Guido Toffoletti

In questa intervista fiume Guido ha accettato di parlare più dei musicisti che ha incontrato che di se stesso. Nonostante questo, si delinea con chiarezza il suo ritratto: un musicista estremamente serio, legato non tanto alle origini della sua musica, quanto ad una maniera di viverla, vecchia se vogliamo, ma intramontabile. Di personaggi legati a questa concezione, Guido ne ha conosciuti tanti, e ce ne parla in quest’intervista. I loro non sono certo nomi da poco: Alexis Korner, Mick Taylor, Keith Richards; e se la loro è musica ‘vecchia’, allora ben venga…
Intervista senza peli sulla lingua. Probabilmente alcuni troveranno nelle parole di Guido aspre critiche, e probabilmente meritate. Buona lettura.

Allora Guido, cosa significa stare on the road per vent’anni?
Significa… significa molto spesso rinunciare ad una vita privata fatta di affetti, se vuoi significa rinunciare ad avere una famiglia, significa tornare a casa e molto spesso ritrovarsi da solo senza la voglia di fare niente… questo è l’aspetto negativo, però c’è la musica, il pubblico e il successo che, messi tutti insieme, ti danno una carica unica. Voglio dire che per me salire sul palco e suonare è talmente importante che poi tutto il resto sì, ogni tanto mi pesa, ma basta che prenda una chitarra in mano e dimentico ogni tristezza.

Quindi la vita da bluesman on the road per te non ha ancora perso di fascino?
Assolutamente e ti dirò di più, nei periodi in cui suono poco, piano piano divento teso, insopportabile. Tu sai che vivo a Venezia e che nel Veneto sono conosciuto e quindi ogni sera c’è chi mi invita ad una festa o ad una sfilata di moda, ad una inaugurazione, insomma ogni sera vado da qualche parte, ma non c’è niente da fare: se non suono, se non ho un contatto diretto con il pubblico non sto bene. Se questo sia un limite non lo so, posso dirti che faccio questa vita da tantissimi anni e ho tutte le intenzioni di continuare malgrado le difficoltà che di volta in volta devo superare.

Che tipo di difficoltà?
Di ogni genere. Incontro molto spesso difficoltà con quelli del gruppo quando si parte per dei concerti hanno sempre mille problemi, e che anche durante gli spostamenti mi creano situazioni che forse io non capisco perché per me, salire in macchina e fare due, tre o quattrocento chilometri per andare a suonare e poi riprendere la macchina e tornare indietro è naturale, mi piace; certo mi stanca ma non mi creo il problema di dove e quando mangiare, di dove andare a dormire… invece qui da noi i musicisti sono sempre angosciati da questi problemi, sembra quasi che siano una sorta di impiegati della musica e non parlo del mio gruppo in particolare, in Italia è una situazione generalizzata. Ma a questo punto io dico… se non volete suonare dal vivo cambiate mestiere perché soltanto nei concerti un musicista si esprime al meglio… sì, io ho fatto tanti dischi, ma sarei pronto, se qualcuno me lo chiedesse, a rinunciare ai dischi e continuare a fare solo concerti.

È vero che sei un band leader un po’ troppo esigente, alcuni dicono cattivello?
Non esistono band leader cattivi e band leader buoni, esistono musicisti che sono band leader ed altri che non lo sono.

In questi venti anni di musica hai avuto occasione di conoscere e legare con alcuni musicisti perlomeno mitici; io adesso ti faccio dei nomi e tu raccontami di loro…
Proviamoci

Cominciamo con Alexis Korner…
Alexis l’ho incontrato a Londra nel 1976. La prima cosa che ti colpiva di lui era quel fascino insolito, quel carisma che poche persone hanno. Malgrado fosse sempre disponibile, gentile e affabile, ti rendevi subito conto che era una persona che ne aveva viste tante e di tutti i colori e che quindi non si faceva mettere sotto da nessuno. Musicalmente lui aveva uno stile preciso e se tu ascolti i dischi a cui ha collaborato ti accorgi immediatamente quando interviene. Prendi ad esempio Jorma Kaukonen: sicuramente è bravo, ma ha preso molto da Rev. Gary Davis e questo rende il suo stile meno personale di quello di Alexis o di altri musicisti; quello che voglio dirti è che Alexis aveva un suo stile preciso, e questo fa di un musicista qualcosa di unico.

