Quante volte abbiamo navigato sui canali della rete nella speranza di imbatterci in qualche gradita sorpresa in termini di scoperta musicale? Quante volte abbiamo contattato i siti dei musicisti più sconosciuti nella speranza di trovare ‘the next big thing in country music’?
Sicuramente il nome degli Eleven Hundred Springs, texani purosangue, non vi sarà – ancora – esattamente familiare, ma potete scommettere che le cose cambieranno a breve, in quanto il gruppo ha tutti i numeri per farsi conoscere ben oltre i pur ampi confini del natìo Texas.
La band nasce all’inizio del 1998 ed inizia a suonare per puro divertimento all’Adair Saloon di Dallas, Texas, locale reso famoso dall’abbinamento con un altro newcomer – si fa per dire, visto che ha ben cinque albums all’attivo – del Texas country: Jack Ingram.
Già nel Settembre dello stesso anno il gruppo si era creato un certo seguito locale, tanto da decidere di intensificare le performances live e di fare il salto di qualità verso il livello professionistico.
Il primo CD del gruppo esce nel Marzo del 1999 per la indie di Dallas 13 Recordings e si intitola Welcome To Eleven Hundred Springs – Pop. 4. La line-up allora include cinque nominativi e precisamente: Bruce Alford (batteria e percussioni), Steve Berg (29 anni, basso), Jason Garner (26 anni, fiddle), Matt Hillyer (24 anni, chitarra e voce) e Reed Easterwood (Steel guitar e percussioni). Tutti e dodici i brani sono opera di Hillyer, ad eccezione del bluegrass Center Ridge Breakdown (di Joe A. Williams), dove sia Garner con il suo fiddle, che Hillyer con la sua chitarra, hanno la possibilità di mettersi in giusta evidenza.
Si tratta comunque di una divagazione, in quanto il sound tipico degli EHS è decisamente orientato verso le sonorità honky-tonk più texane. Gli insegnamenti e l’esperienza maturata aprendo per gente tipo Willie Nelson, Robert Earl Keen, Pat Green, Derailers, Dale Watson, Charlie Robison, Old 97’s, Billy Joe Shaver, Chris Wall, Don Walser, gli Asleep at the Wheel e lo stesso Jack Ingram non sono certo caduti nel vuoto e ben lo dimostrano prodotti convincenti e maturi quali l’iniziale The Only Thing She Left Me (Was The Blues), ben strutturata nella melodia e molto reale nel testo che elenca le numerose problematiche che si trova ad affrontare chi si sveglia un mattino e si rende conto che, nottetempo, l’amata di turno se ne è andata portando con sé tutti i loro averi e lasciandogli soltanto la tristezza (difficile tradurre in italiano il concetto di ‘blues’).
Gone Crazy Blues rappresenta una gustosa divagazione nell’ambito country-blues, con Matt Hillyer che si diverte con i toni più bassi della sua chitarra elettrica ed un timido accenno di yodel (Jimmie Rodgers è vivo e vegeto nella sua mente).
Anywhere I’m Loving You è un ipotetico viaggio attraverso gli Stati Uniti, con citazioni geografiche da New York alla California, per confermare all’amata che, indipendentemente dal luogo in cui si trova, il nostro cantore è innamorato di lei e sente la sua mancanza. Se liricamente il pezzo non apporta alcunchè di imprescindibile, lo sviluppo musicale, giocato su fiddle e steel guitar arriva ad essere una languida country-ballad di sicura presa.
This One Wish rappresenta un gradevole up-tempo con un ritornello immediatamente memorizzabile: pura ‘music for fun’, ma suonata con tutti i crismi.
A Few Words To Remember Me By è un brano che entrerà di diritto fra i classici del gruppo. Si tratta di un ‘talkin’ country’ a proposito dell’addio alla compagna, condito da un sarcasmo talmente acido e tagliente, da farne uno dei cavalli di battaglia delle esibizioni live degli EHS.
Vista la provenienza del gruppo non poteva mancare un omaggio al western-swing, anche se l’approccio non è dei più tradizionali. Springtime In Texas vanta un richiamo ai vocalizzi in falsetto creati da Bob Wills, ma il risultato è molto più vicino a certe sonorità hillbilly, anche per l’uso dello slap-bass.
One More Chance ha il passo deciso delle train-songs, mentre la conclusiva Raise Hell Drink Beer si rivela la knock-out song dell’intero album, eccellente viatico per coinvolgere anche le platee più restìe a farsi conquistare dai nostri giovani esordienti. Il pezzo si regge sul lavoro quasi frenetico della sezione ritmica, mentre chitarra elettrica e fiddle si alternano al ruolo di solisti, per un risultato corale di sicuro effetto.
