Natalie Maines, Emily Erwin Robison e Martie Erwin Seidel… Ok magari questi tre nomi detti così potrebbero non dirvi molto ma se le mettete insieme, le chiamate semplicemente Dixie Chicks, vi troverete di fronte al fenomeno musicale più interessante della recente produzione discografica targata Nashville.
Non c’è che dire, queste tre belle ragazze si devono essere proprio divertite a stupire e smentire chi già pensava di avere a che fare con un altro dei tanti gruppi costruiti dalla major di turno, buoni per le classifiche con un paio di hits e destinati a non lasciare altro segno di rilievo. Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente, la band ha sì ottenuto un successo di vendite clamoroso ma ha saputo farlo con una qualità straordinaria, un sound che si è proposto immediatamente come nuovo, diverso dagli altri prodotti a Music City, fresco, inconfondibile.
Ecco, sì, ‘inconfondibile’ è l’aggettivo che più mi piace usare per introdurre il discorso sulle Dixie Chicks e più avanti vedremo perché. Ma per un momento lasciamo l’attualità e cerchiamo di percorrere le tappe significative del cammino artistico del gruppo. E allora dobbiamo spostarci a ovest, da Nashville andiamo idealmente a Dallas in Texas dove la band si forma e si esibisce per la prima volta nel 1989.
Si tratta già di una formazione tutta al femminile ma è un quartetto al quale partecipano le sorelle Martie e Emily Erwin, Laura Lynch e Robin Lynn Macy. Le prime due, allora rispettivamente diciannovenne e sedicenne, non erano alla loro prima esperienza musicale: Martie imparò a suonare il violino quando aveva solo cinque anni mentre Emily iniziò a pizzicare il banjo a dieci, entrambe si fecero le ossa girando per numerosi concorsi per giovani musicisti prima di entrare nel circuito dei bluegrass festivals con un gruppo acustico formato da teen-agers chiamato Blue Night Express.
L’ idea di formare le Dixie Chicks venne alla cantante-bassista Laura Lynch che voleva creare una band il cui repertorio spaziasse dall’old time al western swing, dalla cowboy music al bluegrass. Robin Lynn Macy si aggiunse come chitarrista e così le quattro cominciarono ad esibirsi agli angoli delle strade di Dallas e decisero di chiamarsi Dixie Chicken, ispirandosi ad una hit dei Little Feat. Il pubblico però iniziò ben presto ad usare il diminutivo Chicks per parlare di quelle quattro ragazze che suonavano con un pollo di gomma appeso agli strumenti ed indossando coloratissimi abiti in stile vecchio west alla Dale Evans.
Nei primi anni ’90 la popolarità locale del gruppo era altissima ed i concerti in ogni angolo del Texas andavano moltiplicandosi: il multimilionario Ross Perot le scelse come sue artiste preferite e le volle spesso con se in occasione della sua campagna elettorale, le nostre si esibivano in occasione delle partite dei Dallas Cowboys e parteciparono anche al Gala inaugurale della presidenza Clinton. Iniziarono anche negli stessi anni i contatti con Nashville, prima con qualche performance sul palco della Grand Ole Opry, poi ingaggiando un agente con base operativa nella capitale del Tennessee.
Niente male vero? Eppure il tanto desiderato contratto con una casa discografica importante non arrivava.
Nel 1990, creata la propria etichetta indipendente, uscì il primo disco targato Dixie Chicks con un titolo, Thank Heavens For Dale Evans, che la dice tutta sul repertorio di quei tempi. A questo seguirono altri due album: Little Ol’ Cowgirl del 1992 e Shouldn’t A Told You That del 1993. I tre dischi (veri e propri pezzi da collezione) vendettero complessivamente più di 90.000 copie, un piccolo record che poteva però solo far sognare quello che di lì a qualche anno sarebbe successo.
II 1995 segnò un importante punto di svolta per la band. Prima Robin Lynn Macy, poi Laura Lynch, per motivi non molto conosciuti, decisero di lasciare l’avventura, per altro non trattenute dalle sorelle Erwin che si sentivano sempre più frenate nel loro desiderio di un salto di qualità artistico.