Hai mai avuto occasione di suonare con lui?
Su disco purtroppo non esiste niente, ho molte cassette di cose fatte assieme, la musica ti assicuro è interessante, ma la qualità sonora è pessima. Doveva suonare su No Compromise, ma purtroppo è morto prima; una cosa che però rimane della nostra amicizia sono le note di copertina scritte da Alexis per l’album che feci con Herbie Goins — pensa che Keith Richards dopo averle lette ha ritagliato un pezzo della copertina e mi ha detto: “Lo terrò sempre con me perché questa è la Bibbia”.

Che chitarre usava Alexis Korner?
Per i set acustici usava una vecchia Guild, mentre per l’elettrico aveva due Fender, una Stratocaster ed una Telecaster; poi aveva una Gibson Les Paul a cassa grande (una chitarra che ho visto soltanto in mano a lui), un regalo di Stevie Marriott. Come amplificatore, quando l’ho conosciuto usava un Roland Jazz Chorus 60; ricordo che aveva anche una dodici corde acustica della Epiphone, una Riviera 360 TD12, ma non glie l’ho mai vista suonare. Spesso poi giocava con una Chiquita, sai quelle piccole chitarre da viaggio… e così l’ho comprata anch’io. La mia ora ce l’ha Mick Taylor, gli piaceva così tanto che glie l’ho regalata.

Secondo te qualcuno ha raccolto l’eredità musicale di Korner?
I tempi sono diversi, figure come la sua non esistono più. Lui aveva una cultura musicale immensa, e con il suo gruppo, la Blues Incorporated, è stato tra i primi bianchi a fare blues elettrico, era un profondo conoscitore di jazz e già nel 1962 faceva qualcosa di molto simile alla fusion. Anche negli ultimi tempi della sua vita, quando suonava in duo assieme a Colin Hodgkingson, Alexis era come in anticipo sui tempi e questa è stata una costante di tutte le sue formazioni. Quando ti dico che aveva una cultura musicale mostruosa non intendo dire che fosse un personaggio che si era formato sui libri, per lui il notiziario non esisteva, lui aveva vissuto on the road e si era fatto così. Pur facendo questo lavoro era riuscito a crearsi una famiglia ed i suoi tre figli sono tutti impegnati nel business musicale: Sappho è una cantante ed è presente sul mio No Compromise, Nico è un buon chitarrista, mentre Damian fa il tecnico del suono negli studi dei Kinks. Alexis era veramente un uomo unico, non ha mai accettato compromessi, e l’unico disco d’oro della sua carriera indovina dove lo teneva?… Nel cesso.

In un’altra intervista che ti ho fatto anni addietro mi hai parlato dei tuoi inizi e dell’incontro con Mick Webley: che tipo di chitarrista era?
Anzitutto che tipo di chitarrista è, perché Mick vive tranquillamente in Svizzera e appena siamo tutti e due liberi da impegni ci vediamo, lui per me è veramente un fratello.

Come l’hai incontrato?
L’ho conosciuto al Piper di Milano e mi ha subito impressionato per la tecnica che aveva — ti parlo del 1966. Allora usava una Gibson Les Paul Standard del ’58 e l’attaccava ad un Marshall da 100 watt, e ti assicuro che per quegli anni il suono era incredibile. Pur essendo chitarrista di un gruppo rock’n’roll, Mick aveva un fraseggio blues che io non avevo mai sentito prima. I Renegades indubbiamente furono un gruppo sanguigno che riusciva a coinvolgerti totalmente e sono stati qui in Italia dei pionieri — non dimenticare che mentre i Renegades facevano cose come Cadillac, un gruppaccio come quello dei Camaleonti cantava Io, Tu E Le Rose. Poi credo che i rapporti con le case discografiche si deteriorarono e i Renegades svanirono nel nulla. Nel ’77 tornarono alla ribalta col nome di Kim & the Cadillacs e fecero dei buoni album, sia Mick che gli altri del gruppo hanno suonato nel mio The Birthday Album e per me è stata una grossa soddisfazione; ma ancora maggiore è quella che ho avuto quando fui chiamato a sostituire Mick in alcune date di un tour dei Kim & the Cadillacs… da fan a roadie del gruppo e poi sul palco assieme a loro… non è male. Se ti interessa posso dirti che quando Mick ha inciso delle parti per il mio album, usava una Gibson Les Paul De Luxe attaccata al mio vecchio Ampeg Reverber Rocket.

