chubby, abitiamo vicino e suoniamo sempre sui rispettivi dischi. Poi una session in un altro studio a Brooklyn dove Arthur Neilson, del gruppo di Shemekia Copeland, ha suonato la chitarra. In quel momento stavo lavorando con tre o quattro gruppi diversi e mi era venuta l’idea di mettere tutti loro sul CD. Sono stati molto disponibili nell’accettare di farne parte. Chubby, col quale lavoro costantemente, Arhtur col quale ho suonato sovente, Alexis P. Suter e Vicky Bell, con cui sono stato in Svizzera lo scorso anno hanno registrato alcune parti vocali. E’ stato un processo graduale che si è evoluto man mano.

Hai accompagnato per un lungo periodo Marie Knight, una traccia della vostra collaborazione è il recente Live su etichetta M.C. Che ricordi hai di lei? Cantava ancora benissimo ad oltre ottant’anni.
Nel disco in studio c’era Larry Campbell, che conosco dalla metà degli anni Ottanta, abbiamo suonato insieme in una big band di swing per un po’ e poi suonavamo entrambi nello stesso circuito di country music negli anni Ottanta e primi Novanta. Ha anche suonato su un mio disco, Roots In The Blues.
Incise il disco ma era troppo occupato per andare in tour con lei, all’epoca suonava nel gruppo di Levon Helm. Così mi chiesero di accompagnare Marie dal vivo. Non abbiamo fatto prove, solo una volta e per solo un’ora, non le piaceva molto provare, però dopo qualche concerto abbiamo trovato un’ottima intesa e gli show sono andati molto bene. Marie era incredibile. Una fortuna e un piacere lavorare con lei. Anche se era una donna di chiesa era in grado di gestire senza problemi tutte le situazioni che si presentano in tour. Era musica molto onesta quella che facevamo.

Come hai cominciato a suonare il piano? Che musica ascoltavi da bambino?
Ho preso lezioni dall’età di sette anni fino ai diciassette. Ascoltavo di tutto da ragazzino, molto jazz e blues, Ray Charles, rock ’n’roll e canzoni pop, i Beatles e qualunque cosa passasse alla radio. Mia madre cantava e mi incoraggiava a suonare.

Cosa ti ha attratto del blues?
Credo di aver avvertito una corrispondenza con esso più che con altre musiche. Da adolescente ascoltavo gli Allman Brothers e cose del genere e poi sono andato a ritroso, ho scoperto Muddy, Howlin’ Wolf e tutti gli altri. Dall’altro lato ho anche avuto la possibilità di vedere gente come Earl Hines, Willie ‘The Lion’ Smith e Eubie Banks, perché c’era un certo revival ragtime in quegli anni.

Hai registrato e proponi dal vivo dei pezzi gospel, ad esempio cose di Sister Rosetta Tharpe, cosa rappresenta per te?
E’ una sorta di connessione emotiva con la musica. Il gospel è una musica che parla al cuore ed è spesso catartico, fa sentire meglio le persone. E secondo me è quello che la musica dovrebbe fare, in fondo è alle origini del rock’n’roll.

Hai anche suonato con un’altra donna carismatica, Odetta. Che tipo di esperienza è stata?
Odetta era straordinaria, nel suo canto ogni parola contava, ogni nota aveva un peso, un’intenzione e il pubblico lo percepiva e l’acclamava. Non era facile perché in quel periodo non stava bene fisicamente e quando viaggiavamo eravamo soltanto io e lei, perciò c’erano molti altri aspetti pratici di cui occuparsi al di là della performance, ma è stato molto appagante. Ho imparato molto da lei, proprio in un senso spirituale.

E di Bo Diddley? Sul palco hai raccontato di essere venuto in Italia con lui la prima volta, negli anni Novanta.
Bo era grande! Si divertiva come un bambino con i suoi gadget elettronici e la chitarra cigar-box era un bluesman vero, molto creativo e una bella persona. Con lui siamo andati anche in Giappone e in varie parti d’Europa.

Suoni anche con Ronnie Spector.
Sì sono nella sua band da circa dieci anni. Non lavora molto ma quando lo fa la musica suona ancora bene. A giugno avevamo qualche data in Spagna.

