Vorrei innanzitutto smentire il luogo comune che vuole Ricky Skaggs suonare solo tutto ciò che ha corde. Non è vero, e l’ha dimostrato suonando con il dito anche i bordi del bicchiere d’acqua portogli in conferenza stampa in quel di Gstaad un’ora prima che iniziasse una delle Country Nights più interessanti e vivaci.
A renderla tale ha contribuito decisamente proprio lui, Ricky Skaggs, con i suoi Kentucky Thunder, sfoderando un concerto di bluegrass di una potenza impressionante.
Niente Califomia o Greenwich Village, solo old Kentucky e immagini di vita dura. Niente progressive o strane alchimie parajazzistiche, ma puro e sano bluegrass tradizionale, ‘mountain style’ anche nel modo sobrio ed essenziale di presentarsi al pubblico: vestiti grigio scuro e cravatta o al massimo in camicia e cravatta, poche parole e niente frasi di circostanza, solo la presentazione delle canzoni, mood rilassato e decisamente simpatico, grande semplicità e modestia nell’offrire la propria bravura.
Al suo fianco una band di 7 elementi che sembravano usciti da una vecchia fotografia ingiallita di inizio secolo tipo quelle della Carter Family e che per potenza, velocità e precisione avrebbero potuto battere qualunque diavolo dell’inferno avesse avuto la fregola di sfidarli: il veterano Bobby Hicks ed il giovanissimo (19 anni) Luke Bullah ai fiddles, Jim Mills al banjo e occasionalmente dobro, Mark Fain al contrabbasso, Paul Brewster, Clay Hass e Darrin Vincent alle chitarre.
Lui, Ricky, sembra aver adottato il mandolino come primo strumento. Solo episodicamente durante lo spettacolo ha imbracciato la chitarra.
Dei sette Thunders. almeno quattro provvedono alle harmonies guidate da Paul Brewster che riesce a tenere un high tenor naturale sulla voce del leader, e non so se mi spiego.
Il giovane Clay Hass alla lead acoustic guitar è forse quello che ha stupito di più per quel suo dettare il ritmo con un flatpicking travolgente e breaks supersonici.
Il loro spettacolo per il cronista inizia imprevedibilmente nel backstage dove la band ‘si scalda’: tutti in piedi, in cerchio, quasi un rito per creare l’unità artistica perfetta, il feeling e la concentrazione. Nell’aria, la stessa atmosfera di famiglia e comunità protoindustriale magistralmente imprigionata nelle inquadrature di Coal Miner’s Daughter o in un qualche quadro di Benton.
La voce di Skaggs è appena percettibile, vicino a lui Paul Brewster, sommesso, prova le harmonies, poi ad uno ad uno gli strumenti abbozzano i breaks. Tutti sorridono soddisfatti. Staff e giornalisti si accalcano intorno discretamente cercando di non disturbare.
I flash fioccano ma sembrano non spezzare la magia del momento.
Ed ecco che arriva Mark Chesnutt con la birra in mano e viene risucchiato nel cerchio a cantare Uncle Pen e si vede che anche lui è contento.
Come vorrei avere una videocamera! Lo show ripropone esattamente le stesse sensazioni. La posizione in scaletta fa temere un calo di presa sul pubblico, scaldatissimo dal grande concerto di Chesnutt, se non altro per l’apparato completamente acustico. Niente da fare. L’incipit è forte con Fire On The Mountain e si vede subito che il pubblico è inchiodato al posto.
Skaggs stringe il mandolino e spara un introduzione ed un paio di breaks che trascinano l’applauso.
Segue un altro strumentale alla stessa velocità poi ecco Crying My Heart Over You.
A sua volta, Bobby Hicks introduce una fiddle tune in cui si inserisce a duettare Luke Bullah.
Il ritmo si assopisce per qualche istante con due canzoni d’atmosfera dal CD Ancient Tones: The Walls Of Time e Coal Minin’ Man. La prima mette in primo piano dobro e armonie vocali, la seconda vede dobro e fiddle scambiarsi la lead part per diluirsi in un finale suggestivo in cui il fiddle rimane solo ad accompagnare visioni di uomini col casco che si avviano al lavoro in una grigia alba di montagna.
La gente è in piedi ad applaudire ed il concerto riparte con altri strumentali e due fiddle tunes, una con Luke Bullah sotto i riflettori, una Fiddle Patch swingata magistralmente da Hicks, poi ancora Highway 40 Blues ed Uncle Pen.
E’ il momento del gospel con l’unico brano del preannunciato CD Soldier Of The Cross: si tratta di A Voice From High, di Bill Monroe, in cui Brewster va oltre il possibile con harmonies che toccano il falsetto.
Lo stesso Brewster canta poi da solista la Listening To The Rain degli Osborne Brothers con banjo e mandolino che si scambiano i complimenti.