Sempre in The Birthday Album c’è anche forma Kaukonen.
Sì, l’ho conosciuto nell’80, quando facevo da spalla al suo primo tour italiano, lui allora suonava in trio e se ricordo bene il trio si chiamava Vital Parts. Tanto per darti l’idea della serietà dei musicisti stranieri, Jorma sin dall’inizio del tour si lamentava perché il suo nome era più in evidenza rispetto a quello del gruppo; da noi i musicisti, per avere il loro nome scritto in grande rispetto a quello del gruppo, sarebbero disposti a tutto…

Sbaglio o ogni volta che parli di musicisti italiani sei un po’ critico?
In alcuni casi e per certi musicisti non sono solo un po’ critico, ma anche qualcosa di più, perché credono tutti di essere chissà chi… e non ne hanno motivo.

Magari dopo ne parliamo, ma adesso finiamo il discorso su Kaukonen.
Ad essere sincero non mi sono mai sentito coinvolto nella musica degli Hot Tuna o dei Jefferson Airplane, e preferisco il Kaukonen dei set acustici; in effetti la sua maniera di suonare l’elettrica è molto simile al modo in cui affronta l’acustica. Nel tour che ti dicevo, con i Vital Parts — che erano poi la sezione ritmica presa dai Pearl Harbour and the Explosion — Jorma suonava con una Gibson L 5S, una chitarra stupenda, almeno nell’estetica; era la seconda edizione di quel modello, con i pick-up humbucking e come amplificatore usava un Mesa Boogie (per l’esattezza ne aveva due, ma uno era di scorta). Nel mio The Birthday Album partecipò a due pezzi, lo strumentale The Birthday Boogie e nel brano Baby, What You Want Me To Do, dove cantò oltre a suonare. Le sue parti le registrò agli studi B&B di Verona, attaccando la sua L 5S in diretta ad un vecchio banco Telefunken ad otto piste. Di tutti i musicisti che hanno partecipato a quel lavoro è stato l’unico ad aver avuto un compenso, gli altri furono solo spesati.

Come è nata questa collaborazione?
È stata un’idea del manager tedesco di Jorma, Eric De Furstemberg, io all’inizio non ci avevo pensato perché l’album doveva essere una riunione di vecchi amici…

Quindi Kaukonen non è proprio un tuo amico?
Abbiamo avuto dei problemi soprattutto l’anno seguente al tour con i Vital Parts. Jorma tornò per un tour in cui presentava il suo repertorio acustico, aveva varie chitarre ma usava soprattutto una vecchia Martin e una Ovation e durante il concerto, nella seconda parte mi sembra, entrava anche un bassista, un certo Danny De Gorio che normalmente si prendeva un gran bordata di fischi perché usava il basso in modo sperimentale con una grande dose di distorsione ed effetti. Io partecipavo a questo tour come ospite, entravo verso la fine del concerto ed insieme facevamo quattro brani tratti dal mio The Birthday Album. Il rapporto con Jorma era buono, lui poi si divertiva molto a guidare il mio Mercedes ed era gentilissimo; pensa che spesso la mattina mi portava il caffè in camera.

