Inutile. Superflua. Ci riferiamo all’introduzione con cui, da tempi ormai lontani, presentiamo brevemente l’ospite delle nostre interviste. Ce ne sfugge oggi il senso quando il personaggio risponde al nome di Fabio Treves che, oltre ad essere stato musicalmente uno dei pionieri del Blues Italiano, iniziò a collaborare proprio con questa rivista dal dicembre del 1982 (ovvero dal numero 1) con la rubrica La Posta Del Demonio. Se questo non è un pezzo di storia…
Dopo dieci anni esatti ci ritroviamo, attorno a questo tavolo ed a questo registratore casalingo a cassette, per sapere come Fabio Treves ha vissuto musicalmente ed umanamente la decade artistica testé conclusa. E così siamo a quarant’anni di attività, e quando saremo a cinquanta?
Non garantisco. Te l’ho già detto che non garantisco. In realtà non è successo niente di diverso dai precedenti. Cioè, spesso quando incontro i giovani studenti, musicisti o meno, dico sempre loro che alla base ci deve essere la ‘passione’ per il Blues, ma in generale per tutto quello che fai. Se non hai la passione non farai mai bene la michetta, la tomaia per le scarpe, a maggior ragione il Blues. Perché il Blues ti insegna sempre qualcosa ricco di valori. Quanti musicisti sono stati salvati dalla loro passione per il Blues, e quanti di loro che non vedevano la luce alla fine del tunnel si sono attaccati al Blues ed alle speranze che dà, al riscatto sociale ed alla voglia di vivere insite in lui. Perché, come abbiamo sempre detto, il Blues non è solo una musica ma uno stile di vita. Ci sono stati è vero dei fatti importanti, come un disco realizzato durante una tournée teatrale che per noi, nel 2011, ha rappresentato tanto, perché riuscire a portare migliaia di persone in teatro è stata una scommessa che ho voluto fare con me stesso e che è riuscita.
Una scommessa parzialmente ripetuta nel 2014 quando, in occasione proprio dei 40 anni della Treves Blues Band, abbiamo voluto rifare l’esperienza teatrale. Ci siamo forse montati la testa, ma siccome di rassegne all’aperto in inverno non se ne parla avevamo una alternativa: o fare tanti piccoli locali non soddisfacendo le attese della gente (non puoi lasciarli fuori) o riprovare con i teatri dotati di una buona acustica. Abbiamo iniziato con un sold out a Casale Monferrato in occasione di Book & Blues, a cui abbiamo fatto seguire il Teatro Sociale di Como con un altro sold out. Quindi se il disco Blues In Teatro si è rivelato la cosa più positiva dell’ultimo decennio, ce n’è un’altra sempre nel tour, di cui mi piace parlare e cioè di Francesco Piu. Questo artista emergente, che penso abbia avuto una grande visibilità in tour con noi, ha affinato moltissimo le sue qualità sino a diventare un personaggio rilevante del panorama musicale italiano. Sempre in questo periodo, c’è stata anche la mia partecipazione come direttore artistico in molte rassegne quali Blues In Idro e Bloom In Blues di Mezzago, oltre al decennale della mia presenza come conduttore a Lifegate Radio che, all’inizio, comprendeva anche gruppi emergenti in studio quali Veronica Sbergia e Max DeBernardi,Tea Spoon Quartet Cava Blues Band, Francesco Garolfi, Francesco Piu. Non dico tutta gente che ho scoperto perché sarebbe presuntuoso da parte mia, ma che ho aiutato a capire meglio i meccanismi di questo Blues che in Italia è ormai una realtà.
