Hawaiian Steel Guitar

“The music of the Hawaiians, the most fascinating in the world, is still in my ears and haunts me sleeping and waking” (Mark Twain).
La fama quasi leggendaria delle isole Hawaii è senz’altro legata alle loro melodie eseguite su una chitarra o, col progredire dei tempi, su una tastiera di chitarra elettrificata, con l’ausilio di una sbarretta metallica a produrre quel tipico suono glissato soave e accattivante che, appunto, trasporta la mente di chi ascolta alle assolate spiagge di Waikiki, alle piantagioni di ananas e, soprattutto, alle sempre inghirlandate, sorridenti e disponibili native (tali almeno appaiono invariabilmente nei vecchi films).
Va però rilevato che questa ‘musica’ rappresenta solo l’aspetto più commerciale e relativamente più recente dell’enorme, antico e nobile patrimonio musicale delle Isole, e deve la sua popolarità alla contaminazione americana delle melodie indigene originarie, cominciata negli anni ’20, quando scoppiò il boom commerciale di tutto quello che era hawaiiano e culminata con l’esproprio anche delle tecniche chitarristiche hawaiiane.

Non a caso infatti le orchestrine locali degli hotels eseguono ancora oggi per intrattenere i turisti brani come Blue Hawaii, My Little Grass Shack o On The Beach At Waikiki, composti negli anni ’20 e ’30 da musicisti Tin-Pan-Alley americani, e il moderno dobro, abbondantemente usato nel country e nel bluegrass, pur derivando dalla chitarra hawaiiana, viene orgogliosamente rivendicato come uno dei pochissimi strumenti musicali di origine esclusivamente americana!
Il problema di fondo è che purtroppo, specie per le cosiddette ‘minoranze etniche’ o comunque per i paesi con possibilità turistiche, si era instaurato una sorta di obbligo, di dare al forestiero-vacanziero l’immagine del paese che visitava il più possibile fedele ai copioni che questi aveva assimilato dai mass-media turistici; il che portava a identificare le Hawaii col ‘crying sound’ delle chitarre slide, l’India con il sitar e i ragas, l’Africa con i tam-tam di budello, l’Italia (ahimè) con gli stornelli e il mandolino, e via dicendo.
Questi superficiali stereotipi stanno ai giorni nostri fortunatamente cadendo, e c’è un maggiore (e più serio) interesse verso le radici delle varie forme musicali etniche.

Riguardo la musica hawaiiana, ci si muove ancora lentamente e con difficoltà: le antiche forme musicali (canti con solo accompagnamento ritmico percussivo) venivano tramandate oralmente di generazione in generazione, specie fra le caste nobiliari (cosa strana) o di sangue reale, che si sono con l’andar degli anni inevitabilmente estinte conservando gelosamente il proprio patrimonio musicale; inoltre ognuna delle maggiori isole che formano l’arcipelago, un tempo divise da acerrime rivalità, sfociate spesso in vere e proprie guerre, ha caratteristiche musicali proprie, differenti dalle altre. Il filo comune che lega comunque gli antichi canti è il loro carattere celebrativo-narrativo; molto si è infatti potuto apprendere della storia delle Isole attraverso i testi di questi canti, che narravano le vicende storiche, le battaglie, i re succedutisi e le opere da loro compiute; solo più tardi compaiono brani dedicati alle bellezze della natura delle Isole. Proprio per meglio comprendere l’evoluzione della musica hawaiiana, maturata e modificatasi negli anni di pari passo allo sviluppo socio-economico delle Isole, converrà tracciare un breve quadro storico-geografico.

Geografia e storia delle Hawaii
Le isole Hawaii o, come erano più anticamente chiamate, isole Sandwich, si trovano nell’Oceano Pacifico e sono riunite in un arcipelago di 6 isole principali che sono, in ordine di superficie, Hawaii, Maui, Oahu, Kauai, Niihau e Kaholawe. Dal 1959 formano il cinquantunesimo stato degli USA, con capitale Honolulu, sita nell’isola di Oahu, dove attualmente vive gran parte della popolazione e si svolgono le principali attività. La famosa Waikiki, con le sue decantate spiagge, è una frazione di Honolulu; altre località o luoghi geografici che ricorrono sovente nelle canzoni, indigene e non, sono la città di Hilo, nell’isola di Hawaii, dove si trovano anche le due principali montagne vulcaniche Mauna Kea e Mauna Loa, oltre alle cascate di Hiilawe, fra le più alte del mondo. Il clima ideale con scarse escursioni termiche (22° C di media in gennaio e 26° C in agosto) fa effettivamente di queste isole il ‘Paradiso del Pacifico’. La popolazione al giorno d’oggi è molto eterogenea con meticciamenti fra i vari gruppi etnici; la razza originaria è comunque polinesiana e tali sono anche i costumi e, per esempio, l’architettura indigena.