Ma allora i problemi quali erano?
Problemi di droga. Con Jorma c’era la moglie Margareta che aveva seri problemi di ‘roba’, e poi anche il bassista non scherzava, la notte se era sprovvisto di droga aveva degli attacchi pazzeschi. Fu allora che Margareta mi chiese di rimediare la ‘roba’ per lei, Jorma e De Gorio e lì nacque il primo scazzo che portò praticamente alla fine della nostra collaborazione live. Io cominciai a viaggiare da solo e dopo poche date me ne andai. Da allora non ho più incontrato Jorma, quando viene in Italia mi manda sempre a salutare dal nostro comune amico Luciano Viti, il grande fotografo, e proprio da Luciano ho saputo che non sta più con Margareta. Meglio per lui.

Ma è proprio vero che ti sei comprato una Rolls Royce Silver Cloud II?
Sì, è un sogno che sono riuscito a realizzare, credo che sia la macchina più bella che sia mai stata disegnata. Ma questo che c’entra con i chitarristi?

Beh! Direttamente niente, ma sapere che un bluesman italiano si compra una Rolls Royce fa sempre notizia.
Credo che se ne diranno tante su Toffoletti e la sua Rolls Royce, in verità ho fatto quello che hanno fatto tanti altri musicisti appena hanno cominciato a guadagnare bene, e cioè realizzare i propri sogni.

 Quindi è il caso di sfatare l’idea che di blues non si vive, almeno in Italia.
Di blues si vive se sei disposto a suonare, suonare e suonare, a sbatterti su e giù per l’Italia senza pensare troppo alle comodità, a casa, alla famiglia. Oggi ho questa Rolls Royce che oltretutto, ci tengo a dirlo, è stata di William Holden, e già penso ad un Cadillac, oltre che a comprare un bel po’ di chitarre ‘dal mio amico Pete Alenov.

Alenov non è uno che si occupa delle chitarre di Keith Richards?
Sì, proprio lui, l’ho conosciuto nell’85 quando sono stato ospite degli Stones ai Pathé Marconi, mentre registravano Dirty Work; sia lui che Alan Rogan si occupano delle chitarre di Richards e Wood, oltre a questo Peter ha un negozio a St. Paul nel Minnesota ed ogni due o tre mesi mi manda una lista di chitarre, tutti pezzi molto scelti che trova nei suoi viaggi negli States. Da lui per ora ho preso un Gibson Firebird V Reverse del ’64 ed una Epiphone con il corpo a forma di Stati Uniti, dipinto, naturalmente, a strisce bianche e rosse. Tra poco dovrei prendere una Gibson Dove Sunburst del ’65 come quella che ha Keith.

Che ci fai con l’acustica?
Indovina un po’ … ci suono. Ho messo su un duo, per ora assieme a Zabeo, per suonare un po’ di più… sai, il gruppo elettrico è sempre impegnativo e costoso, così oltre alla Blues Society vado in giro in duo acustico proponendo un repertorio naturalmente adatto a questa formazione: facciamo pezzi come One Scotch, One Bourbon, One Beer, Midnight Special o Hell Hound On My Trial di Robert Johnson. Insomma Toffoletti è in movimento continuo…

E gli altri invece?
Per molto tempo ho pensato agli altri, oggi mi occupo molto più di me stesso e non sto a guardare quello che succede a chi aveva cominciato con me, trovo più stimolante ascoltare i giovani e magari aiutarli. Negli ultimi tempi ho suonato con tantissima gente per lo più sconosciuta: Mr. Williamson Combo Blues sia nel disco che in alcuni concerti, George Aron and the Western Bops, un gruppo di rock’n’roll; sono stato ospite di Stefano Palatresi durante una sua apparizione televisiva e poi ho suonato con i Coccodrills, gli Overlook e la Kokomo Blues Band. Ho anche aiutato un cantautore su un brano, lui si chiama Alberto Grollo, aveva bisogno di una chitarra bluesata, aveva chiesto a tanta gente e tutti gli avevano chiesto dei soldi, tanti soldi, io sono andato in studio, ho fatto la mia parte di chitarra e me ne sono andato senza chiedergli nulla. Questo non vuoi dire che Toffoletti lavora gratis, ma Toffoletti capisce le situazioni.

Tu hai mai pagato… che so… Mick Taylor?
Se lo avessi fatto mi avrebbe tolto il saluto.

