La Blind Raccoon è un’interessante realtà che offre diversi servizi di promozione e pubblicità, soprattutto su radio e social media, principalmente per musicisti blues, senza disdegnare altri generi ad esso affini. La sede principale è a Memphis, ma è presente anche a San Diego, New York e Londra, ed è guidata fin dalla sua fondazione nel 2008 da Betsie Brown: una presenza femminile può risultare strana in un contesto che solitamente vede poche esponenti del gentil sesso, ma la Brown ha oltre 25 anni di esperienza in questo ambiente dove la sua competenza le ha guadagnato il rispetto di tutti gli addetti ai lavori. Fra l’altro, gli altri due nomi chiave dell’azienda sono Sallie Bengston, la quale gestisce gli aspetti amministrativi, e Rick J. Bowen, che è pure batterista nella Stacy Jones Band: ovviamente tutti accomunati dalla passione per il blues.
E sono invece uniti dallo stesso titolo di ‘Reverend’ i due musicisti di cui scriviamo di seguito, entrambi promossi dalla suddetta Blind Raccoon: la prima impressione prendendo in mano The Bodhisattva Blues (Treated and Released 012) di Reverend Freakchild è quello di un qualche legame con i Grateful Dead: intuizione che viene infatti confermata da altre immagini all’interno del booklet e soprattutto da varie tracce del dischetto. Dando poi un’occhiata ai collaboratori troviamo alcuni nomi che gravitano attorno alla multiforme famiglia dei Grateful Dead (e derivati), fra cui il tastierista Melvin Seals, il chitarrista Marc Karan, il batterista Chris Parker; e volendo, possiamo pure vedere una vaga somiglianza di Freakchild con Jerry Garcia.
Ma al di là di queste considerazioni di contorno il nostro interesse viene immediatamente catturato dall’iniziale I Can’t Be Satisfied, uno dei successi di Muddy Waters, con la slide protagonista in puro Chicago style, sul trascinante ritmo della batteria; il suo tributo ai grandi maestri prosegue con altri due classici come Big Boss Man e Little Red Rooster, nei quali gustiamo gli ottimi spunti di armonica e chitarra prima e del pianoforte di Scott Hackler nell’interpretazione del celebre gallo rosso di W. Dixon. Il tributo al sound dei Grateful arriva con Friend Of The Devil e Black Peter, entrambi a firma di Jerry Garcia e Peter Hunter: qui il tocco della chitarra di Karan richiama inevitabilmente le tipiche sonorità della band di San Francisco, come pure avviene nella pigra cadenza dilatata del secondo caso, per un tributo decisamente rispettoso e apprezzato. In mezzo si inserisce il traditional I Know You Rider, altro cavallo di battaglia delle band psichedeliche californiane di fine anni ’60 (Hot Tuna in primis) ben guidato dall’acustica e dall’armonica del reverendo.
È poi la volta di un omaggio ai Beatles, sempre in chiave psichedelica, prima con Yer Blues che vede l’Hammond di Melvin Seals a disegnare le trame su cui si sviluppa il cantato e l’assolo di Karan, per cambiare poi completamente tempo nei due minuti successivi; decisamente inedita la versione di Imagine, che richiama neanche troppo lontanamente la Sweet Jane di Lou Reed, venendo qui trasformata in un qualche cosa che inizialmente sconcerta, ma il cui arrangiamento ad opera del bassista Phil Marino ha sicuramente il suo perché. La piacevolissima ballata Sweet Sweet You è l’unica composizione di Freakchild, il cui testo omaggia i grandi bluesman del passato, prima di terminare con altre due icone dei Grateful Dead: Dead Don’t Have No Mercy del Rev. Gary Davis, per sola chitarra e flauto, e And We Bid You Goodnight cantata a cappella dal vivo. Ci siamo già occupati più volte in tempi recenti di questo personaggio, alternando considerazioni positive ad altre affatto lusinghiere: è indubbio che il reverendo sia talentuoso, ami scombinare le carte con la sua musica e le sue interpretazioni, ma in questo caso l’album in oggetto ha più meriti rispetto a qualche sbavatura, risultando quindi decisamente interessante, non solo per i Deadheads (i fans dei GD).
Reverend Shawn Amos è altresì un personaggio piuttosto eclettico, non solo in ambito strettamente musicale, come già avevamo avuto modo di scrivere in alcuni numeri precedenti: il suo ultimo Blue Sky (Put Together 00008) cerca di raccogliere questa sua versatilità, dove la scelta di registrarlo in Texas rappresenta un primo cambio di prospettiva, oltre al rinnovamento della sezione ritmica che l’accompagna, mantenendo la collaborazione con il chitarrista Chris Roberts, con lui da diverso tempo; vi sono inoltre alcune cantanti ospiti, ben utilizzate in alcune tracce. L’iniziale Stranger Than Today, come pure Counting Down the Days partono un po’ in salita, proponendo le prime note con dei suoni campionati, artificiali, che francamente non servono a un granché dato che poi i brani si sviluppano in una loro struttura lineare. Le coriste richiamano sonorità alla Ike & Tina Turner in Hold Back, mentre aggiungono brillantezza nella seguente The Job Is Never Done; le parole di Her Letter sono quasi sussurrate, in una specie di pudore che si muove fra la coppia di accordi che costituiscono questo gradevole pezzo acustico.
Troubled Man è cantato insieme a Ruthie Foster, creando una piacevole combinazione nei timbri delle due voci; decisamente interessanti le due ballate che vedono la presenza di Kenya Hataway (in realtà un po’ troppo in secondo piano): la delicata The Pity And The Pain lascia il segno, anche per l’intrigante assolo alla chitarra, mentre nelle sfumature di Albion Blues sono l’armonica di Amos e il pianoforte di Matt Hubbard che si insinuano quasi con garbo, presentando il pezzo con una cura che si evidenzia rispetto alle altre tracce. Probabilmente ciò è legato alla dedica specifica a Gary Stewart, carissimo amico del reverendo, morto suicida l’anno scorso, a cui l’intero album è dedicato. Decisamente apprezzabile il finale, che vede dapprima lo scoppiettante blues di 27 Dollars, cha aggiunge una bella nota di freschezza, e a seguire quindi il funk di Keep The Faith, Have Some Fun, con una sezione fiati particolarmente ricca che sa smuovere decisamente anche l’ascoltatore più pigro. Nel complesso le molteplici sfaccettature del reverendo Shawn Amos risultano ben amalgamate, grazie pure alle sue qualità vocali che gli permettono una buona espressività, a seconda dei contesti.
Due lavori quindi che, pur non lasciando episodi memorabili, hanno dalla loro un’ottima qualità esecutiva e diverse idee che meritano di essere apprezzate.
Luca Zaninello, fonte Il Blues n. 151, 2020