David Grisman - Hot Dawg cover album

Ma piantiamola con certe cretinate! Adesso è arrivata la dawg music… e giù fiumi di inchiostro sul significato di questa parola solo perché un tipo egocentrico ha trovato divertente l’idea di coniare un’altra etichetta per definire il proprio modo di interpretare il jazz. È infatti il buon vecchio acustico jazz che si ascolta in quest’album, eseguito da musicisti purosangue con una mostruosa preparazione tecnica. I termini swing-grass o jazz-grass sono diventati troppo angusti e l’unico strumento che potrebbe ancora far pensare alla matrice bluegrass, il mandolino, non ha assolutamente più nulla da spartire qui con la musica che lo ha reso tanto popolare. C’è un illustre precedente: Dave Apollon, un incredibile virtuoso che incise ragtime durante gli anni trenta e quaranta, faceva uso di un Gibson F-5 (il mandolino bluegrass per antonomasia), ma giammai si sognò di precedere Bill Monroe o di seguirne le orme.

Sparita dunque completamente ogni traccia di bluegrass, che invece affiorava qui e là nel precedente LP (David Grisman Quintet), ed abbandonata la timida sperimentalizzazione per un lavoro a lungo meditato e compiuto, David Grisman, Tony Rice, Darol Anger (fiddle) e Todd Phillips (passato per l’occasione dal mandolino al contrabbasso) presentano otto strumentali che danno un quadro molto preciso dei progressi raggiunti e dell’evoluzione dei due protagonisti principali. Grisman ha fatto passi da gigante negli ultimi anni: dalla musica tradizionale, frutto dell’amicizia con la Carter Family (si è improvvisato editore nel 1967 di un discreto disco di Joe e Janette Carter per l’etichetta County), all’esperienza di Muleskinner, al country del disimpegno (Linda Ronstadt, James Taylor), alla pura ricerca formale.

A naturali doti di prolifico compositore (Dawg’s Bull, Dawg-Ola, Janice), David unisce esecuzioni impeccabili sull’orlo della perfezione stilistica ed un sorprendente tecnicismo (16…16). E qui sta, a mio avviso, il limite: il mandolinista non ha ancora trovato il giusto equilibrio tra freddo virtuosismo, musica cervellotica e sentimento. Gli consiglio di ascoltare più John Duffey (un artista che ha capito tutto) e meno Stockhausen. La strada percorsa da Rice non è dissimile da quella dell’amico, e che sarebbe approdato al jazz era già implicito nel suo modo di costruire e sviluppare le parti soliste nell’ambito di gruppi dichiaratamente non bluegrass. Basta infatti rispolverare brani come Bugle Call Rag (c/o il primo a solo, Rebel SLP-1549) o Free Born Man (c/o l’introduzione, nel giapponese live Towa TWA-106) per scoprire la vera dimensione e le possibilità del chitarrista virginiano che fa certamente onore alla 1934/Martin D-28 di Clarence White in suo possesso (e non è difficile immaginare che una grandissima parte di White sia rimasta nello strumento).

Devlin e Neon Tetra sono le sue composizioni presenti in questo Hot Dawg e, soprattutto la seconda, mostra la firma d’autore nella scelta di tempo ed accordi. Le prestazioni di Anger e Phillips, pur ad alto livello, vengono letteralmente offuscate in due brani da Stephane Grappelli (violino) ed Eddie Gomez (eccezionale contrabbassista in Minor Swing), due celeberrimi ospiti che non hanno certo bisogno di presentazione. E che dire delle composizioni? Ogni titolo è una storia a se ed essendo musica in parte scritta (altro grosso limite), quindi con un lungo periodo di gestazione e con un grosso lavoro di cesellatura, richiede un ascolto attento ad ogni minima sfumatura, bandendo l’approccio semplicistico.

È musica colta, magistralmente eseguita, spesso difficile, che può sortire effetti sorprendentemente differenti a secondo della sensibilità di ciascuno, del proprio modo di recepire, persino dell’umore del momento. Non mi stupirei affatto se uno buttasse il disco dalla finestra ed un altro lo votasse tra i migliori del 1979! Sono infine persuaso che non serve a nulla, ma voglio citare la mia preferita: Dawgology (di Grisman e Richard Greene) che, con i suoi chiaroscuri, i toni cupi e sereni, la costante tensione, le spigolature, l’atmosfera in bilico su elementi del folklore mediterraneo (iberico ed arabo), la melodia che si distrugge e si ricrea, la giocosità barocca ed il senso di pacatezza finali (un altissimo grido ed un’invocazione alla speranza), mi ricorda la famosa tavola di Pablo Picasso dedicata alla città di Guernica. Tutto sommato, un disco eccellente, anche se personalmente preferisco un tipo di musica più terra terra, ma più spontanea, più comunicativa ed assai più ricca per retaggio.

Horizon SP 731 (Dawg Music, New Acoustic Music, 1979)

Pierangelo Valenti, fonte Mucchio Selvaggio n. 19, 1979

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