Fred Koller – Sweet Baby Fred cover album

Da qualche anno Fred era in silenzio discografico; da quel Where The Fast Lane Ends del 1990, suo terzo disco per l’Alcazar, più strumentato rispetto ai primi due (Songs From The Night Before e Night Of The Living Fred). Un trittico splendido, un riferimento sicuro ed importante nell’ambito della più genuina canzone d’autore.
Ora, dopo mesi di negoziati, l’Appaloosa mette a segno un colpo magistrale e pubblica il nuovo disco del ‘John Hiatt in meglio’, una definizione che ci divertimmo a coniare io e Franco Ratti nel tentativo di qualificare lo spessore di un personaggio come Koller, ma che non vuol certo suonare irriverente nei confronti del gigantesco autore di Walk On. E comunque, chi come me ama John Hiatt, non può esimersi dal far tanto di cappello a Sweet Baby Fred che – ancor più dei lavori precedenti – consente di apprezzare la positiva similitudine di questi due personaggi… uno bravo e famoso, l’altro bravo e basta.
Koller, dal sound pur pieno e corposo – è sostenuto in buona parte del disco dal drumming di Kenny Blevins (ma guarda un po’…) e dal basso di Gary Tallent – è tuttavia più cantautorale e meno feroce (capiamoci..) di Hiatt, ma è comunque un mostro di bravura nel generare la giusta ‘forza d’urto’ che inchioda l’ascoltatore in poltrona. Certo che, volendo proprio proseguire sul terreno degli accostamenti, un brano come Count The Days (a proposito, attenzione alla scaletta dei titoli: la sequenza è purtroppo errata e ve ne accorgerete leggendo i testi) non può non ricordare il miglior Dirk Hamilton, un’altro dei cantautori eccellenti associati con l’Appaloosa.
Ma ora basta, Fred Koller è Fred Koller… un musicista vero ed autentico, dall’immenso talento che con Sweet Baby Fred ha confezionato il suo capolavoro, un episodio che – ne sono sicuro – non rimarrà isolato.

Quattordici brani, registrati in non meno di sei diversi studios, anche casalinghi; un suono brillante, una produzione accorta ed uno stuolo di musicisti a dare colore e struttura a canzoni la cui forza non sarebbe stata scalfita per nulla anche nella spartana dimensione voce e chitarra. Ma ovviamente così è meglio: i vari Larry Crane, Don Dixon, Chris Cage (chitarrista strepitoso, visto anche in Italia lo scorso anno con Butch Hancock), la sezione ritmica di cui ho già riferito e tanti altri personaggi meno noti, si impegnano al massimo per far belle le canzoni e i risultati sono eccezionali, non c’è che dire.
All I Can Do (Is Do The Best That I Can), dominata dall’organo e dalla slide; Is It Love, sempre slide ma pianoforte questa volta; Mean People sarcastica piece con qualcosa di Randy Newman dentro; Smooth Slow And Easy, lenta ed avvolgente, ancora con una superba slide che fa accapponare la pelle; Beyond The Blues, no, non è quella di Tom Russell e Dave Alvin ma è altrettanto bella… beh, mi fermo, benché sarebbe ovviamente il caso di citare tutte le canzoni, in quanto tutte hanno merito. Tranne forse una, proprio la quattordicesima (Painter Of Reality) che, dominata da una tastiera immanente a simulazione d’orchestra, non mi ha convinto anche se il brano di per sé – con quella sua andatura sinistra – forse richiede proprio questo particolare arrangiamento. Tant’è, son 2:15 minuti su una cinquantina, non possono certo influire sul giudizio complessivo, che è, e rimane, il seguente: capolavoro.

Appaloosa AP 111-2 (Singer Songwriter, 1996)

Renato Bottani, fonte Out Of Timen. 15, 1996

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