Taglio così il traguardo dei 40 anni di attività all’insegna sì della fatica, della coerenza e della passione per il Blues, ma anche della grande soddisfazione di vedere che il pubblico del blues e quello della TBB è cresciuto e che se quindi posso permettermi dei teatri di grande capienza lo devo anche a questo grande pubblico. Siamo partiti, non solo io ma anche tu, con la gente che strabuzzava gli occhi dicendo ma il blues non è il jazz, condendo l’idea con qualche sorrisino e qualche sberleffo e con un figurati se il blues…Eppure con tanta tenacia e passione, nonostante fossimo partiti in sordina, adesso chi ci ha creduto e ha lavorato bene raccoglie e chi non raccoglie peccato per loro. Ci sono molti che dicono «Sei stato fortunato». No, non sono fortunato ho fatto centinaia di concerti no profit (ma allora si chiamavano di solidarietà), di beneficienza, ho fatto cose che qualcun altro non avrebbe fatto, ma così è stato perché per me il Blues era tutto. Certo che quando leggi le biografie dei grandi del Blues dici ma porca vacca devo ritenermi fortunato perché quello lì doveva andare sul trattore 10 ore al giorno, l’altro zappava da mattina a sera, qualcuno faceva l’idraulico o la guardia giurata notturna, quindi meno male perché ho un lavoro e la sera posso suonare Blues. Basta con le lamentele. Bisogna tirarsi su le maniche: c’è da suonare in carcere, c’è da fare la cosa gratuita, c’è da fare la trasmissione, c’è da parlare nelle scuole, lo si fa e basta perché noi gente di blues nostrano siamo dei fortunati. Quelli lì, solo perché avevano la pelle nera, li prendevano a cinghiate e non avevano nessun diritto e nessuna possibilità di scegliersi un lavoro. Quindi rispetto per i grandi del passato, perché è stato proprio quel rispetto che mi ha dato la grinta giusta che mi ha permesso di raggiungere quei traguardi che assapori maggiormente, perché in fondo sono proprio quelli che nascono dalla tua fatica e che nessuno ti ha regalato.
In questi 40 anni pensi di aver commesso degli errori?
Sì, tanti, tantissimi. Il primo è stato quello di non aver dato retta a Marino Grandi quando mi diceva che «quella è una sezione ritmica fracassona, rockettara». Gli errori sono molto più dal punto di vista musicale che non umano. Probabilmente, se a 30 anni avessi avuto la testa che ho adesso non li avrei commessi. Dal punto di vista della produzione discografica, non ho assolutamente nessuna remora a dire che non è una cosa che mi interessa. Così mi interessano quelle poche cose che ho fatto perché c’era un racconto alle spalle. Infatti avendo voluto bene a Verl Cooper, in arte Cooper Terry, posso affermare che il disco in acustico con lui, che non è la fine del mondo, mi fa ancora venire la pelle d’oca. Il brano inciso con Chuck Leavell, presente in Sandy’s Blues, lo sento, lo risento e lo faccio ascoltare e magari non faccio ascoltare cose più recenti, perché sono uno che non riesce a scindere la musica dalle persone. Quindi ho commesso degli errori sulla spinta dell’entusiasmo, della buona fede, della passione, ma non mi piace neppure avere dei rimpianti del tipo «ah, se avessi fatto…», sarà per la prossima vita.
In questi 40 anni, anticipando una tua domanda, mi ha fatto piacere suonare con alcune leggende come Homesick James, molto difficile a livello caratteriale, Mike Bloomfield, Frank Zappa, Warren Haynes, Chuck Leavell, e queste sono collaborazioni che non sbandiero ai quattro venti ma che mi hanno fatto capire che non esiste distinzione di razza o di lontananza che possa inficiare la passione con cui sono state vissute. Ho una registrazione di It Hurts Me Too con Haynes per un duetto voce, chitarra e armonica. Il che sarebbe normale se non che Warren si accorge di aver dimenticato il bottleneck in albergo. Siccome non c’era tempo per ricuperarlo, ed eravamo in una sala in cui si faceva scuola ai bambini, Warren vede un flauto di legno probabilmente dimenticato da qualcuno. Allora, usando un coltellino multiuso, Haynes tagliò un pezzetto del legno cavo ricavando un bottleneck che subito si infilò al dito. Di slide ne avevo visti di tutti i tipi, ma di legno mai. Ma tornando agli errori, ripeto che sono tutti accaduti ad incomprensioni dovuti ai diversi caratteri delle persone che conducono poi a litigi tra i musicisti. 124 persone sono passate dalla Treves Blues Band nel corso di questi anni, e con pochissimi di loro ho mantenuto rapporti di amicizia, perché c’era chi voleva fare jazz, chi funky, chi rock, chi progressive, ma a me piace il blues in tutte le sue sfumature. Vado ad un concerto di John Hammond e mi commuovo, la stessa cosa mi capita con John Mayall, e quanto mi piacciono anche quelli un po’ pesanti come Joe Bonamassa.
