Garth Brooks

Per coloro che ancora pensano che la country music sia un canto monotono e nasale con sottofondo di chitarra, banjo e lamentoso violino: benvenuti negli anni ’90! Gli anni del completo rinnovamento artistico di un genere che ha portato a termine il proprio cammino per l’affermazione e la diffusione nazionale assimilando tutti gli stili del pop, invadendo un mercato discografico in crisi di buon rock e preda di rappisti metropolitani scatenati. Il nostro ragazzone di Tulsa, Oklahoma, 33 anni, oggi un po’ ingrassato rispetto a quanto riscontrabile sulle fotografie degli esordi, è ormai il simbolo della Nashville rifondata.

In termini di vendite, di incassi ai concerti, di ampliamento della rete radiofonica di formato (una radio su quattro), di programmi e networks televisivi, l’avanzata e la conquista di settori di mercato e di pubblico, anche in aree tradizionalmente ostiche (come New York e Boston), sono innegabili. Come lo è il miglioramento della qualità generale: nelle tecniche di registrazione, nelle produzioni, nella promozione, nei testi (meno ubriacature, tradimenti, treni e prigioni, sempre più amore, sentimenti, richiami ai valori, attenzione ai problemi sociali come lavoro, tasse, alienazione).
Ma le cifre di Garth Brooks parlano da sole: il primo album per la Capitol Nashville, intitolato col suo nome, rimane 182 settimane in classifica e nell’ottobre 1990 la RIAA (Recording lndustry Association of America – la SIAE americana) gli attribuisce l’Oro, il Platino e il Multiplatino.
No Fences, secondo album, vende 11 milioni di copie; Ropin’ The Wind (1991 ) ne vende altri 10 milioni ed è il primo album country a raggiungere il primo posto nelle Pop Charts di Billboard con un ritmo di vendita di 300.000 copie a settimana. Seguono The Chase (1992), In Pieces (1993) e The Hits (1994), un’antologia di successi della quale, ci informa La Repubblica Musica del gennaio scorso, si vendono 8 milioni e mezzo di copie: è il secondo album più venduto del 1995 negli Stati Uniti dopo Hootie & The Blowfish, l’antologia più venduta di tutti i generi musicali di sempre, numero 1 Billboard per settimane.

In totale, a tutt’oggi, in 6 anni di carriera, 7 albums + 2 natalizi, ha venduto 48 milioni di dischi (più di Michael Jackson, Bruce Springsteen, U2, Dire Straits, Guns & Roses, ecc), ha ottenuto 14 riconoscimenti RIAA.
E in Europa? I dati della prima tournée europea (16 date, 37 concerti dal 30 marzo al 23 aprile 1994 in Irlanda, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Svizzera, Svezia, Norvegia, Danimarca, Spagna) dicono che sono andati a sentirlo in 140.000. Solo a Dublino ha tenuto 8 concerti per un totale di 68.000 spettatori. Nel 1992, 5 albums erano già certificati dalla RIAA per la Gran Bretagna; Ropin The Wind e No Fences erano rispettivamente e contemporaneamente al quinto e decimo posto. Per inciso, solo in Italia e in Grecia (!) Garth Brooks non è pubblicato dalle case discografiche.
Fresh Horses, distribuito nel novembre 1995, non è forse il migliore dei sei albums originali (io voto per i primi due) ma è senz’altro di ottimo livello, la conferma delle qualità del nostro e del produttore Allen Reynolds: dieci brani, di cui otto co-firmati, a ribadire, tra gli altri, il concetto che il migliore rock & roll oggi lo interpretano gli artisti country. Sentire per credere, in questo caso, il primo brano, The Old Stuff la cui apertura lenta e pianistica richiama alla memoria il Jackson Browne di The Load Out; l’effetto live ed i solo di chitarra (timbri da Chuck Berry), pedal steel e fiddle danno entusiasmo al resto; il testo, ben studiato nelle assonanze con la musica, rispolvera con qualche nostalgia, in chiave autobiografica, i ritardi dei tempi in cui si suonava dappertutto per pagare i debiti e le mille avventure sulle strade e nei locali d’America.
Cowboy & Angels è una versione western della Genesi a tempo di valzer, una celebrazione del cowboy, sale della terra, fiero e testardo ma indifeso senza la sua naturale compagna (heavenly grace): “Dio sapeva che non ce l’avrebbe fatta da solo”. Divertente.

