George Jones – I lived to tell it all

George Jones – I Lived To Tell It All (Dell). Ho finito da poco di leggere l’autobiografìa di George Jones scritta con l’aiuto di Tom Carter (Villard, New York, 1996). Ho trovato il volume consigliabilissimo per vari motivi. Rappresenta prima di tutto uno spaccato su oltre quarant’anni di country show business fatto di interminabili spostamenti in autobus, rapporti con il pubblico, i musicisti, i discografici e gli impresari; inoltre apre una finestra sulla personalità dell’artista, raccontando con sincerità le debolezze di George Jones, i suoi guai con l’alcool e la coca, i suoi rapporti con le donne e con i colleghi, la sua autentica passione per la musica country, la sua amarezza per le scelte distorte del mercato contemporaneo.

Proseguo traducendo alcuni passi del libro, godibilissimi nella loro tragicomicita, in cui incontrerete altri personaggi di vostra conoscenza. Spero cosi di far cosa gradita a chi avesse dei dubbi sull’acquisto e a chi non legge l’inglese, integrando un mio articolo su George Jones già uscito su questa benemerita rivista.

“Ho assistito ad un sacco di litigi su chi dovesse aprire uno show e chi dovesse chiuderlo. A quei tempi usavano molto i ‘big package shows’ (spettacoli con diversi nomi di richiamo nella stessa serata,  N.D.T.). e chi cantava per ultimo era comunemente considerato il più importante.

Oggi sono altrettanto felice di cantare per primo cosí da poter tornare nell’autobus a guardarmi una partita di football. Nel I960 ero in tour con Buck Owens e litigavamo sempre su chi doveva uscire per primo. ‘Ascolta Buck – gli dicevo – tu hai chiuso ieri sera, lascia chiudere a me stasera e tu chiuderai domani. Faremo a turno, cosi mi pare sportivo’.

Non ne voleva sapere, la sua carriera era in ascesa e lui voleva mungerla ad ogni costo. ‘Sono io la star, e chiuderò lo show’ – mi rispondeva. Cosi lo fregai. Eravamo da qualche parte in Canada. Io venni presentato. Naturalmente per cantare i miei pezzi; poi, dopo l’intervallo, Buck avrebbe concluso la serata. Andò proprio cosí, con la differenza che non cantai le mie canzoni, cantai quelle di Buck.

Eseguii tutto il suo repertorio senza lasciargli neanche un brano. Alla fine uscendo di scena gli dissi: ‘Tocca a te’. Non sembró divertito. Buck sali sul palco ed esegui esattamente la stessa scaletta che avevo seguito io. Il pubblico non sapeva cosa pensare e Buck non sapeva cos’altro cantare. Un’altra sera eravamo a Charleston, S.C., con diversi altri artisti.

Di nuovo Buck insistette per chiudere lo show. Io indossai un paio di bermuda sformati e salii sul palco da dietro, piano piano. Buck era impegnato in una languida ballad ed io mi misi a ballare una giga dietro alla band. Solo il pubblico poteva vedermi e nessuno sul palco capiva perchè la gente urlava mentre Buck cercava di cantare il suo pezzo. Prima che Buck si voltasse io scomparivo, la gente si calmava ed io ricominciavo con la stessa pantomima.
Nel ’94 Buck mi ha dato una mano per questo libro ed abbiamo riso insieme per quelle dispute d’un tempo. L’età ha portato saggezza ad entrambi. ”

“Nel 1964 feci parte di quello che da alcuni venne considerato lo spettacolo country più importante mai messo in piedi fino ad allora: il primo country show al Madi­son Square Garden di New York City. Garth Brooks aveva due anni. Eccoci li, dieci cantanti country con le loro bands, nella capitale mondiale della moda e della finanza per fare una musica che poteva esser ascoltata su circa 250 radio AM stipate nel cuore della nazione.

Ci chiedevamo se mai qualcuno sarebbe venuto. Garth, Vince, Alan, Reba, ognuno di loro potrebbe suonare al Madison da solo, oggi, e fare il tutto esaurito. Trentun anni fa ci volle lo sforzo combinato di Ernest Tubb, Buck Owens, Webb Pierce, Bill Monroe, Bill Anderson, Stonewall Jackson, Skeeter Davis, Porter Wagoner, Leon McAuliffe e me.

Ci sono tornato nel 1993 e qualche vecchio fan si ricordava la mia performance del ’64, più esattamente, la mia uscita di scena. Ero abituato a dare tutto ai miei fans. Abitualmente, nei locali del Sud facevo un set di due ore, un intervallo, poi altre due ore. Ma a New York mi dissero di cantare due pezzi. Due pezzi! Avevo scorazzato la mia band per tutta quella strada da Dio sa dove, pagato per il loro dormire e mangiare, solo per sentirmi dire che potevo cantare circa sei minuti.