Poi c’era anche Rory Gallagher…
Gallagher è sempre stato un mio idolo, e ho avuto la possibilità di ascoltarlo agli albori della sua carriera e successivamente all’isola di Wight. Era uno che sapeva interpretare il blues alla sua maniera, ma ti faceva venire i brividi. Ricordo una sua versione di un brano di Muddy Waters in trio con l’armonicista dei Nine Below Zero ed un mandolinista…una favola. In effetti in questi 40 anni sono stati più i momenti belli che non quelli tristi, come aprire il concerto di Stevie Ray Vaughan, di James Cotton, degli ZZ Top e conoscerli più da vicino. Ecco perché la più grande soddisfazione è che penso di essere, a pieno titolo e senza pericolo di essere presuntuoso, uno di quelli che ha contribuito alla diffusione del Blues. Sono più contento che mi scrivano giovani musicisti dicendomi che vorrebbero mandare un loro demo, che non dire perché ho fatto quel disco lì o quel concerto là, perché il disco rimane senz’altro ma quello che conta di più per me è l’affetto della gente che non quanti dischi vendo. Se fosse stato per me non avrei neanche fatto i dischi, non mi interessano e soffro in sala di incisione; mi piace suonare in concerto, scendere dal palco e stare a contatto con le persone. Poi tornando alla produzione ed avendo sempre bisogno di una band, perché con l’armonica fai il treno e poi hai finito lì, o sei così bravo ed autoritario da dire i pezzi sono questi e si fanno come dico io oppure quella è la porta, così chi c’è c’è e chi non c’è amen.
A questo punto, essendo stato sempre io molto democratico, bastava che qualcuno si allargasse un po’ di più perché la TBB diventasse più rockettara, più funky, più jazzofila, più di qua o più di là. Devo ammettere che sono stato fortunato, perché ho incontrato musicisti che hanno assecondato questa mia passione finendo per conferire alla band una sua versione omogenea. Però ripeto, un conto è la musica prodotta e un conto il messaggio che tu dai, e quello che ho sempre cercato di dare è: se ci credi rimboccati le maniche, suona e comportati bene. Qualcuno dirà ma che messaggio è questo. E’ un messaggio importante perché nel Blues spazio per i fenomeni o per quelli che se la tirano non ce n’è, perché questa musica mi ha insegnato che sei bravo anche se stai in un camerino di un metro per un metro (vedi B.B.King a Pistoia nel 1984) o ti cambi nel prato dietro il palco. Ciò dimostra che la grandezza di un musicista sta nel fatto di essere una grande persona prima di essere uno che sa dove mettere le mani quando suona. E siccome c’è un proverbio che dice che nella vita ricevi per quello che hai dato, e in quanto credo di non aver mai fatto una cattiveria con la consapevolezza di fare del male, anche se ho mandato tante volte a quel paese dove ormai non c’è più posto.
Dieci anni fa dicesti che la cosa fondamentale era, o sarebbe stata, il ritornare a fare musica nelle scuole…
Devo dire che questo in parte, e non a livello istituzionale purtroppo, si è verificato. Scusami ma oggi non credo più nelle istituzioni, che trovo talmente lontane dalla gente e dai suoi bisogni, che sarebbe stato bello, e lo ripeto, se ci fosse più cultura musicale nelle scuole non solo di Blues, ma di cultura generale. Poi però ti dicono che ci sono i tagli, sul tipo non abbiamo il riscaldamento e tu mi vieni a chiedere la musica! Eppure conosco tante persone che lo farebbero anche gratis, come lavoro sociale, volontariato, cosa che farei io stesso per primo se mi dicessero guarda che devi andare 2 ore alla settimana a spiegare, cosa questa che faccio già quando mi chiamano nei licei, nelle scuole medie o elementari dove, ovviamente con modalità diverse, spiego cos’è il Blues, consigliando dischi e libri che possono aiutare. Perché se cominciassero a leggere Paul Oliver, Alan Lomax, le biografie di Muddy Waters e B.B. King, sarebbero già sulla buona strada. Il sogno quindi è ancora nel cassetto, perché le istituzioni sono sorde, ma non da apparecchietto amplifon, ma sorde totali a qualunque istanza di cultura. Ma cosa devo dirti caro Marino, ti tagliano i titoli di coda dei film trasmessi dalla Rai, e tagliarli è come regalare un libro senza le ultime 10 pagine o un CD con le ultime 3 tracce rigate, perché la cultura dilagante è quella dei talent show e degli urli in tv, alla faccia della pace e della tolleranza degli uni verso gli altri.