E’ finalmente ora che nella nostra storia faccia la sua comparsa Natalie Maines, anche lei texana, anche lei bionda, anche lei educata alla musica fin da piccola anche perché figlia d’arte: suo padre è infatti Lloyd Maines uno dei più apprezzati steel guitarist del Lone Star State.
Natalie stava frequentando il Berklee College of Music di Boston quando il padre (che tra l’altro aveva partecipato a due dei dischi indipendenti) le propose di sostenere un provino con le due Chicks in cerca di una cantante.
Natalie conosceva bene la musica della band e nonostante qualche perplessità, legate soprattutto al loro repertorio, accettò di provare con Emily e Martie una canzone di loro composizione, You Were Mine un pezzo di country contemporaneo lontano dalle sonorità retro-swing e old-time del vecchio gruppo. Il risultato piacque a tutte e tre e, ciò che più conta, lo stesso provino venne all’attenzione di Allen Butler, presidente della Sony Music Nashville, intento a rifondare l’estinta Monument Records.
Le Dixie Chicks firmarono così il loro agognato contratto discografico con una major, divenendo la prima scelta della neonata casa discografica. Natalie Maines (voce solista e chitarra acustica), Martie Erwin (violino, mandolino ed harmony vocals) e sua sorella Emily (banjo, dobro ed harmony vocals) si trasferirono a Nashville, pronte a registrare il loro album di debutto.
Torniamo allora alla storia più recente, quella che forse anche voi conoscete meglio, quella del grandissimo successo e della consacrazione. Ripartiamo dunque anche noi per Music City, dove nel 1998 il disco Wide Open Spaces vede la luce e schizza in poco tempo al numero 1 delle classifiche country, facendosi rispettare anche nelle pop charts. Le 14 canzoni del CD portano nel new country nashvilliano un’energia nuova, grazie ad uno stile musicale non convenzionale e ad arrangiamenti che alternano i suoni elettrici dei session-men (tra i quali Lloyd Maines alla steel e Matt Rollings al piano) all’anima acustica delle tre ragazze.
Scelta dei pezzi azzeccatissima: uno solo scritto dalle ragazze (la portafortuna You Were Mine), molte cover di vecchie hits tra le quali spiccano la rockeggiante Give It Up Or Let Me Go scritta da Bonnie Raitt e Am I The Only One (Who’s Ever Felt This Way ) di Maria McKee (citata nei credits come una delle muse ispiratrici della Maines).
Strepitoso il brano d’inizio nonché primo singolo del disco, I Can Love You Better, introdotto dalla chitarra acustica di Mark Casstevens e scandito dal dobro di Emily Erwin.
Tocca poi alla sorella Martie salire alla ribalta nella title track con gustosissimi assoli di violino e mandolino.
Entrambe si dividono la scena in There’s Your Trouble, scelto come secondo singolo, in un accompagnamento fiddle-banjo per tutti i tre minuti e dieci secondi della canzone. La qualità non scende neanche con le ballate lente del CD, godibili e mai scontate: oltre alla già citata You Were Mine, meritano una segnalazione anche Loving Arms e I’ll Take Care Of You, tutti pezzi che i più sentimentali non faticheranno ad amare.
Comunque è nei brani più ritmati come Let ‘Er Rip o Tonight The Heartache’s On Me che si può scatenare la potenzialità tecnica delle ‘pollastrelle’. Oltre all’aspetto strumentale, va sottolineato il riuscitissimo lavoro di armonizzazione vocale costruita attorno alla voce solista di Natalie Maines, come si dice una voce che spacca, capace di adattarsi alle diverse sonorità presenti nel disco, forse inconsueta rispetto ai canoni del country al femminile made in Nashville e proprio per questo così fresca e diretta.
Tirando le somme, Wide Open Spaces è un album al quale è difficile trovare difetti, uno di quelli destinati a diventare pezzi importanti nella storia della musica a stelle e strisce. In poche parole uno di quelli che (per riprendere un tema trattato nello scorso numero) consiglierei ad un profano del genere.