Il CD viene venduto solamente ai concerti del gruppo, ma la prima stampa dell’album si esaurisce in appena sei mesi e al momento di andare in stampa è ormai fuori produzione.
Visto il successo di vendite (ovviamente proporzionato ai canali distributivi alla portata del gruppo), gli EHS fanno uscire il primo album dal vivo già nel Settembre dello stesso 1999 e vede così la luce Live At Adair’s, inciso sempre per la stessa etichetta 13 Recordings.
Registrato il 12 Luglio 1999 all’Adair’s Saloon di Dallas, Texas, il dischetto dura più di un’ora e rappresenta un fedele spaccato del repertorio live della band con tutte le influenze stilistiche che hanno contribuito a creare il loro sound.
Il ‘la’ è fornito da una scoppiettante versione del classico di Bob Wills San Antonio Rose (che servirà anche da closing tune), seguita dal classico di Johnny Horton I’m Comin’ Home, a firma Tillman Franks e dello stesso Johnny Horton, che brilla per un sound chitarristico molto twangy, dove Matt Hillyer ci dà veramente dentro, mentre la sezione ritmica ed il fiddle tengono un sostenuto ‘train drive’: grande performance.
Johnny Bush, nome seminale dell’honky-tonk texano anni ‘60-70, aveva a suo tempo portato alla notorietà una gradevole ‘drinking-song’ intitolata Jim Jack & Rose, dove i tre nomi propri erano usati in riferimento ad altrettante note marche di whiskey, Jim Bean, Jack Daniels e Gypsy Rose, per evidenziare i migliori amici con i quali il personaggio di turno passa le proprie serate.
Il tempo accelera nuovamente con la ripresa dell’indiavolato Center Ridge Breakdown, che già aveva brillato nel CD di esordio.
Fra le cover incluse nello show troviamo l’omaggio a Johnny Cash con Rock Island Line, originariamente classico della skiffle music, poi approdato ai fasti della country music tramite il grande ‘man in black’. Partendo con passo lento ed accelerando il tempo in accordo con la narrazione e con il treno che acquista velocità, i ragazzi si scatenano, soprattutto Bruce alla batteria e Matt, sia con il cantato che con la chitarra elettrica, per un’esibizione davvero eccellente e matura di cinque minuti esatti.
Un omaggio (?) al pubblico femminile presente non poteva mancare da parte di questi galanti texani ed ecco che viene proposta una boogie version di Don’t The Girls All Get Prettier At Closing Time, brano portato originariamente al successo da Mickey Gilley, proprietario del locale Gilley’s, situato in quel di Pasadena, TX e che fece a suo tempo da cornice al film Urban Cowboy.
Sul fronte dei brani originali è facile ipotizzare una massiccia presenza dei pezzi che facevano parte del CD precedente, visto che si tratta dell’unico prodotto disponibile. Vengono così riproposte in chiave live One More Chance, con il suo passo da train-song ed il sound vicino alle sonorità care al ‘boom-chicka-boom sound’ di Johnny Cash.
The Only Thing She Left Me (Was The Blues) non poteva mancare, come del resto era imprescindibile includere Raise Hell Drink Beer, con tanto di incoraggiamento da parte di Matt, front-man del gruppo, nei confronti del pubblico ad unirsi al cantato nei momenti a maggiore tasso etilico ed adrenalinico.
Seven Days rappresenta l’unico brano originale inedito (troveremo la studio version nel CD seguente) e si rivela come un onesto esercizio di Texas country, con un buon lavoro di fiddle mentre la batteria pompa a mille.
Springtime In Texas è giustamente accolta dall’ovazione che regolarmente accompagna ogni menzione al Lone Star State. Anywhere I’m Loving You scivola via morbida ed anticipa il talkin’ country della corrosiva A Few Words To Remember Me By, per fare poi posto al blues di Gone Crazy Blues, leggermente accelerato rispetto alla versione in studio.
Tempo completamente diverso per il ripescaggio di Thing For You, abbellita dal chitarrone legato alle sonorità twangy.
In generale il dischetto è una celebrazione della voglia di suonare dal vivo dei cinque ragazzi, una testimonianza della loro grinta live e della sicura padronanza che, ciascuno per le proprie competenze, strumentali e vocali, dimostra di avere nonostante la giovane età.
Passa poco più di un anno dal CD live che, a cavallo fra il Dicembre di questo impegnativo 1999 ed il Gennaio del promettente anno 2000 viene registrato No Stranger To The Blues, sempre per l’etichetta 13 Recordings.