E non hai paura che a volte, specialmente tra le nuove generazioni, dilaghi la cultura di Wikipedia (con ciò senza nulla togliere alla bontà dell’esperimento) e cioè sapere subito oggi quello che domani dimenticherò se non mi sarà altrettanto subito utile. Incapacità delle vecchie generazioni (le nostre) a trasmettere la curiosità, il gusto del piacere per sapere…
La prima volta, e lo confesso, che sono andato alla Biblioteca Sormani è stato perché ascoltando l’ellepì Crusade di John Mayall del 1967 mi accorsi che parlava della morte di J. B. Lenoir. Ma chi sarà costui, un suo amico o chi altro. Poi cercando di tradurre il testo ho capito che J. B. era un musicista. Allora sono andato alla Sormani e ho trovato 3 righe nella rivista inglese Blues Unlimited, da cui ho capito che questo artista, famoso per aver composto brani come Mama Talk To Your Daughter, era morto in un incidente stradale. Casa mia, Biblioteca Sormani, ricerca, fotocopie delle notizie. Questa era la trafila. Certo che per della gente come noi, che eravamo dei pionieri allora e che quando andavamo nei negozi di dischi e chiedevamo quelli di Blues ci sentivamo rispondere «guardi lì abbiamo il Jazz, provi ma non so se li troverete», la cosa ci sembrava normale. Questo andò avanti per anni ed anni finché, finalmente, arrivò dapprima una distribuzione efficace dei prodotti stranieri a cui seguì la nascita di etichette italiane. Certo adesso accendi il PC digiti un nome, leggi, chiudi la pagina e via. Il rischio è che sia una fast cultura. Il giorno dopo idem. Però ti dico che tra la non cultura, quella della TV ufficiale, e la cultura veloce, meglio che qualcuno sappia chi erano Charley Patton o Bo Diddley in zero secondi piuttosto che star lì a non sapere niente. Loro, i giovani, sono solo più fortunati, perché adesso hanno, se lo vogliono, possibilità enormi per sapere. Quando vado nelle scuole e dico che a 17 anni al Liceo Carducci le ragazze avevano tutte il grembiule nero, che facevano le menate per i capelli lunghi, e che per comperare le armoniche a bocca dovevo andare in Svizzera perché qui mi offrivano solo le Bravi Alpini anziché le Hohner che mi servivano.
I gruppi italiani di Blues, con tutte le possibilità che hanno, e meno male, di ascoltare la musica che viene dall’estero con tutte le implicazioni positive e negative che porta con sé, non ti sembra che invece evitino di porre in un doveroso subbuglio le proprie convinzioni.
Più che di ascolto direi che si tratta di atteggiamento più che musicale ‘personale’. Io vedo che nel panorama del blues emergente ci sono tante cose belle, che a volte mi fanno pensare guarda un po’ se questo fosse nato là anziché qui chissà quanta strada avrebbe già fatto. Quando ho iniziato c’ero io che facevo il blues alla John Mayall, poi c’erano già altri a cui piacevano di più i Colosseum, qualcuno che amava già il blues americano, e lo stesso è adesso. Ci sono quelli a cui piace ‘roots‘ con i ‘cigar box‘ e la batteria molto ruvida, quelli che stanno riscoprendo il blues acustico (e a me fa molto piacere) con dobro, ukulele e contrabbasso, gli one-man-band, i rigorosi; scusami non voglio fare la tirata ma se uno come Francesco Garolfi non fosse qua a Milano ma fosse a Boston o nel Mississippi insegnerebbe storia della musica Blues e la suonerebbe, non dico come Rev. Gary Davis o Mississippi John Hurt ma quasi, così come Veronica Sbergia e Max De Bernardi fanno fare una bella figura a chiunque li presenti.
