‘Small independent labels make good music‘ è lo slogan che girava in adesivo sulle copertine dei vinili diversi anni fa e che, a giudicare dalle oscenità che ci circondano oggigiorno, bisognerebbe ripristinare, in primis nelle nostre teste. Nel campo della musica tradizionale e popolare made in USA i prodotti migliori si devono alle etichette cosiddette indipendenti (o ‘indies‘), escono proprio da queste botteghe quasi artigianali, molto spesso a conduzione familiare, spessissimo il frutto di un lavoro amatoriale privo di una qualsiasi prospettiva economica. Non c’è da meravigliarsi. Il fenomeno delle etichette indipendenti è sempre stato una prerogativa del mondo musicale nordamericano connesso alla riproduzione del suono da più di un secolo e, per quanto riguarda gli inizi, non trova riscontri in nessun altro paese al mondo.
Dai cilindri di Edison al perfezionamento del fonografo, dall’invenzione del microsolco fino ai nostri giorni, la storia dell’industria discografica nel nuovo mondo è costellata di iniziative private a tutti i livelli e segue un andamento strettamente legato alla richiesta popolare investendo con minor frequenza mode e stili imposti dai responsabili del settore. Victor, Okeh, Columbia, Brunswick, Vocalion, Gennett, Paramount, Edison, le prime labels ad entrare in concorrenza, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, ebbero il grande merito di promuovere dei collecting-trips su vasta scala nelle regioni sudorientali allo scopo di soddisfare la massiccia domanda del pubblico, bianco e di colore, letteralmente impazzito per la novità di questo straordinario mass media che tutti potevano trovare nei locali pubblici ed i più fortunati acquistare godendoselo al proprio domicilio.

Le compagnie più intraprendenti, con un fiuto particolare per il novello marketing in pieno divenire, istituirono persino dei cataloghi ‘segregazionisti‘: ‘old time familiar tunes‘ per i bianchi, ‘foreign records‘ o ‘ethnic music‘ per le minoranze etniche non anglofone, ‘race records‘ per la gente di colore. Tutto ciò in riferimento alla musica di matrice tradizionale e folkloristica perché le medesime etichette producevano in grosse quantità anche incisioni di opere liriche (realizzate in studi e da artisti europei), bande militari e non, pop-songs e novelty-tunes scritte appositamente dagli autori affiliati al vivace e prolifico movimento newyorkese Tin Pan Alley.
La Grande Depressione del 1929 sortì un duplice effetto sul mercato discografico statunitense proprio nel momento della sua massima ascesa. In primo luogo la crisi economica segnò la fine dell’indipendenza per parecchie labels e la loro conseguente assimilazione da parte di potenti gruppi finanziari: Okeh, Columbia e Vocalion vennero fagocitate dalla ARC, poi Columbia-CBS; la Victor passò alla scuderia RCA; la Brunswick ed in parte la Gennett andarono ad ingrossare le fila della MCA già fusasi con la Decca.

La scelta degli artisti da promuovere e far incidere, contemporaneamente al rapido miglioramento delle tecniche di riproduzione, si restrinse notevolmente ai più validi. Sotto questo aspetto la Depressione non fu così deleteria per la musica tradizionale: diminuì la quantità a tutto vantaggio della qualità. Nel periodo che va dal 1922 (anno del primo 78rpm commerciale di folk bianco americano) al 1942 (sensibile battuta d’arresto per cause belliche) vennero realizzati in USA circa 22.000 brani di old time music (o hillbilly-music, come veniva allora definita) cui va aggiunto un numero, difficilmente quantificabile ma non indifferente di Ets ( ‘electrical transcriptions ‘), registrazioni su disco di interi concerti, live e non, da impiegare via etere a scopo promozionale e pubblicitario.
Dal 1948 (data storica che segna la comparsa in USA del long playing) ad oggi più di un terzo di queste primitive incisioni, una porzione sicuramente non trascurabile, è stato riedito su LP o CD per merito di etichette indipendenti impiegando i vecchi 78 giri spesso ai limiti della pirateria discografica giocando di fatto, almeno fino al 1972, sulla totale confusione della legislazione americana in materia di diritti d’autore. Solo una minima parte ha rivisto la luce grazie all’interessamento delle multinazionali (in possesso tra l’altro delle matrici d’epoca e delle loro opzioni, compresi gli inediti e le alternate takes), ripristinando cataloghi, marchi e logos storici, o delegando la cura delle ristampe ad altre compagnie.

Se si fa eccezione per isolati dischi di prebluegrass e bluegrass a limitata distribuzione regionale o radiofonica alla fine del secondo conflitto mondiale (western swing e swing, la ‘disco music‘ degli anni Trenta e Quaranta, essendo per ovvie ragioni di cassetta sotto il totale controllo delle majors) bisognerà attendere il decennio successivo per incontrare di nuovo forme di indipendenza discografica, e i primi anni Settanta, parallelamente al boom del folk revival, per assistere ad una vera e propria esplosione del fenomeno.
Oltre a ristampare materiale originale e riscoprire artisti facendo tesoro delle indicazioni emerse dalle field-recordings della Library of Congress (a partire dal 1933), i responsabili di queste neonate etichette cominciano a guardarsi intorno e soprattutto a guardare al futuro: registrano sul campo per proprio conto, creano studi d’incisione, organizzano o riorganizzano conventions, contests e festivals, studiano la musica tradizionale anche con metodi scientifici, promuovono filoni musicali in campo acustico e, elemento da non sottovalutare, pagano le royalties ai musicisti, tradizionali o meno, dopo anni di completa anarchia o di basso vassallaggio delle multinazionali nei confronti della categoria.

Su queste basi, salvo qualche ripensamento, nascono tutte le moderne ‘indies‘ americane: alcune con una struttura, distribuzione e giro d’affari che ricordano in miniatura i colossi discografici; altre talmente minuscole da giudicare precaria la loro sopravvivenza e, in qualche caso, da mettere quasi in dubbio la loro stessa esistenza; la maggior parte in possesso di un catalogo consistente, una diffusione accettabile, una condizione finanziaria onorevole, soprattutto una produzione musicale di elevata qualità artistica. Un fatto va tenuto costantemente presente: il ‘big bang‘ che scatenò la rivoluzione, compresa la corsa ai ‘reissues‘, fu la pubblicazione nel 1952 da parte della Folkways Records di New York dell’Anthology Of American Folk Music, sei albums contenenti 84 brani (old time, blues, jazz, cajun, gospel) incisi tra il 1927 ed il 1932, curata da Harry Smith impiegando i 78 giri originali della propria collezione.

Pierangelo Valenti, fonte Suono, 2012

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