È indegno che si continui a speculare su un nome tanto glorioso, come stanno facendo (rivelando mancanza assoluta di garbo) gli ormai groggy Burrito Brothers. Questa operazione sta gettando nel fango il complesso che più di altri ha contribuito, nei primi anni ‘70, a portare il country rock alle stelle.
Attraverso vicissitudini, inenarrabili in questa sede, numerosi e prestigiosi musicisti si sono alternati alla volta del gruppo. Primo fra tutti: Gram Parsons, individuo perennemente angustiato ed egro di disperazione, il vero poeta dell’honky-tonk; Chris Hillman, garante di continuità e di serietà professionale; Rick Roberts, all’epoca un giovane talento non ancora piegatosi alle ferree leggi dello showbiz, bensì proiettato in una lodevole ricerca sonora. Eppoi molti altri, alcuni dei quali ricordiamo en passant: Mike Clarke, Bernie Leadon, Al Perkins, i Country Gazette, Gene Parsons, Joel Scott Hill, Greg Harris.
Nonostante questa girandola da capogiro i FBB sono rimasti abbastanza impopolari, perlomeno in Italia. Hanno cercato di porvi rimedio l’estate scorsa, effettuando un breve tour nella nostra penisola, durante il quale la formazione (che è quella attuale) ha raccolto moderati consensi, dimostrando come ormai sia tramontato il momento d’oro per questo genere musicale. A Pavia, dove avevano una data, ho potuto costatare personalmente quanto affermato: diversa gente ha sfollato prima e durante la loro esibizione. Tre ragazzi, seduti al mio fianco, si sono alzati e se ne sono andati, sbuffando dalla noia, mentre il gruppo eseguiva Hickory Wind, la canzone più intensa che Gram Parsons abbia composto.
Va detto però in loro difesa che i concerti sono stati migliori del previsto, convalidando l’ipotesi che il complesso reagisce in maniera soddisfacente più dal vivo (dove può giocare sul fattore nostalgico eseguendo gli antichi pezzi) che in studio; questo lo si nota anche dal preoccupante sbalzo qualitativo tra il precedente lavoro Live From Tokyo (buono) e il nuovo Hearts On The Line (pessimo).
I BB di Hearts On The Line sono affetti da superficialità e ipocondria cronica. Sembrano dimenticare di avere avuto una scuola alle spalle e di avere il compito di rispettare una tradizione senza travisarne il contenuto. Il suono mellifluo che scaturisce dai solchi non ha nulla da comunicare e non insegna nulla; è solo un inutile spreco di tempo e di capitale.
L’apporto di Skip Battin e di Sneaky Pete Kleinow (l’unico membro originario) risulta marginale e, tutto sommato, anonimo; Gib Guilbeau, appeso il violino al chiodo, si accontenta di cantare, senza peraltro sfoggiare particolari doti. I tre vecchietti (Battin ha quasi 50 anni) hanno ritenuto di lasciare la guida del gruppo ad un musicista dal sangue giovane e palpitante: John Beland. Il quale si rivela però un tantino anemico, visto che il risultato ottenuto è un disco pallido e fiacco.
Una sensazione d’irrefrenabile sapore ci assale ascoltandolo, come se le dieci evanescenti selezioni qui contenute fossero state incise nei periodi intercorsi tra una sniffata di cocaina e una ciucca di bourbon. Fa ridere osservare questo giovanotto mentre, chitarra alla mano, addobbato da facsimile di Presley (quindi, come ogni imitazione, da buzzurro), gioca la carta che fu di Alan Ladd nel Cavaliere della Valle Solitaria; quello che ne risulta è un country ammansito e anacronistico da cow-boys salottieri.
Non un brano riesce a liberarsi da quel senso di vacuità e apatia che incombe su ciascuno dei 27 minuti del microsolco; nemmeno l’ennesimo rifacimento di Oh, Lonesome Me che Don Gibson pare aver scritto con in mente gli attuali Burritos:
Ci deve pur essere un modo / di sconfiggere queste depressioni maniacali. / dimenticare il passato, trovare qualche novità / Ho pensato di tutto, dalla A alla Z ! oh, povero me!
Ma la disfatta è completa, essendo Hearts On the Line un album che non troverà nemmeno il pubblico a perorarne la causa, tanto è bassa l’attrattiva commerciale. Guilbeau, Beland, Sneaky Pete e Battin hanno avuto solo un’intuizione felice: quella di sacrificare l’aggettivo flying davanti a burrito brothers. Forse hanno capito anche loro che l’asinello ha perso ogni potere magico, non riesce più a volare, e si concede quindi l’ultima boccata d’aria prima di essere condotto al mattatoio.
Curb JZ 37004 (Country Rock, 1980)
Marco Regali, fonte Mucchio Selvaggio n. 40, 1981