Ho conosciuto un ragazzino venuto dal Sud che mi ha fatto ascoltare un suo disco e l’ho trovato veramente bravo; si chiama Fabrizio Canale e successivamente è arrivato in finale alle selezioni italiane dell’European Blues Challenge. Cioè vanno avanti, e hanno successo non di vendite ma di pubblico, quelli che escono un po’ dal solito giro dell’imitatore del clone dell’imitatore del clone di Stevie Ray Vaughan; così come hanno successo gli armonicisti che non seguono pedissequamente Little Walter o Norton Buffalo, perché secondo me ognuno deve essere se stesso e mi sono accorto che non ho imitato nessuno. Infatti l’altro giorno uno mi ha fermato in strada per chiedermi: «Scusa, ma toglimi una curiosità. Tu hai fatto un disco con gli Articolo 31?». Gli ho risposto «Perché?». Al che lui replicò: «Così, perché mi sembrava tua l’armonica che suonava per Jax, però mi pareva strano che fossi proprio tu». «Sì, ero io». «Ah, vedi che avevo ragione». Il suono devi averlo dentro, non hai bisogno dell’armonica così, dell’amplificatore cosà, del microfono astatic. Per l’amor del cielo servono anche loro, ma sono degli optional aggiuntivi non fondamentali. L’altro insegnamento che dò a tutti è che essendo la musica una forma di comunicazione, è come se incontri un amico e parli solo tu per mezz’ora. Questo è un soliloquio. La comunicazione è ascoltare e poi parlare vicendevolmente. Quindi ascolta chi c’è con te sul palco, cerca di interagire con lui, perché solo allora chi assiste al concerto si rende conto che sul palco c’è una band. Se no per andare ad un concerto e spaccarsi i maroni non ci va più. Io stesso ho assistito a dei concerti dove, dopo 3 o 4 pezzi ho detto andiamo a casa che è meglio, perché se i brani sono tutti uguali non se ne può più. E parlo di artisti famosi come Gary Moore o Joe Bonamassa quando fanno quelle cose rockettone esagerate dopo 10 minuti mi hanno già stancato. Quando invece lavorano bene sul palco con gli altri musicisti, e fanno bene quel blues che esce dall’anima come dovrebbe essere sempre, allora sì che non ce n’è più per nessuno. Perché la musica è gioia, qualunque essa sia, e vado ad un concerto per essere felice.
C’è un’altra cosa che mi preme sottolineare, ed è che nel blues nessuno ti dà niente. Ci sono quelli che mi scrivono ancora oggi chiedendomi una mano per trovare una agenzia. Trovarla non vuol dire fare più concerti, ma solo trovare qualcuno che si smazza tutte le pratiche burocratiche. Infatti se la trovi non è che tu arrivi e non fai più niente. Il miglior promoter del musicista è il musicista stesso. Il mio motto “Chi fa da sé fa per Treves” fa ridere, ma infondo ha un perché: le cose devi farle tu. Ah, ma io sono il musicista e non telefono; ah sì, allora non farlo. Ma io ho mandato il mio disco e quello non mi ha neanche risposto. Ma lo sai quanti dischi può ricevere quello lì? Sei tu che devi rompere le scatole e insistere. Ah, ma io non chiedo niente a nessuno. Fai come vuoi chi se ne frega. Il mio messaggio ai giovani è: il Blues non sarà mai di moda, perché è la musica della vita non quella dello sfigato, è la musica dell’incontro, della partecipazione, dell’emarginazione, del riscatto sociale, della voglia di solidarietà, della pace, dei mille stati d’animo dell’uomo. Quindi sei tu che ti devi adoperare per la diffusione della tua musica.
(Intervista realizzata a Milano il 6 novembre 2014)
Marino Grandi, fonte Il Blues n. 129, 2014