All’epoca della scoperta europea, dovuta a Cook nel 1778, l’arcipelago era diviso nei 4 regni rivali di Oahu, Maui, Kauai e Hawaii. Proprio in quel periodo la locale società polinesiana vedeva un declino delle antiche caste dominanti a vantaggio dell’aristocrazia guerriera, che si era creata propri feudi indipendenti (ahupauaa). Tale processo di transizione sfociò in una serie di guerre fra i diversi regni culminate tra il 1795 e il 1810 con l’unificazione dell’arcipelago per opera del re Kamehamena I. Questi, esponente dei nuovi ceti feudali, combatté risolutamente la cultura tradizionale, che attribuiva alle vecchie oligarchie carattere sacro, aiutato in questo dalla diffusione di concezioni cristiane introdotte dai primi visitatori europei (trafficanti, avventurieri, ma anche emissari di varie potenze, come il russo Kotzebue e l’inglese Vancouver, quest’ultimo ebbe indirettamente, come vedremo più avanti, un ruolo importante nell’introduzione nelle Isole della chitarra). Alla sua morte, nel 1819, l’arcipelago si trovava quindi in un delicato giuoco di influenze esterne.

Nel 1835 venne introdotta la coltivazione della canna da zucchero, il che portò radicali modifiche del regime fondiario e quindi della economia e della società isolana; il sorgere di un’agricoltura commerciale comportò infatti nel giro di pochi anni una forte immigrazione di manodopera asiatica e il riaprirsi di lotte signorili, stavolta spalleggiate da interessi coloniali. Verso la metà del secolo il tentativo francese di imporsi con la forza fu vanificato dagli americani (influentissimi durante il regno di Kamehameha III, 1832-54); anzi, col passare degli anni la preponderanza yankee divenne schiacciante (con il trattato di reciprocità commerciale del 1887, Washington otteneva l’importante scalo marittimo di Pearl Harbour), al punto da provocare una reazione feudale xenofoba. Così l’ultimo sovrano di Hawaii, la regina Liliuokalani (autrice di numerosissime canzoni, fra cui la popolarissima Alhoa Oe) per scongiurare una guerra civile, che avrebbe provocato l’intervento americano, abdicò nel 1893, rassegnando il potere a un governo provvisorio presieduto dall’americano, naturalizzato hawaiiano, Sandford Dole. Questi, proclamata la repubblica (1894), completò il gioco ‘chiedendo’ l’annessione dell’arcipelago agli USA, ratificata nel 1898. Due anni più tardi le Hawaii furono costituite territorio federale.

Dagli ‘Oli’ al ‘Ki Ho Alu’
Come già accennato, è possibile oggi dare queste notizie interpolando gli avvenimenti di cui si ha una qualche documentazione scritta con quelli che la tradizione orale trasmetteva di generazione in generazione sotto forma di canti corali (oli), come scriveva la regina Lidia Liliuokalani nel 1898: “… non appena nasceva una melodia, passava dal compositore originario a uno dei suoi più intimi amici; questi a sua volta la cantava a un altro e così la diffusione aumentava di giorno in giorno, al punto che in poco tempo ognuno conosceva la nuova melodia, come d’altronde succede oggi nelle comunità (i paesi europei visitati dalla regina pochi anni prima), dove una compagnia d’opera itinerante introduce una nuova aria …”.
Gli strumenti che accompagnavano questi canti primitivi erano quasi esclusivamente percussivi, fatta eccezione per l’ukeke (da non confondersi con l’ukulele, introdotto più tardi dai Portoghesi), che si suonava pizzicando una corda fatta della fibra della pianta olana, e veniva usato per le serenate notturne ma, dato l’uso, fu prontamente vietato dai missionari al loro arrivo.