Daltronde i numeri non hanno fatto che confermare quanto detto, in poco meno di due anni il disco viaggia a quota 8 milioni di copie vendute, ai CMA Awards del 1998, le ragazze se ne sono andate via con i premi di miglior gruppo e artista emergente, il disco viene fregiato del titolo di miglior album dall’Academy of Country Music ed anche ai Grammy del 1999 la band si impone nel settore country.
L’immagine delle Chicks è ormai cambiata, lontani i tempi in cui sfoggiavano sgargianti western clothes proponendosi come una cowgirl-band, ora appaiono come ragazze che vestono alla moda, consce delle proprie capacità e determinate a metterle in mostra.
Tutto questo, insieme al fatto di essere una girl-band ha portato parte della critica (per la verità più quella anglosassone che quella americana) ad etichettare il gruppo come ‘Country Spice Girls’ ma al di là di qualche analogia nell’enorme successo raggiunto, il paragone proprio non regge.
Le Dixie Chicks sono ottime musiciste e lo hanno dimostrato nella interminabile tournee che le ha portate in giro per ogni angolo degli States fino a tutta l’estate del ’99, anche al seguito di superstars del country come George Strait o Tim McGraw, riscuotendo sempre consensi tra fans e addetti ai lavori.
Nei primi mesi del 1999, il trio torna in studio per cominciare la preparazione del loro secondo atteso album; inutile dire che si tratta di un lavoro cruciale per le ragazze chiamate a dare un degno seguito al grande successo avuto all’esordio. Il disco, intitolato Fly, esce a settembre e, come solo i grandissimi del country hanno saputo fare in passato, si piazza al numero uno sia delle classifiche country (dove Wide Open Spaces resta al terzo posto) che di quelle pop.
Ok i numeri ci sono, ma la qualità? Cosa è cambiato in un anno? Beh qualcuno preso dall’entusiasmo ha gridato al miracolo discografico, più realisticamente mi riesce difficile non definire Fly un disco splendido in cui il già grande talento delle ragazze raggiunge livelli ancora più alti, grazie ad una esperienza e confidenza sempre più mature.
La vena strumentale delle sorelle Erwin per gli strumenti a corda è presente in ogni traccia del CD, Martie aggiunge la viola al suo repertorio mentre Emily si cimenta per la prima volta alla lap steel. Gli altri musicisti sono più o meno gli stessi presenti in Spaces, con qualche ospite in più, soprattutto per le parti più elettriche.
Una nota di merito particolare va data alla voce della Maines, qui in gran forma, e al raffinato lavoro di produzione compiuto da Paul Worley e Blake Chancey che, più che nel disco precedente, riescono a far arrivare in modo diretto, quasi cantasse dal vivo, le doti vocali di Natalie sempre più inconfondibili, sempre più country.
Ma ora mettiamo idealmente il CD nel lettore e scopriamo più a fondo cosa ci riserva. Si comincia con una sorpresa, la prima traccia si apre con una intro di Irish tin-whistle; suoni celtici dunque per Ready To Run sottolineati anche dal bodhran dello stacco finale.
Si torna subito ad atmosfere più new country con If l Fall You’re Going Down With Me, il pezzo è scritto da quel prolifico genietto di Matraca Berg, quindi attenzione al testo anche questa volta ironico, semplice ma non scontato; anche le ragazze però sanno comporre belle canzoni e Cowboy Take Me Away, scritta da Martie Erwin, ne è un esempio: ballata gustosissima costruita attorno all’accompagnamento arpeggiato della chitarra acustica di Randy Scruggs cui si affiancano il violino dell’autrice (da antologia l’assolo nel finale) e la steel di Lloyd Maines, il ritornello infine viene scandito dal banjo di Emily.
Sono cinque in tutto i pezzi composti dalle tre, segno anche questo di una sempre maggiore sensibilità e dimestichezza con il lavoro di studio. Cold Day In July, cover scritta da Richard Leigh e portata al successo da Joy Lynn White, è a mio avviso il più bel lento del disco.