Non mi piace che mi si dica cosa fare riguardo a molte cose, rifiuto che me lo si dica riguardo alla mia musica. Il promoter aveva messo Ralph sotto pressione perchè il programma venisse rispettato e soprattutto perchè finisse in tempo. (Ralph Emery era l’agente dei 10 artisti. A New York tutti i lavoratori dello spettacolo erano sindacalizzati nelle Unions ed il rispetto degli orari doveva essere rigoroso e cronometrico. Al Sud le Unions erano praticamente inesistenti e nessuno era abituato a questo tipo di rigidità contrattuale. N.D.T.).

lo salii sul palco, e circa 8 riflettori mi colpirono in faccia. Udivo il pubblico ma non lo vedevo. Ero accecato. Aprii con White Lightning e fui folgorato quando esplose l’applauso. Mi sentii accettato e mi sentii bene. Non avevo fretta di andarmene. Proseguii con She Thinks I Still Care e l’applauso duró per tutta l’intro e per la prima strofa. In quel momento avrei perdonato gli Yankees per aver vinto la Guerra Civile. Credo che la gente si aspettasse che lasciassi il palco alla fine di quel secondo pezzo, come avevano fatto gli altri prima di me. Ne staccai un terzo.

Ralph era nella buca del suggeritore. Accecato dalle luci ne scorgevo solo la silhouette. Mi pareva che saltellasse e smanacciasse un sacco. ‘Grazie George per queste grandi canzoni – urlava nel microfono – ed ora, facciamo uscire il prossimo numero’. ‘Perchè dice questo -mi chiedevo – mentre sto ancora cantando?’. Al diavolo le Unions! Non sapevo che il promoter aveva detto a Ralph di fare il possibile per cacciarmi via (avevo cominciato il quinto pezzo) e che il limite invalicabile erano le 23 e 30. Quel momento si stava avvicinando ed il pubblico non aveva ancora ascoltato il ‘closing act’, cioè, indovinate chi? Buck Owens.

Bill Monroe, uno dei miei idoli fin dagli anni ’30, si accorse del dilemma di Ralph e si incamminó con calma verso il presentatore dicendo: ‘Mi pare che non ce la fate a far scendere George Jones, vero?’. ‘No, -rispose Ralph – e mi sa che il promoter avrà un attacco di cuore dopo aver perso le mutande in questo show’.

Credo che funzionari delle Unions si stessero leccando i baffi al pensiero dei soldi che avrebbero fatto se lo show avesse sballato gli orari. Monroe ed uno della sua band uscirono dall’ombra e misero un braccio per uno sotto le mie ascelle. Mi alzarono letteralmente dal suolo. Continuavo a cantare mentre mi allontanavo dalla portata del microfono. Ecco come uscii di scena: ridendo, scalciando e cantando.

La mia band non capiva cosa stesse succedendo. Avevano fronteggiato molti promoters perchè non mi presentavo. Non erano abituati a fronteggiare uno perchè non me ne andavo. Cosi smisero di suonare, gradualmente, uno alla volta.

Il pubblico cominció a rumoreggiare. Ero imbarazzato, ma non potevo prendermela con Bill Monroe per due ragioni: primo, era molto più  grosso di me, secondo, era il mio eroe. I musicisti di Buck cominciarono ad infilare i jacks negli amplificatori della mia band prima che alcuni dei miei se ne fossero andati.

A Buck era stato detto di sbrigarsi con i suoi due pezzi, e cosí fece. Il cronometro dello show si fermó esattamente alle 23, 29′, 40″. Dieci cantanti e sessanta musicisti lasciarono una delle più grandi arene coperte della nazione. Migliaia di persone e un sacco di giornalisti assistettero allo spettacolo. Ma solo uno cantó cinque pezzi. ”

“Una delle cose peggiori che ho mai combinato fu contro Porter Wagoner. Nel ’70 Tammy ed io cantavamo una sera al Grand Ole Opry. Lo show era diviso in sezioni e Porter era l’ospite della nostra sezione. La mia mente diventava estremamente alterata quando mescolavo alcool e pasticche e spesso diventavo molto aggressivo ed ostile. Decisamente cattivo.

Quella sera avevo mescolato liquore e pillole, quando vidi Porter dirigersi verso la toilette degli uomini al Ryman Auditorium. Mi ero fatto l’idea che Tammy e Porter avessero una relazione clandestina. Seguii Porter e lo vidi in piedi all’orinatoio. Lo raggiunsi alle spalle gridando: ‘Fammi vedere cos’è di cui Tammy va tanto fiera!’. Detto questo gli afferrai l’uccello e cominciai a torcerlo. Porter cominció a saltare e agitare le braccia. Non si muove molto quando canta. Si muove molto se gli torci il pene. Si pisció addosso e dovette cambiarsi. Perse il set successivo ed Ernest Tubb dovette sostituirlo.

Quando rividi Porter ero sobrio, mortificato e molto umile. ‘Hey man, – mi disse – quello non eri tu, era un ubriaco, ti perdono’. Forse mi perdonó, ma non dimenticó. Quasi quarant’anni più tardi quando gli fu chiesto cosa ricordasse dei suoi rapporti con George Jones l’unica storia che citó fu quella. Disse a Tom Carter che lo avrebbe richiamato se gli fosse venuto in mente qualcos’altro.

Ma non ha ancora richiamato. Immagina avere un amico per quarant’anni il cui unico ricordo da far pubblicare è che gli torcesti l’uccello. La gente si ricorda sempre il peggio. So di aver mostrato la peggiore parte immaginabile di me nei miei giorni di alcoolismo pesante. Purtroppo, il vero alcoolismo pesante doveva ancora venire.”

Fabio Ragghianti, fonte Country Store n. 43, 1998

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