Per alcuni di questi antichi canti esiste peraltro una documentazione scritta su pentagramma della melodia, unitamente ai testi, nei due libri di musica hawaiiana scritti dal compositore e musicologo hawaiiano Charles E. King. Questi, grazie agli studi scolastici musicali compiuti a New York in gioventù, fu in grado di compilare e pubblicare nel 1921 una raccolta di brani tradizionali, riarrangiamenti e proprie composizioni, con testi, arrangiamenti per piano (!) e diagrammi degli accordi per ukulele. I King’s Books, soggetti a numerose riedizioni e aggiornamenti sono oggi, seppure affetti dalla stortura di fondo (peraltro comune) di aver ridotto a pagine scritte una musica popolare estremamente personale ed irripetibile per coloriture e sfumature, una importantissima documentazione sulla musica delle Isole.
Data la loro natura di libri prettamente compilativi, nulla purtroppo ci dicono o permettono di dedurre riguardo l’evoluzione della musica hawaiiana, soprattutto per quanto concerne l’adozione della chitarra; brillanti e valide tesi in proposito sono comunque state fatte da Keola Beamer, valente chitarrista slack key hawaiiano, discendente di musicisti e compositori, e dal Dr. George S. Kanahele, presidente della Hawaiian Music Foundation.

Riassumendo le loro osservazioni, la chitarra è arrivata nelle Isole circa 150 anni fa, portata da ‘vaqueros’ della California (allora territorio del Messico spagnolo). Questi erano stati assoldati dal re Kamehameha III per insegnare ai nativi come allevare razionalmente il bestiame cresciuto in cattività, progenie di alcuni capi donati dal Capitano di Vascello G. Vancouver, quale emissario inglese, al re Kamehameha I nel lontano 1793. Terminato nel giro di pochi mesi il loro compito, i ‘vaqueros’ tornarono in patria, lasciando agli isolani in dono o frutto di baratto, alcune chitarre. Costoro, non avendo potuto assimilare le tecniche dal poco che avevano potuto vedere e ascoltare dai ‘vaqueros’, che d’altronde prendevano la chitarra in mano solo nei momenti di relax, dovettero per forza di cose inventarsi un modo di suonarla. Il principale problema che si presentò fu, verosimilmente, l’accordatura.

E’ abbastanza logico supporre che il modo più semplice di risolverlo sia stato accordare fra loro le 6 corde in modo da produrre un suono gradevole quando venissero suonate insieme a vuoto, molto probabilmente un accordo maggiore, per esempio un Sol aperto (Re Sol Re Sol Si Re), o in una tonalità che comunque ben si prestasse ad accompagnare la voce.
Da qui il termine ‘Slack Key’ dato a questo stile o, in idioma hawaiiano, Ki (key) Ho Alu (slack) cioè ‘accordatura allentata’ (rispetto allo standard Mi La Re Sol Si Mi). Dapprima la chitarra slack key fu impiegata per accompagnare la voce nell’esecuzione degli antichi canti tradizionali, mediante accordi maggiori trovati a orecchio e ottenuti con semplici barre lungo la tastiera; la mano destra provvedeva all’opportuna ritmica ‘randellando’ le corde come d’altronde fa ancora oggi chi si accinge ad imparare la chitarra.

Questo primitivo approccio si andò gradatamente affinando e nel primo ‘900, come riferisce Alice Namakelua, autrice di numerose canzoni, lo stile slack key consisteva nel scegliere due accordi ed un certo tipo di picking con la mano destra che si prestassero ad accompagnare differenti canzoni.
In breve tempo l’importanza dei testi passò in secondo piano e la chitarra slack key divenne così un genere prevalentemente strumentale, in cui la melodia e armonia venivano riproposte da fraseggi sulle corde acute, pizzicate generalmente da indice e medio della destra, mentre il pollice, alternandosi sulle corde basse, forniva il necessario accompagnamento.
La chitarra slack key ebbe notevole diffusione fra le isole, pur restando al tempo stesso uno stile musicale estremamente personale e colloquiale; ogni clan familiare possedeva un certo tipo di accordatura, patterns ritmici ed abbellimenti melodici sensibilmente diversi dagli altri, e li custodiva gelosamente come parte integrante del patrimonio storico-culturale familiare. Allorché, nei primi anni del secolo, questo settarismo scomparve e questo stile divenne relativamente codificabile, la sua popolarità venne offuscata dal nuovo stile chitarristico nascente nelle Isole, e che avrebbe ben presto acquistato notorietà mondiale: la Hawaiian Steel Guitar. Probabilmente per questo motivo non esiste quasi documentazione discografica intorno agli anni ’20 e ’30 della chitarra slack key, e quel poco che oggi se ne sa è frutto degli studi fatti da musicisti locali che, a partire grosso modo dagli anni ’50, si dedicarono alla sua riscoperta e valorizzazione.