The Fever e Rollin’ sono altri due episodi dedicati al rock & roll ed al boogie con stacchi strumentali che rasentano il virtuosismo. Non per niente gli strumentisti del disco sono tra i migliori di Nashville: Milton Sledge (batteria), Mike Chapman (basso), Chris Leutzinger e Mark Casstevens (chitarre), Bruce Bouton (pedal steel), Rob Hajacos (fiddle), Bobby Wood (keyboards). Ospite speciale Trisha Yearwood alle armonie vocali a sostituire, almeno su disco, Ty England, magnifica spalla e grande supporto vocale del nostro, messosi in proprio di recente a tentare il successo personale.
That Ol’ Wind e She’s Every Woman sono i due pezzi forti del disco, due piccoli capolavori emotivi per la costruzione delle atmosfere, per l’intensità del cantato e per i testi. Il primo, tipico heartbreaker, è una ballata lenta in crescendo orchestrale con un testo magistralmente costruito come un flashback cinematografico: è la storia di un antico incontro tra un musicista ed una lei in occasione del suo primo concerto in città; dopo una notte insieme lui riparte promettendo di tornare ma è solo dopo anni che ricompare per uno show non più atteso come un tempo. Lei va ad ascoltarlo e lo ritrova per un’altra notte e di nuovo si aspetta che lui riparta. Ma questa volta è il bus vuoto che se ne va, lui lascia tutto e rimane: ora potrà sapere che il bambino di lei è suo figlio. Grande lieto fine e steel guitar che strappa il cuore. Una festa per animi sensibili e inguaribili romantici. Si sente anche il rumore del vento.

She’s Every Woman è, per me, il gioiellino dell’album: una canzone d’amore impostata semplicemente su una base di chitarra acustica, in cui qualcuno troverà reminiscenze di Beatles. Si provi ad immaginarla cantata da Paul McCartney e non si sentirà molta differenza.
La poca critica italiana di settore è invece abbastanza concorde nel considerare The Beaches Of Cheyenne la canzone più bella del disco; una ballata di amore e morte che ricalca un tipico modello narrativo delle antiche folk songs anglo-scoto-irlandesi. Cambiano solo i tempi e luoghi.
Non molto da segnalare sui restanti tre brani, The Change, It’s Midnight Cinderella e Ireland; direi che rimangono nella sfera della valutazione soggettiva. Sono, nell’insieme delle caratteristiche, un po’ come i film di Hollywood: comunque, sopra la media.
Quali sono dunque i segreti del successo di Garth Brooks? Sicuramente la qualità superiore della produzione e della struttura delle canzoni, ma soprattutto la sua eccezionale espressività vocale (un pó Elvis, un pó Billy Joel, un pó Pat Boone, un pó Johnny Horton).
La sua immagine artistica è posizionata abilmente in quella zona di fontiera che gli permette di sconfinare nel pop senza abdicare a ciò che è tradizione country & western: strumentazione, testi, riferimenti stilistici. Il suo look, sicuramente eccessivo (nelle camicie) per i gusti europei, è l’aggiornamento del rhinestone tradizionale: ammicca più ai giovani ‘frats’ dei colleges ed agli urban cowboys che al redneck o al cowboy da rodeo.

Il suo stile personale è semplice, rilassato, solo un pó ironico, amichevole, incline e disponibile, come tutte le stars della country music, al rapporto col pubblico. Insomma, un bravo ragazzo, simpatico, che ama il suo lavoro ed i valori (ed il cibo) con cui è cresciuto. Ma è forse il suo spettacolo a rivelarlo pienamente. Garth, sul palco, è una forza della natura. Riesce a generare l’energia di un concerto rock mettendone allo stesso tempo in ridicolo gli stereotipi e, così facendo, completandone l’assimilazione: spacca chitarre, si fa sollevare e calare con funi, si versa bottiglie d’acqua in testa, salta, corre e fa smorfie come un Mick Jagger. Vederlo (almeno in video) per credere.
Noi intanto, qui nella lontana provincia, in attesa del nuovo, teniamoci rap, techno, posse, Sanremo e qualche buona vecchia rock star dura a morire.

Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 33, 1996

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