Come è nata l’amicizia con Taylor?
Lo conobbi quando venne in Italia con John Mayall per un breve tour. Io e John siamo amici da anni e così una sera mi presentò a Mick, facemmo amicizia e prima di ripartire mi dette il suo numero di Londra dicendomi di chiamarlo se mi fossi trovato da quelle parti. Così capitò che una volta che stavo a Londra gli telefonai, lui mi invitò a casa sua e passammo parecchie sere assieme; la cosa che più mi ha colpito è la sua collezione di Gibson Firebird e Les Paul… roba incredibile, tutte chitarre d’annata, stupende. Fu allora che gli chiesi se avesse voluto partecipare alle session di No Compromise e lui mi rispose, parole testuali: “Guido, se mi fai suonare dal vivo con te ed Alexis quando lui inciderà le parti per piano, mi farai un grande favore”. Qualcuno potrà anche non crederci, ma disse proprio così. Purtroppo Alexis morì prima che il progetto andasse in porto.

Comunque Mick Taylor ha suonato in No Compromise?
Si, lo chiamai a Los Angeles, lui stava provando con Bob Dylan, fu John Mayall a darmi il numero di una delle case di Dylan dove Taylor era ospite e così quando Mick venne in Italia in tour con Dylan nell’84, subito dopo lo spettacolo all’Arena di Verona, all’insaputa del manager di Dylan che avrebbe potuto creare dei problemi, Mick, alle tre di notte, venne ai Nova Studio di Vicenza per darmi una mano e per tener fede all’impegno che aveva preso, ma credo che l’abbia fatto anche per onorare la memoria del nostro comune amico Alexis.

Come sono andate le session?
Mick non aveva con se la chitarra che era già partita con la strumentazione del gruppo, nel frattempo quelli dello studio avevano rimediato una Gibson SG ed un Fender London Reverb e Mick incise al volo due versioni di Let Me Hold You Tight. Ma il bello viene adesso, stai a sentire: la chitarra non era un gran che, perdeva continuamente l’accordatura, ma Mick riuscì comunque a suonare, poi l’appoggiò da una parte, all’improvviso la chitarra cadde e la paletta si staccò nettamente dal manico. Beh! Tu dovevi vedere come Mick era mortificato, non faceva che scusarsi e dire a Steve Stefani, che era il proprietario dell’SG, che avrebbe ripagato lo strumento o le riparazioni, ti giuro era imbarazzato come un bambino. In realtà la paletta era già rotta ed un liutaio l’aveva incollata male. Questo comunque ti fa capire come sono questi personaggi, gente molto umana, disponibile, quel giorno riaccompagnai Mick in albergo che erano le sette di mattina, quando stavo per andare via presi dalla macchina la mia Chiquita e la lasciai al portiere dell’albergo con un biglietto per Mick… se gliela avessi data direttamente non l’avrebbe mai presa anche se sapevo che gli piaceva molto.

Che mi dici della tua amicizia con Keith Richards e Ron Wood?
Sono due persone diverse e quindi con loro ho dei rapporti diversi. Keith è più disponibile, un vero amico, ci sentiamo spesso per telefono. A volte di notte squilla il telefono ed è lui che mi chiede se quella sera ho suonato… pazzesco! Si informa dei miei concerti, mi chiede quante date devo fare… vedi, lui è fatto così, una volta mi ha detto: “Guido, io sono stato soltanto più fortunato di te”. Questo è Keith. Quando è venuto recentemente a Roma per la conferenza stampa promozionale al suo album, ci siamo incontrati ed abbiamo passato una serata assieme, lui era stanco, aveva fatto qualcosa come otto/nove ore di stampa e televisione; pensavo crollasse da un momento all’altro ed invece siamo stati a cena assieme, c’era anche Patti, sua moglie; e poi mi ha invitato nella sua camera d’albergo e siamo stati fino alle sei del mattino a parlare di musica. Ha un entusiasmo unico, mi faceva sentire la cassetta della colonna sonora di Hail! Hail! Rock’n’roll e come uno alle prime armi mi diceva… senti adesso che cosa fa il piano… o la chitarra. Credo che sia un grande proprio perché pensa costantemente alla musica e si impegna totalmente nel suo lavoro. Tanto per dirtene una, quando stavo a Parigi e lui era in studio, più di una volta l’ho visto in piedi nella sala che provava e riprovava Sleep Tonight da Dirty Work, e non per dieci minuti: una notte è stato fermo in piedi per sette ore lavorando sullo stesso brano. Molte volte quando provo col mio gruppo c’è chi dopo mezz’ora è stanco, vuole un caffè o farsi un giretto. Ecco, la differenza è tutta qui, e se io e Keith ci capiamo al volo è per il discorso che facevamo all’inizio, perché sia io che lui ci sbattiamo dalla mattina alla sera per la musica.