Hawaiian steel guitar
In questa sezione si parlerà della hawaiian steel guitar, dove il termine ‘steel’ si riferisce all’uso che si fa in questo stile di una sbarretta metallica, detta appunto ‘steel’ o ‘bar’ o ‘slide’ invece delle dita per pressare le corde a una determinata altezza della tastiera per ottenere una particolare nota; ‘Hawaiian’ indica invece lo stile di suonare la chitarra in questo modo, tenendola sdraiata sulle ginocchia.
La hawaiian steel guitar o, in hawaiiano Kika (guitar) Kila (steel), comincia ad avere una certa notorietà nel primo ventennio del 1900, quando gli artisti isolani di questo strumento cominciarono a girare gli Stati Uniti suonando nei locali e successivamente, col diffondersi della popolarità, ad incidere dischi e ad aprire vere e proprie scuole musicali di tecnica steel guitar.
La nascita non ufficiale di questo strumento risale grosso modo al periodo 1860-1880, e la sua paternità è oggi attribuita a tre diverse persone: James Hoa, Gabriel Davion, e Joseph Kekuku. Ognuno dei tre infatti, da testimonianze di amici e concittadini, o da proprie affermazioni, rivendicò l’invenzione della tecnica slide. Le controversie che ancor oggi ci sono in merito non tengono conto, a mio avviso, del fatto che è probabilissimo che ciascuno dei tre abbia effettivamente e nello stesso periodo ‘creato’ la steel guitar a insaputa degli altri due ma casualmente, come derivazione della tecnica tradizionale della chitarra; e probabilmente alla stessa scoperta saranno arrivati anche numerosi altri chitarristi di allora rimasti nell’anonimato.

Che l’innovazione fosse nell’aria è infatti comprovato dal graduale uso che i chitarristi slack key andavano facendo, verso la fine dell’800, di un ditale infilato su un dito della sinistra per ottenere appunto effetti ‘slide’ ornamentali. Dei tre musicisti citati, il solo Kekuku comunque assurse a una certa fama, girando dapprima gli USA e in seguito vari paesi europei con la famosa compagnia Bird Of Paradise, in cui suonava a detta delle cronache con rara maestria lo strumento da lui ideato e popolarizzato.
Proprio durante un tour londinese del 1919 Kekuku rivendicò a sé la nascita informale della steel guitar narrando di quando, un giorno del 1885, l’allora undicenne Kekuku stesse camminando lungo la ferrovia del suo paese natale, Laie presso Honolulu, strimpellando la chitarra, quando raccolse da terra un bullone e lo fece scivolare lungo le corde ottenendo, di base, il tipico suono glissato della futura steel guitar. Colpito dalle possibilità espressive musicali di questa nuova tecnica, il giovinetto sperimentò successivamente vari tipi di ‘bar’, partendo da oggetti poco ortodossi come bottigliette, dorsi di coltelli o di pettini di metallo, fino a fabbricarsi al tornio, presso la scuola Kamehameha dove studiava, un particolare ‘steel’, del tutto simile a quello usato dai moderni dobroisti, ovvero un cilindretto metallico di dimensioni tali da poter essere agevolmente impugnato fra il pollice e il medio della sinistra e sufficientemente pesante per produrre con un buon sustain il nuovo suono slide.