Veniamo alla canzone che ha fatto più discutere la critica (persino sulle pagine di alcuni noti giornali italiani): Goodbye Earl è la storia di una donna che, stanca delle violenze subite per mano del marito, ne progetta ed esegue l’omicidio con l’aiuto di un’amica. D’ accordo, l’argomento è delicato (tanto da meritare due righe di nota nel libretto con cui le tre ragazze prendono le distanze da possibili fraintendimenti) ma accusare la band di propagandare la violenza mi sembra eccessivo, sarebbe stato forse meglio prestare più attenzione alla musicalità del pezzo ed in particolare alle armonizzazioni vocali, al crescendo strumentale per parlarne in termini diversi.
Uno degli highlights dell’album è la scatenata Sin Wagon, qui le sonorità bluegrass la fanno da protagonista, spazio dunque agli strumenti con gli assoli di Bryan Sutton (chitarra acustica) e delle sorelle Erwin a violino e banjo: ascoltare prego e provare poi a dubitare sulle qualità di musiciste di queste texane!
Più rockeggianti i ritmi in Somedays You Gotta Dance (dove in primo piano si mette la chitarra elettrica di Keith Urban che non risparmia virtuosismi) e in Hole In My Head. Il disco sì chiude con Let Him Fly, scritto da Party Griffin ma sicuramente fatto proprio da Natalie Maines (da poco divorziata) che lo interpreta con grande sentimento e trasporto.
Una piccola critica possiamo muoverla a proposito della copertina che raffigura su sfondo nero tre parti di ali di farfalla che vanno a comporre il titolo Fly: è vero che non vogliamo un gruppo che punti tutto sull’immagine, ma una foto di tre delle più belle ragazze dell’attuale panorama country sarebbe stato ottimo.
A parte gli scherzi, le venti pagine del libretto interno riportano molte foto delle Chicks con gli abiti e nelle pose più stravaganti, nonché impegnate nelle fasi di registrazione… l’occhio ha dunque la sua parte.
Anche per questo secondo album si prospettano cifre da record, basti pensare che da novembre ad oggi sono più di 4 milioni le copie vendute negli USA, ai CMA Awards dello scorso settembre un’altra pioggia di premi ha sommerso la band che intanto può vantare una agenda sempre più ricca di appuntamenti in giro per il mondo.
Siamo così giunti al termine del nostro viaggio nella carierà delle Dixie Chicks. Oggi come oggi le nostre pollastrelle hanno sgombrato il campo da ogni dubbio, si sono scrollate di dosso ogni tipo di etichetta se non quella di navigate e apprezzate musiciste, capaci di meritarsi la partecipazione all’ultimo disco di tributo a Bob Wills degli Asleep At The Wheel, dove possiamo ritrovare i suoni country swing delle origini del gruppo.
Altre importanti collaborazioni hanno scandito il 1999 delle ragazze: tra tutte ricordiamo l’apparizione nell’ultimo CD live di Sheryl Crow e nella colonna sonora del film Runaway Bride (Se scappi ti sposo). Tutto questo, sempre sapendo rispettare il proprio stile, attento sì alle richieste del grande pubblico e alle nuove sonorità dell’attuale scena musicale dì Nashville ma così neramente ed orgogliosamente radicato alla tradizione country e bluegrass. Il risultato è un sound nuovo, speciale, un suono che, come ho già accennato in apertura, mi piace definire (ma non sono il solo) inconfondibile.
Natalie, Emily e Martie sanno come si suona, hanno il look, sembrano ormai conoscere i segreti di quello che gli americani chiamano entertainment, la Chicksmania è esplosa, si diffonde e, se sono buon profeta, non si dissolverà tanto presto.
Se dunque già conoscete le Dixie Chicks, il mio consiglio è quello di continuare a seguirne l’evoluzione artistica, se non avete mai ascoltato la loro musica… beh che aspettate?
Discografia indipendente:
Thank Heavens For Dale Evans – 1990
Little Ol’ Cowgirl – 1992
Shouldn’ t A Told You That – 1993
Discografia Monument Ree:
Wide Open Spaces – 1998
Fly – 1999
Partecipazioni:
Ride With Bob – A Tribute To Bob Wills (Polly Wolly) – 1999
Sheryl Crow And Friends – Live From Central Park (Strong Enough) – 1999
Runaway Bride O.S.T. (Ready To Run e You Can’t Hurry Love) – 1999
Roberto Galbiati, fonte Country Store n. 51, 2000