Come l’hai conosciuto?
Io ero un grande amico di lan Stewart, il ‘sesto’ Stones, il loro pianista, purtroppo morto anche lui, e a mia insaputa deve aver dato il mio numero di casa a Keith e così un giorno squilla il telefono e dall’altra parte c’è uno che dice di essere Keith Richards. All’inizio sto allo scherzo, a quello che credevo fosse uno scherzo, e poi lo mando a quel paese ed attacco. Questo richiama subito dopo, io ero convinto che fosse Stefano Zabeo, ma poi mi venne un dubbio e così mi feci lasciare il telefono dell’albergo e richiamai… signori quello era proprio Keith Richards di passaggio a Venezia.

E di Ron Wood che dici?
Chiaramente l’ho conosciuto a Parigi e poi l’ho incontrato a Roma e a Londra a casa sua, credo che abbia una serie di problemi attualmente, che gli impediscono di essere disponibile, non so, ho la sensazione che quando ci incontriamo ci sia sempre una barriera… forse umanamente è diverso da Keith.

Tu hai suonato con gli Stones?
Vedi, il bello di quelle band è che si divertono ancora. Durante le session a cui ho assistito, ogni tanto si fermavano, spegnevano i registratori e giù a suonare rock o blues e così capitava che per due o tre ore suonavamo tutti assieme sempre degli standard sui classici giri, sono capaci di andare avanti per ore e ore senza annoiarsi o stancarsi. Io ne ho conosciuti di musicisti, ma Keith, Alexis e Mick Taylor sono un’altra cosa, sono geni, talenti naturali, musicisti totali.

Visto che ne hai conosciuti molti, andiamo avanti?
Dave Sumner dei Primitives è un grande chitarrista, anche lui ha suonato sul The Birthday Album: l’ho chiamato senza neanche conoscerlo, ci siamo messi d’accordo per il giorno, è arrivato con una Stratocaster, l’ha attaccata ad un Pignose ed ha suonato. Lui ha una stupenda chitarra Burns che era stata costruita appositamente per Hank Marvin degli Shadows. Poi vediamo… c’è Alvin Lee, un chitarrista rovinato dalla nomea di ‘pistola più veloce del West’: in privato è capace di suonare poche note sentite, cercate, volute, purtroppo da lui il pubblico vuole mille note sparate alla velocità della luce e questo lo limita, io glie l’ho anche detto ma ormai il personaggio è quello. Senti, ma degli italiani non vogliamo parlare?