La chiave del successo di Kekuku e della sua maggiore fama rispetto ad Hoa e Davion sta proprio nel continuo amore e passione riversati sul nuovo strumento che, oltre a renderlo tecnicamente un maestro, gli fecero affinare man mano gli aspetti per così dire ‘meccanici’, quali l’adozione di un capotasto, alzando così l’action delle corde, per evitare che lo slide nelle sue evoluzioni lungo la tastiera urtasse sui tasti, interferendo col suono, e la sostituzione delle corde di budello con corde d’acciaio per aumentare il volume e migliorare la timbrica. Inoltre Kekuku fu anche maestro di innumerevoli novelli chitarristi steel, sia hawaiiani che americani (insegnò infatti a Chicago e Boston) e pare insegnasse utilizzando sia il pentagramma che le tablature.
Un’ultima innovazione, non specificatamente attribuita a Kekuku, ma apparsa in quegli anni, fu l’uso di fingerpicks ricavati da pezzi di lamiera per rinforzare il picking della destra sulle più coriacee corde d’acciaio.

Jo Kekuku fu senz’altro il rappresentante più famoso di quella che oggi si suole definire ‘la prima generazione’ di chitarristi steel; costoro erano quasi tutti suoi amici o allievi, come Pale K. Lua e G. Awai, e suonavano pressappoco con lo stesso stile, eccettuato il solo Frank Ferera, di origine portoghese, che pare avesse imparato per conto suo, e quindi sviluppato tecniche lievemente differenti.
A questo proposito si nota che lo stile e le tecniche di questi pionieri ricalcano fedelmente quelle impiegate nella slack key guitar, a partire dalle accordature. Si rileva infatti un prevalente uso di accordature aperte in La o in Sol, come per esempio il ‘low A tuning’ (Mi La Mi La Do diesis Mi) e il ‘high A tuning’ (La Do-diesis Mi La Do-diesis Mi); inoltre lo strumento veniva ancora suonato con complicati pattern ritmici sulle note basse e la melodia, eseguita con lo slide, era frequentemente intervallata da legature e rolls sulle corde libere. Questo era peraltro reso necessario dalla natura stessa della chitarra hawaiiana in legno di koa, che non dava sufficiente sustain alle singole note. Così si nota solo episodicamente un uso esclusivamente melodico-solistico della steel guitar, che diventerà invece caratteristica peculiare dei chitarristi della seconda generazione, i quali, ispirati sovente dai fraseggi di strumenti come violino e clarinetto, privilegiano una tecnica più basata sul virtuosismo, l’improvvisazione e la velocità, delegando ukulele e chitarra per l’armonizzazione e l’accompagnamento.

Ad ogni buon conto i chitarristi steel, nel loro vagabondare per i locali e luoghi di intrattenimento americani e coi primi dischi da loro incisi, popolarizzarono questo nuovo stile a tal punto che dal 1899 la ditta Sears-Roebuck Company cominciò a vendere per posta steel bars e capotasti per alzare l’action delle corde, permettendo così di trasformare ogni chitarra degli States in chitarra steel hawaiiana.
L’iniziativa ebbe notevole successo e durò fino agli anni ’20, quando la National, e in seguito la Dobro, misero in commercio i primi modelli di chitarra interamente in metallo con risuonatore, appositamente disegnata per uso steel hawaiiano. Il risuonatore permetteva infatti tonalità e volumi sonori di gran lunga più adatti a sostenere ed esaltare il suono vibrato e metallico prodotto dallo slide. Questo tipo di chitarra, nonostante fosse fabbricato in USA e relativamente costoso, divenne subito nelle Hawaii lo strumento più usato dai giovani chitarristi steel che avevano appreso i rudimenti della tecnica dai musicisti della prima generazione, quando questi ancora insegnavano nelle Isole.