Hai suonato molte volte a Lugano ed eri amico di Norman Hewitt, scomparso lo scorso ottobre.
Norman era una persona incredibile e un caro amico. Mi manca molto. Ha creato questo festival e per trent’anni ha portato musicisti di tutti i tipi, facendo ascoltare al pubblico musiche che altrimenti non avrebbero mai sentito. Amava creare situazioni in cui si combinavano sul palco, magari per la prima volta, musicisti di diverso stile ed estrazione. Ad esempio una volta al Blues To Bop ho suonato con Oliver Lake e Norman ci disse, «potete trovare alcune canzoni da suonare insieme, no?» e così abbiamo fatto, anche se Oliver è più un musicista jazz d’avanguardia. Si trattava di trovare un linguaggio comune e ha funzionato. Norman era interessato alle persone e alle loro interazioni, era appassionato alla vita e alle possibilità di spezzare delle barriere precostituite, ma amava anche un bello shuffle in dodici battute stile Chicago. E’ stato grazie a lui se mi sono messo a suonare più gospel, perché ogni anno invitava a Lugano gruppi gospel.

Lo hai menzionato prima e in effetti tu e Popa Chubby collaborate da anni, com’è nata la vostra amicizia?
 Ci siamo incontrati una ventina d’anni fa. Eravamo solo due musicisti della scena di New York. E’ a sua volta pieno di passione per quello che fa e tra noi, anche prima di iniziare a suonare insieme, si è subito creato grande rispetto reciproco. Ora viviamo anche a poca distanza l’uno dall’altro perciò lavorare insieme è ancora più facile.

Hai lavorato anche con altri chitarristi, come lo scomparso Bill Perry, quali sono le caratteristiche che deve avere un chitarrista?
In genere mi piacciono quelli che sanno ascoltare la canzone che stanno suonando e non si limitano a fare la loro parte, ma sono attenti alle dinamiche interne del brano. Questo fa la differenza. Chubby suona col mio gruppo ogni tanto, a concerti locali, per il piacere di suonare e di solito la gente è impressionata dalla sua capacità di stare dentro il brano. E’ sempre Popa Chubby, ma suona alla grande anche come sideman. Stessa cosa con Arhtur Neilson o con Perry. Non si tratta di talento o tecnica, anche se certo aiuta, piuttosto nella capacità di suonare nella band e con la band.

Hai un tuo gruppo? Tieni anche concerti da solo a volte?
Ho una mia band e suono spesso anche da solo. Anzi quando sono in tour con Chubby in Francia o in Germania di solito faccio un set da solo d’apertura di quarantacinque minuti. Quando suono da solo tendo a suonare in modo diverso, perché il suono sia più pieno, inoltre improvviso di più perché non devo preoccuparmi che gli altri mi seguano.

Collabori con band in Europa, come Heggy Vezzano e i ragazzi con cui ti abbiamo visto in Italia?
Dipende, ad esempio al Blues To Bop ho collaborato spesso con musicisti europei. Ci sono musicisti inglesi coi quali ho suonato nel Regno Unito come il batterista Steve Rushton, il chitarrista Steve Williams e a volte Elliott Randall che in passato era con gli Steely Dan. Heggy, Pablo e gli altri sono molto bravi, mi sono divertito molto a suonare con loro.

Come è nato il disco a nome Harmonious Five, con materiale R&B anni Cinquanta e Sessanta? Avete avuto i complimenti di Bettye Lavette, un bell’onore.
Il disco è frutto dell’amicizia con gli altri membri della band e ad un certo punto abbiamo deciso di registrare un disco e mixarlo da noi. Ci sono voluti anni per finire il missaggio, molto meno per le incisioni, ma alla fine siamo stati contenti del risultato. Quanto a Bettye Lavette, lei è una nostra amica e abita in zona, perciò a volte veniva ai nostri concerti.

Sentendoti suonare ci sembra evidente che tu apprezzi la musica di New Orleans di pianisti come Professor Longhair, Allen Toussaint o Dr. John.
Assolutamente. Amo l’aspetto ritmico della musica di New Orleans. Ero solito aprire i concerti di Dr. John a New York e la sua musica si è come trasferita su di me.

Quanto è cambiata la scena blues di New York da quando ne sei parte?
E’ cambiata parecchio, al punto che hanno chiuso molti club perché il settore immobiliare è alle stelle e i prezzi sono alti. Di conseguenza ci sono molti meno posti dove suonare e non pagano quanto una volta.

Come mai ci sono così pochi pianisti al giorno d’oggi?
La gente fa musica coi computer ora invece che con veri strumenti. Si creano canzoni dai loop elettronici. Per carità il processo creativo si evolve sempre, ma rispetto ad imparare a suonare uno strumento è molto diverso. Mi sembra che oggi si cerchi una gratificazione immediata. Per la tastiera sai abbiamo dieci dita e bisogna imparare dove metterle. Ci vuole tempo e pratica!

Con chi altri ti piacerebbe collaborare?
La lista sarebbe lunga…però ultimamente ho fatto alcuni concerti con Bernard Purdie, un grande batterista, mi piacerebbe incidere qualcosa con lui.

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 146, 2019

Link amici

Comfort Festival 2024