Come vuoi, da chi cominci?
Tolo Marton è stato il primo chitarrista della Blues Society… cominciamo da lui. Vediamo… è una persona che non mi piace ed il primo a cui l’ho detto è stato proprio lui. Chiariamo, io non ho nulla contro di lui, non mi piace e basta, è un fighetto di provincia, figlio di una delle più ricche famiglie di Treviso, che durante gli spostamenti creava solo problemi, non sopportava i disagi che le tournée comportano, una volta il batterista Angelo Ragazzi comprò un ciuccio per neonati e lo mise in bocca a Tolo per non sentire più le sue lamentele. Da un punto di vista musicale ha dato molto alla band, sia come arrangiamenti che come idee, lui ha un fraseggio molto bello e quando è arrivato nella mia band era avanti tecnicamente rispetto ad altri chitarristi. Fu lui a convincermi a suonare dal vivo, io avevo fatto un disco, ma non credevo ci fosse pubblico per quella musica. Con Tolo ho vissuto il periodo pionieristico della Blues Society e lo ricordo con grande affetto, però dal lato umano non c’era intesa. Quando se n’è andato ho capito che la Blues Society non aveva bisogno di virtuosi o di mostri, ma di persone che sapessero comunicare tra loro e con il pubblico. La cosa buffa e che oggi a sentir lui sembra quasi che non mi abbia mai conosciuto. Io sarei sinceramente stupido se fingessi di ignorare la sua importanza nel periodo iniziale del gruppo, ma da parte sua è squallido non riconoscere che il naso fuori dal Veneto glie l’ho fatto mettere io. Quando ho saputo che aveva cominciato a suonare anche lontano da Treviso, ho pensato che anche lui si era tirato su le maniche come noi comuni mortali.

Che mi dici di Stefano Zabeo?
Anzitutto che è uno dei miei migliori amici, siamo complici; e poi è un buon musicista nel senso che oltre ad essere un chitarrista espressivo e preparato è un buon compositore, sa cantare ed anche arrangiare. Mi è di grande aiuto in studiò e sa farmi da spalla sul palco, insomma Stefano è un musicista di grande statura. Lui veniva dal rock e all’inizio mi ha dato problemi di volume ed anche di note, forse ne sparava troppe. Stefano però ha un difetto: la sua insicurezza, e in un mondo come il nostro, fatto di gente che ha una grande stima di se stessa, spesso senza motivo, Stefano è un po’ spiazzato, la scarsa fiducia nelle sue possibilità l’ha portato a fare l’insegnante, mentre la musica si deve vivere a tempo pieno. Finché non è arrivato alla Blues Society, Stefano non sapeva quanto era bravo. Senza offesa per nessuno, credo che Stefano sia il personaggio più adatto ad affiancarmi nella band, anche se per colpa del suo fottuto lavoro non sempre può seguirmi. Lui ha molte chitarre tra le quali spiccano un Gibson Firebird III, una Telecaster d’annata, una Gibson 355 Stereo, come amplificatori si affida ad un Mesa Boogie Super 60 Symulclass, un Fender Stage ed un Pignose che porta sempre appresso. Potrei poi parlare di Mario Grenga che ha suonato con me per un periodo ed è il chitarrista che suona sul mio Live At The City Hall Cafè. Lui non è di estrazione blues, anzi credo si sia formato sui Beatles, ma io non ho sempre bisogno di un chitarrista blues nel senso stretto della parola. Normalmente suona con una Stratocaster che lui stesso ha modificato, attaccata ad un Marshall da 50 watt. Anche Maurizio Bonini ha suonato durante un tour con la Blues Society. All’inizio ci sono state delle difficoltà perché lui è abituato al trio e quindi suonava senza fare troppa attenzione a quello che facevo io. Ma ti assicuro che dopo un periodo in cui abbiamo suonato anche cinque volte a settimana siamo arrivati a Roma con un affiatamento unico e Maurizio suonava divinamente. Abitualmente usa una Stratocaster mancina, suona benissimo il dobro e ne possiede uno stupendo — credo che forse potrebbe sfruttare un po’ di più il fatto di suonare così bene anche il dobro. Infine vorrei dire due parole su Adriano Vettore che conosco da poco ma che suona blues da tantissimi anni con il suo gruppo La Bella Blues Band. Suona con noi ogni tanto alternandosi magari con Zabeo al basso.

Per finire che chitarre hai?
Sempre poche… allora: Rickenbacker 3 pick-up del ’66, Dan Armstrong, Gibson ES 330, ES 345 Stereo, il Firebird che ho comprato da Alenov, una Gibson Trini Lopez, Fender Jaguar, un dobro 33 D, una Hofner lap steel, una Guild `Duane Eddy’ e poi altre, ma non me le ricordo.

Giuseppe Barbieri, fonte Chitarre n. 38, 1989

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