Esauritasi la foga pionieristica verso la fine del 1920, alcuni musicisti hawaiiani trovarono fissa dimora all’estero, soprattutto in America e in Canada, altri fecero ritorno in patria, ‘importando’ nell’arcipelago quelle influenze di ragtime, blues e jazz che furoreggiavano nell’America di quegli anni. Queste vennero prontamente assimilate dai giovani chitarristi steel, che stavano maturando in quel periodo le prime esperienze musicali tenendo concerti nelle Isole; nacque così un nuovo stile, frutto dell’intelligente integrazione del patrimonio musicale etnico con le nuove articolate concezioni musicali del nuovo continente.
Questa ‘fusione’, facilitata inoltre dalle nuove e più ampie capacità espressive delle chitarre resonofoniche National, – prima fra tutte la mitica Tri-Plate Resonator, che si valeva di tre coni di risonanza – portò gradatamente la Hawaiian steel guitar al ruolo di strumento solista, in grado di eseguire l’intera linea vocale di un brano e di proporne versioni ricche di abbellimenti durante gli strumentali che separavano le varie strofe.
I chitarristi di questa seconda generazione furono tutti artisti dotati di tecnica e inventiva invidiabili e quando a loro volta misero piede sul suolo americano destarono molta più sensazione dei loro predecessori. Le melodie originali hawaiiane da loro eseguite, grazie alle influenze americane introdotte, catturarono molto di più l’attenzione del pubblico e, conseguentemente, delle case discografiche che, fra gli anni ’20 e ’30, vendettero centinaia di migliaia di copie di incisioni di chitarra steel hawaiiana.

Fra i chitarristi che meglio interpretarono le nuove tendenze della steel guitar di quegli anni, spiccano i nomi di Sam Ku West, Ben Nawahi, dei ‘Genial Hawaiians’ Jim & Bob (Jim Holstein e Robert Kaai) e, buon ultimo, Samuel ‘Sol’ Hoopii, vero caposcuola per chiunque si sia addentrato nelle tecniche slide negli ultimi cinquant’anni.
Sol Hoopii, nato a Honolulu nel 1902, apprese sin dalla tenera infanzia l’arte della hawaiian steel guitar, divenendo in breve il chitarrista steel più popolare nelle Isole. Nel 1919 sbarcò a San Francisco con due compagni di ventura; la leggenda vuole che il viaggio gli fu pagato dagli stessi passeggeri, incantati dalla bravura del trio e che inizialmente lavorò come pugile prima di incontrare un ‘talent scout’ che lo avviò alla carriera musicale. In breve tempo il trio di Sol Hoopii divenne il gruppo più richiesto da tutti quei locali notturni di sapore hawaiiano sorti negli anni ’20 specialmente nell’area di Los Angeles sulla scia del boom commerciale-turistico delle Hawaii e di tutto ciò che fosse ‘esotico’.
La fama personale di Sol come chitarrista steel crebbe a dismisura in questa decade; egli effettuò infatti numerose incisioni discografiche e tour per gli States, lavorò inoltre come direttore musicale e perfino come attore. Nel 1938 abbandonò definitivamente il mondo dei night clubs e, divenuto evangelista, smise di suonare musica hawaiiana e pop tunes per dedicarsi ai gospels. Di questo genere fece numerose bellissime registrazioni, che presentano inoltre la novità dell’uso di una steel guitar elettrificata, strumento che aveva già sporadicamente preso a sperimentare dal 1931, anno in cui comparve sul mercato la prima chitarra steel elettrica, la Rickenbacker ‘Frying Pan’ (cioè ‘padella’, per via della forma della cassa) interamente in alluminio e solid-body.

Sol Hoopii fu davvero un musicista unico per ispirazione e inventiva, tecnica e interpretazione; seppe conciliare la musicalità centenaria hawaiiana che aveva nel sangue con i ritmi e i vocaboli dell’allora nascente jazz. Non a caso nel suo repertorio degli anni ’20 e ’30 figurano, oltre ai brani tradizionali hawaiiani, numerosi arrangiamenti per steel guitar solista di ragtime e blues-stomps di New Orleans. In queste brillanti elaborazioni la steel guitar esegue la melodia con fraseggi limpidi e ricchi di sfumature, grazie soprattutto all’intelligente e innovativo uso di tutte e sei le corde lungo tutta la tastiera, inserendo sovente improvvisazioni ricche di breaks e sincopi, scale cromatiche e trillati, in uno stile del tutto simile a quello dei clarinettisti jazz dell’epoca. Di costoro infatti Hoopii analizzò a fondo la musica e ne adattò le idee sulla steel guitar. Prova di questa devozione, sfuggita peraltro alla maggior parte dei critici, è il fatto che egli eseguisse questi brani con la steel guitar invariabilmente accordata in Si-bemolle (Si-bemolle Re Fa Si-bemolle Re Fa), tonalità tipica del clarinetto e dei fiati in genere, mentre per le hulas e gli altri motivi tradizionali hawaiiani ricorresse solitamente all’open-A o, meno spesso, all’open-G tuning.