Purtroppo per il pubblico del sabato scompare dalla scaletta una bella versione di Little Maggie, di molto accelerata rispetto a quella del Dott. Ralph Stanley, con un solo di chitarra strepitoso. In compenso arrivano le versioni prolungate di Bluegrass Rules e di una Roll In My Sweet Baby’s Arms veloce come la luce, a chiusura di un concerto che forse nessuno si aspettava così intenso.
Di Skaggs ormai si sa e si è detto molto. A Gstaad abbiamo incontrato un uomo sereno, brillante, sicuro e semplice nelle sue convinzioni ma lontano da quegli eccessi di propaganda spirituale che avevamo paventato, un musicista sensazionale, rigoroso, a cui tocca il compito naturale di rappresentare il bluegrass e di portarlo nel cuore di un pubblico sempre più ampio. Insomma, Bill Monroe ha trovato il suo autentico erede e sono sicuro che da lassù nell’hillbilly heaven se lo sta ascoltando soddisfatto.
La serata era comunque iniziata bene con la graziosissima cantautrice Allison Moorer, reduce dal successo di immagine procuratole dalla partecipazione alla colonna sonora di The Horse Whisperer. Capelli biondi boccolosi, minuta ma ben fatta, pantaloni neri con bande a fiori colorati (qualcuno l’ha definita ‘una Kim Basinger in versione brava ragazza’), apparentemente poco intimidita dal compito di aprire le danze, Allison si è rivelata al pubblico della Country Night l’interprete ideale delle atmosfere romantìche dell’Uomo Che Sussurrava Ai Cavalli e, sostenuta da due chitarre, basso, steel e batteria, ha offerto tutto il suo piccolo ma valido repertorio di canzoni.
Sua fonte principale è il CD Alabama Song che per i miei gusti ha proprio la title song come pezzo forte, un omaggio allo Stato natale, pervaso di nostalgia e reso con notevole grazia interpretativa. La voce è calda ed energica e ricorda a tratti quella della più famosa sorella, in arte Shelby Lynne. Anche l’album tributo a Gram Parsons viene citato come provenienza di una decorosa versione di Cry One More Time. Qua e là fa capolino qualche debolezza di repertorio come per esempio una Bring Me All Your Lovin’ già registrata da Trisha Yearwood e preannunciata nel prossimo CD, o una Long Black Train poco incisiva ma a queste fanno fronte la Soft Place To Fall del film, The One That Got Away (Got Away With My Heart) scritta, e si sente, a quattro mani con il veterano Kostas da Nashville.
Un omaggio all’amico Walter Hyatt che l’ha sapientemente introdotta negli ambienti di Music City e presentata a Robert Redford. con la delicata Tell Me Baby, ma soprattutto, in chiusura, una bellissima versione di Angel Flying Too Close To The Ground pennellata soltanto con voce e due chitarre ed un lungo suggestivo solo di chitarra acustica. Un bel Nove, solo Willie la può fare meglio.
Mark Chesnutt, come sappiamo, viene da Beaumont, nell’East Texas, come Tracy Byrd, suo amico di pesca e di bevute e come George Jones suo riferimento artistico, una cittadina molto vicina al confine con la Louisiana cajun e tutto questo si sente forte e chiaro nella sua musica e nel suo stile vocale. Honky-tonks e relativo campionario umano, divorzi, amori conquistati e persi malamente, voce nasale il giusto e inflessioni alla Possum.
E’ simpatico, con quell’aria un pò sfrontata da bulletto redneck ma sincero negli atteggiamenti quasi a voler dire “Non è che so fare molto ma cerco di farlo bene e sono fortunato di vivere così”. Ed invece sa fare, eccome.
La sua presenza di palco è da star scafata, la scelta delle canzoni è eccellente e, come vedremo, originale. Un piccolo debole per i volumi alti in fin dei conti non guasta e, anzi, aiuta a rendere travolgenti i numerosi brani ‘similcajun’ con cui sbanca il jackpot di Gstaad: A Little Too Late, uno dei miei preferiti, purtroppo unica track originale dal Greatest Hlts album di due anni fa, Jolie, una Big Mamou, prolungata con asolo di tutti gli strumenti, e Gonna Get A Life. In mezzo l’immancabile redneck rock di Bubba che spara al jukebox perché suona canzoni che lo fanno piangere, il primo successo Too Cold At Home, una bella medley Old Country / Almost Goodbye, alcune highlights dall’ultimo CD I Dont Want To Miss A Thing, tra cui la title track rubata agli Aerosmith e riarrangiata “perché come la fanno loro non mi piaceva”‘, This Heartache Never Sleeps e Let’s Talk About Our Love e poi ancora i suoi classici Brother Jukebox, Going Through The Big D, I Think Of Some thing, l’unica un po’ monotona, e Thank God For Believers.