In termini di credits, va subito ringraziato Lindsey Fry per la grafica della cover, semplicemente stupenda con i giochi cromatici blu-giallo-nero.
La formazione ufficiale si è ampliata fino ad includere a pieno titolo, oltre ai soliti Hillyer (chitarra acustica ed elettrica e voce solista), Berg (basso acustico ed elettrico e voce corista) e Alford (batteria e percussioni), il fedele Jason Garner (fiddle), T-Roy Miller (dobro e lap steel guitar) e Woody (pedal steel guitar – ascoltate il suo lavoro in King Of Tears, che tanto ricorda il classico Sleepwalk di Santo & Johnny).
Il sound è cresciuto, maturato e si è ulteriormente radicato nei fondamenti del Texas honky-tonk. Già il title track ci fornisce un’idea piuttosto precisa del contenuto del CD (quasi quarantacinque minuti), che comprende dodici brani tutti firmati da Matt Hillyer.
Spigliato e disimpegnato nel suo procedere up-tempo, No Stranger To The Blues si candida fin dal primo ascolto a nuovo classico del gruppo e sicura presenza in un ipotetico Greatest Hits.
Per la seguente Four Walls il riferimento è evidente nel Bakersfield Sound in generale (chitarrone twangy) ed in Buck Owens in particolare, per la doppia voce nel ritornello e gli stacchi, sia strumentali che vocali, tipici del suo stile.
Ci sono anche i Beatles di Day Tripper se vi prendete la briga di analizzare il bridge. Con un titolo come Steel guitar and fiddle il risultato è tranquillo, se poi aggiungiamo un curioso tempo ‘boom-chicka-boom’, sappiamo già di trovarci di fronte ad un altro centro.
E’ estremamente piacevole – e rincuorante – vedere come il seme del country tradizionale sia germogliato anche nelle nuove leve di questa espressione musicale, così tipica del Sudovest (ma non solo) USA e personalmente accolgo con grande gioia la riflessione che i prodotti più validi in questo senso siano originati in Texas, lontani anni luce dal Nash-pop e da quanto si tende a far passare per country music al giorno d’oggi.
I Don’t Miss Her Anymore non aggiunge gran che al bagaglio del gruppo: onesta e gradevole country-song, che suona vagamente gramparsoniana. L’influenza di questo vate e profeta delle sonorità country-rock (soprattutto nel periodo della sua militanza nei Byrds) si evidenzia ulteriormente nella seguente You Hit The Old Dance Floor, soprattutto per l’uso della steel, così californiana nelle reminiscenze – anche vocali – della Byrdsiana You’re Still On My Mind, compresa nell’imprescindibile Sweetheart Of The Rodeo.
Anche il testo è pervaso dalla stessa rassegnata tristezza della cover dei Byrds, a queste assonanze vanno interpretate nel senso di ‘influenze’ e non di pedissequa imitazione. Se Sneaking Suspicion è puro divertimento, la seguente If I Was A Candle potrebbe essere il seguito di Good Hearted Woman (scritta da Waylon e Willie) oppure Don’t Cuss The Fiddle (scritta da Kris Kristofferson), che hanno in comune la stessa identica melodia.
Il brano dei EHS è però estremamente accelerato rispetto al tempo originale ed è ulteriormente impreziosito dal grande lavoro di dobro (bravo T-Roy Miller).
Il passo rallenta con la meditativa Lost Without You con la voce che rincorre nuovamente il fantasma di Gram Parsons nelle sue tremule vocalità, fino a quando il brano dispiega tutte le sue potenzialità e si apre fino ad assumere le dimensioni che gli spettano.
Con One I Need è ancora di scena l’honky-tonk più schietto e diretto, mentre la successiva Seven Days compare qui in versione studio, ma già l’avevamo apprezzata in anteprima sul precedente live.
La possibilità di registrarla in studio nulla toglie alla carica di emotività del brano, che in versione dal vivo era veramente da mozzafiato, sostenuto da un fiddle indiavolato, con logico guadagno in termini di ‘grinta’.
Questo ottimo CD si chiude con una ballata acustica che pesca le sonorità di un alt-country abbastanza attuale, ma piuttosto atipico, rispetto alle sonorità dei nostri.
Gli Eleven Hundred Springs sono estremamente giovani, ma hanno già ben tre CD all’attivo, mostrano una maturità artistica invidiabile, anche per acts ben più rodati e dimostrano soprattutto di avere le idee chiare su dove vogliono arrivare e sui metodi per arrivarci.
Avanti ragazzi, siamo tutti con voi!
Dino Della Casa, fonte Country Store n. 57, 2001