Anche se Sol Hoopii rappresenta ancora oggi il top per fama e bravura, va pur detto che lo stretto contatto con la musica americana stimolò in generale tutti i migliori chitarristi steel hawaiiani citati di questa generazione; questi, copiando le tecniche del ‘maestro’, o sviluppandone essi stessi di nuove, sia pure sulla falsariga, diedero nuovo smalto a rags come  12th Street Rag, Tickling The Strings o ai classici jazz St. Louis Blues, Tin Roof Blues, Stack O’Lee Blues e via dicendo.

Minor sensibilità e rispetto ebbero i musicisti americani, in questo scambio reciproco di culture musicali. A parte infatti i banalissimi e parodistici pop tunes hawaiianeggianti nella forma e nei testi, sfornati da compositori Tin-Pan-Alley, sempre pronti a spremere commercialmente ogni genere musicale in voga in quegli anni, i brani prodotti da chitarristi steel bianchi nel decennio 1920-1930, evidenziano come costoro avessero badato più ad assimilare le tecniche esecutive in forma meramente virtuosistica, piuttosto che il particolare feeling hawaiiano che animava i musicisti indigeni presi a modello.
Unica eccezione per quel periodo è costituita da Roy Smeck, incredibile polistrumentista tuttora vivente, soprannominato a ragion veduta ‘Wizard of the strings’. Nato nel 1900 a Reading, Pennsylvania, e cresciuto a Binghamton, New York, Roy Smeck dimostrò fin da bambino un estro particolare su tutti gli strumenti a corda. Chitarrista autodidatta, apprese le tecniche del banjo tenore, di cui divenne a sua volta un maestro, dai famosi banjoisti degli anni ’20 Harry Reser e Joe Roberts e dell’ukulele ascoltando i dischi del popolarissimo intrattenitore vaudevilliano Cliff ‘Ukulele Ike’ Edwards.

Il primo impatto con la musica hawaiiana fu nel 1916, in occasione di un tour statunitense della già citata compagnia insulare Bird Of Paradise, ma la vera folgorazione che lo indusse immediatamente a dedicarsi alla steel guitar fu in occasione di una performance di Sol Hoopii in Binghamton. Da quel momento Smeck elesse a suo strumento favorito la chitarra steel, della quale imparò perfettamente le tecniche e le possibilità espressive da Sol Hoopii e dai suoi contemporanei, elaborando uno stile personalissimo (grazie anche alla sperimentazione con modelli elettrici e con l’octa-chorda, strumento a otto corde), basato comunque sullo stesso tipo di approccio, ingenuo e soave, tecnico ma fluido ed espressivo dei suoi modelli hawaiiani.

Un discorso a parte va fatto per tutti quei musicisti bianchi come Frank Hutchison, Tom Darby & Jimmy Tarlton, Cliff Carlisle, Dorsey & Howard Dixon, Pete ‘Bashful Brother Oswald’ Kirby, Leon McAuliffe (Bob Wills’ Texas Playboys), Bob Dunn (Milton Brown’s Musical Brownies) ed altri che, partiti dalla esperienza steel hawaiiana di quegli anni, generarono autonomamente negli anni ’30 e ’40 stili diversi, come ad esempio il western-swing, la cui particolarità sta appunto nell’introduzione in un organico quasi orchestrale di una steel guitar (prevalentemente elettrica, per questioni di volume musicale) o adeguarono le tecniche e le sonorità slide a un contesto musicale già esistente, tipo quello country-nashvilliano, da cui poi si svilupperà l’odierno dobro bluegrass.

Riguardo invece i bluesmen di colore, alcuni di loro, come Oscar Woods, Black Ace e Casey Bill Weldon, furono effettivamente ispirati – peraltro solo tecnicamente – dalla chitarra steel hawaiiana (infatti tutti e tre adottarono la chitarra National ‘Tri-Plate’ suonata sulle ginocchia con bars di metallo o bottigliette di vetro), ma mi sembra quanto meno anacronistico estendere il discorso, come invece sovente accade, a tutto il blues del Delta. Che Charlie Patton, Son House o Tommy Johnson suonassero prevalentemente in accordatura aperta e impiegando un bottleneck per ottenere note slide, è più da attribuire alla loro concezione della chitarra come strumento interlocutorio e integrante della voce, per cui è ovvio pensare che la scoperta del bottleneck estendesse le capacità espressive dello strumento in tal senso, piuttosto che a una improbabile influenza hawaiiana, oltretutto priva di precise documentazioni storiche, ma proposta solo in base ad una vaga affinità tecnica.