La chicca viene a sorpresa: via gli strumenti, tutta la band impugna i microfoni, parte con un doo doo wop intrigante ed ecco scodellata la Longest Time di Billy Joel tale e quale all’originale ma con il tocco personale della voce di Chesnutt. Immediatamente a seguire, compaiono sax e tromba al posto di chitarra e steel per uno scatenato classico rock&roll, Jump Live And Wail, con tanto di coro, e Chesnutt a scherzare con Elvis.
Pubblico a testa in giù e luci rotanti. Il nostro esce tra applausi sfrenati. Molti dicono che sia stato il concerto migliore e penso che lo si possa sottoscrivere. Sicuramente è stato il più divertente, spiritoso e coinvolgente.
Lo stesso certo non si può dire per Mrs. Lorrie Morgan. A differenza degli altri, lei recita la parte della superstar e si prende molto sul serio. Entra in scena da un grande cuore rosso a ricordare che il suo ultimo CD si chiama My Heart, parla al pubblico quasi sillabando le parole per far capire che lei ci tiene a che tu capisca, dice le peggio banalità (“siete il pubblico migliore del mondo”, ecc) senza neanche un po’ di spontaneità.
Come il suo show, del resto: ogni più piccolo gesto, suo o della band o della corista/chitarrista Britney Allen è studiato al millimetro ed esprime un malinteso senso della professionalità, quella che non lascia spazio all’espressività del singolo.
La voce è molto bella ma la dinamicità maggiore del concerto è data dalle luci di scena, il suono è più soft che mai, il batterista Howard Mayberry è così discreto che non ha quasi ragione di essere: i suoi sforzi di non farsi sentire sono commoventi: tocca i bordi del rullante, estrae pettinini da raschiare, confetti ripieni di qualcosa di frusciante, ci si aspetta che si metta a scuotere qualcosa di ancora più piccolo.
Britney Allen sorride beata e ancheggia leggermente e, a percettibile comando gestuale della lady si avvicina e ancheggia insieme a lei.
Lei fa una lunga dedica a una certa Elsie che l’ha accompagnata per Gstaad e le canta Edelweiss, ripescata dall’infanzia, dice. Le canzoni provengono tutte da My Heart: Red, con voce e piano su tutto, Strenght, Letting Go in cui la steel prende il sopravvento, The Things We Do di cui non trovo molto da dire.
Qualche citazione dal recente passato con Watch Me e Half Enough, poi una rivisitazione della Killing Me Softly della Flack,. una Will You Still Love Me Tomorrow, molto gradevole in versione totalmente acustica, un bel arrangiamento di Just When I Needed You Most con solo di mandolino e dobro, un break di chitarra classica di Randy Flowers, tutto molto garbato.
Per farci capire che ritorna al repertorio di My Heart, va a cantare dietro il grande cuore rosso riapparendo poi raggiante e compiaciuta della trovata scenica. Dopo Go Away e This Bed, excursus di vita femminile incentrata sui vari ruoli del mobile in questione, grande colpo di scena, ma solo per il pubblico del venerdì: introduce sul palco Chris e Amie, due ragazzi americani che hanno vinto a qualche lotteria il premio di seguire Lorrie Morgan nel tour europeo (di cui poi si premurerà di annunciare la cancellazione ‘per ragioni complesse’).
Lui, esortato a parlare, si inginocchia davanti a Amie e si dichiara chiedendole di sposarlo. Tutti pensiamo ad una messa in scena ed invece è vero: Amie piange dalla gioia e Lorrie Morgan chiede loro di restare sul palco mentre lei canta Fly Me To The Moon. I due si dondolano contenti sbaciucchiandosi poi alla fine della canzone salutano e se ne vanno. Ancora incredulo, mi ripropongo di verificare se al sabato la scena si sarebbe ripetuta. Invece no. Al posto di Chris e Amie, la nostra lady canta benissimo Crazy e Ode To Billy Joe, riconquistando posizioni presso il pubblico che ora la sta a sentire convinto.
Tanto per non calcare la mano sul pacchiano, ecco il duetto di Maybe Not Tonight con la voce di Sammy Kershaw registrata, poi conclusione con Here I Go Again, un bis con una Long Train Running così edulcorata da chiedersi il perché di tale scelta e, stilettata finale, una Angel preceduta da un lungo pistolotto sugli angeli custodi.
Malgrado tutto ciò Lorrie Morgan è piaciuta a molti e sicuramente lei ha i numeri per piacere a chi cerca le atmosfere soft e romantiche da cena a lume di candela e seguito davanti al caminetto. Ha tutte le caratteristiche anche per interessare chi vuole calarsi il più possibile nell’atmosfera della Nashville più ufficiale, più di facciata, quella Nashville che mantiene in vita una Grand Ole Opry che non fa più storia perché soppiantata da mille altri show televisivi ma che percorre le strade ed i riti formali dell’establishment da cui Mrs. Morgan proviene.
Per quanto mi riguarda, penso a quel critico italiano che ha recentemente affermato che la Country Music è noiosa e mi viene il sospetto che abbia visto un solo concerto country, quello di Lorrie Morgan.
Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 51, 2000