Mentre per Smeck e Hoopii l’era dell’elettrificazione rappresentò un’innovazione alla quale seppero con successo adeguare i propri stili, sia pure rinunciando a quella grossa componente etnica originaria, per la maggior parte dei chitarristi steel hawaiiani segnò il declino della popolarità. Strumento troppo costoso e complicato, specie poi con la graduale adozione di tastiere multiple, pedali e leve a ginocchio per alterare l’intonazione, giungendo alla odierna pedal steel guitar (ironia della sorte, inventata dall’ hawaiiano-americano Ernest Tavares), per i più mal si prestava a riproporre con immediatezza e genuinità l’autentica musica steel sviluppata in quegli anni. Verso la fine degli anni ’30 si assiste quindi ad un progressivo tramonto della chitarra steel acustica e da questo momento in poi la sua storia diventa patrimonio della storia della musica americana, perdendo, non solo di nome, quella originaria denominazione di ‘Hawaiian’.

Per riascoltare la hawaiian steel guitar nella sua giusta dimensione e suonata con un apprezzabile feeling hawaiiano, si deve a mio avviso risalire sino agli anni ’70, con l’apparizione sulla scena musicale americana dell’originalissimo ensemble di Robert Crumb & His Cheap Suit Serenaders, comprendente nell’organico due chitarristi steel, Bob Armstrong, attento studioso della musica degli anni ’30, in particolare quella dei chitarristi steel hawaiiani, e Bob Brozman, vero talento naturale, autore tra l’altro di un bellissimo disco solo per la Kicking Mule interamente dedicato alla hawaiian steel guitar.
C’è attualmente da sperare che, dopo tanti anni, queste prime uscite discografiche siano confortate da un rinnovato, più oculato e meno commerciale interesse verso la secolare musica delle Hawaii.

Discografia consigliata:
-Yazoo 1055, VV. AA., Hawaiian Guitar Hot Shots
-Folklyric 9009, VV. AA., Hawaiian Steel Guitar
-Folklyric 9027, VV. AA., Hawaiian Steel Guitar Classics
-Rounder 1012, VV. AA., Hula Blues
-Folkways RFS-612, VV. AA., On The Beach At Waikiki
-Rounder 1024, Sol Hoopii, Master Of The Hawaiian Guitar
-Folklyric 9022, Kalama’s Quartette, Early Hawaiian Classics

Essendo argomento del presente articolo la musica hawaiiana, la discografìa è limitata alle sole registrazioni di questo genere musicale (tutte riedizioni di 78rpm risalenti, la più parte, agli anni ’20 e ’30); chiunque fosse interessato agli sviluppi o alle riproposte della hawaiian steel guitar troverà interessanti ì seguenti dischi:
-Old Timey 113, VV. AA., Steel Guitar Classics (1920-30)
-Yazoo 1052, Roy Smeck, Plays Hawaiian Guitar, Banjo, Ukulele & Guitar (1926-49)
-Blue Goose 2027, Roy Smeck, Wizard Of The Strings (1980)
-Folkways 2671, The Six & Seven-Eights String Band Of New Orleans (1959)
-Blue Goose 2014, R. Crumb & His Cheap Suit Serenaders, No. 1 (1974)
-Blue Goose 2019, R. Crumb & His Cheap Suit Serenaders, No. 2 (1976)
-Blue Goose 2025, R. Crumb & His Cheap Suit Serenaders, No. 3 (1978)
-Red Goose 2026, R. Crumb & His Cheap Suit Serenaders, Party Record (1978) (78rpm)
-Streetside 1001, Bob Brozman, Your Pal (1977)
-Kicking Mule 173, Bob Brozman, Blue Hula Stomp (1981)

Andrea Rebora, fonte Hi, Folks! n. 4, 1984

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