Per James Taylor, che già all’inizio della carriera si definiva un ‘walking man’, la vita, artistica e privata, è sempre stata associata all’idea del movimento, al moto perenne.
E non poteva essere diversamente per il discendente di una antica famiglia di marinai giunta in America dalla lontana Scozia. Un viaggio, quello di Taylor, cominciato alla fine degli anni Sessanta, quando fu il primo artista messo sotto contratto dall’etichetta dei Beatles, la leggendaria Apple.
Un viaggio che, fin da subito, ebbe un impatto così determinante sulla scena musicale americana da rivoluzionarne completamente l’assetto.
Era il periodo delle rock band, psichedeliche e politicamente impegnate, in cui dominavano Led Zeppelin e Grateful Dead, ma James Taylor avrebbe riportato il baricentro di quella scena sulla figura del cantautore solitario, intimista e malinconico: “Ho sempre amato gruppi come i Beatles, gli Stones, i Grateful Dead”, mi dice al proposito James Taylor nel corso di una piacevolissima conversazione telefonica. “Ho sempre ascoltato veramente di tutto, ma a quei tempi, gli anni Sessanta, era troppo complicato per me mettere su una band, era molto più semplice cominciare una carriera nella musica da solo, io e la mia chitarra, da classico folksinger. E ti assicuro che non sono mai stato consapevole di star portando qualcosa di nuovo sulla scena musicale. Vedevo me stesso come una sorta di Woody Guthrie, un Bob Dylan, un Tom Rush, che però cercava di suonare come Paul McCartney e John Lennon. Non mi considero assolutamente qualcuno che ha inventato una nuova figura musicale, il cantautore è sempre esistito nella musica nordamericana. E c’erano tanti come me, in quel periodo storico: Jackson Browne, Bonnie Raitt, Jesse Colin Young, per citarne solo alcuni.”
Il lungo viaggio di questo ‘walking man’, 54enne da poco risposatosi per la terza volta e da un anno di nuovo padre, questa volta di due gemelli, lo sta portando indietro nel tempo. Il nuovo album, October Road, ha il suono e l’intimità dei suoi classici degli anni Settanta, a cominciare da quella splendida chitarra acustica mai così in primo piano da molto tempo: “È un disco di impronta chitarristica in modo speciale”, conferma. “C’è stato un lavoro molto duro e accurato da parte dell’ingegnere di studio per mettere in primo piano il sound della mia chitarra, dovuto al modo in cui ha sistemato i microfoni in studio.” Chitarre che, ovviamente, sono sempre le amate Jim Olson.
Ma c’è anche un ritorno significativo, quello del produttore di due classici come Gorilla (1975) e In The Pocket (1976), Russ Titelman: “lo e Russ volevamo tornare a lavorare insieme da molto tempo. Gorilla e In The Pocket sono tra i miei dischi preferiti in assoluto. Purtroppo per motivi contrattuali non ci era più stato possibile, da quando ero passato alla Columbia e lui era rimasto con la Warner Bros., la mia vecchia etichetta. Adesso Russ ha lasciato anche lui la Warner e abbiamo potuto tornare a lavorare insieme”.
E si sente, specie in quel trio di classiche James Taylor songs che aprono l’album, September Grass, October Road e 4th Of July, anche se la prima di queste tre non è a firma JT: “September Grass è stata scritta da un mio vecchio amico dell’infanzia, un cantautore di nome John I. Sheldon. Le nostre famiglie, quando eravamo ragazzi, erano amiche, così ci conosciamo da una vita. Sua sorella, a quei tempi, era la mia ragazza… È una canzone che scrisse circa cinque anni fa, mi era sempre piaciuta, con quel mood molto rilassato”.
Che però suona proprio come una perfetta James Taylor song: “Beh, ho fatto qualche cambiamento e forse come dici tu adesso sembra una mia canzone, ma la parte migliore l’ha fatta lui”.
October Road è un disco intimo, caldo, come affacciarsi un attimo dalla finestra che dà nella living room del cantautore: “Abbiamo registrato le tracce base fondamentalmente in tre: io alla chitarra, Steve Gadd alla batteria e Jimmy Johnson al basso. Questa credo sia la ragione del sound particolarmente intimo e rilassato che si può avvertire, è stato tutto molto casalingo e naturale”.
Ma nel disco non mancano apparizioni di prestigio come quella di Ry Cooder (nella title-track) o della figlia Sally che, forse molti non sanno, è una cantautrice con una propria carriera già ben avviata: “Sally ha già pubblicato tre dischi, se li vende esclusivamente su Internet o ai concerti. Ti consiglio il suo primo album, il mio preferito. Anche mio figlio Ben pubblica il suo primo disco questa estate”.
Ma i giovani Taylor accettano di farsi consigliare da papà James? “Parliamo tantissimo di musica, discutiamo le nostre canzoni ed è una cosa molto bella condividere con i propri figli questo lavoro.”
C’è un’altra cover, nel disco, già pubblicata come singolo lo scorso Natale, il classico natalizio Have Yourself A Merry Little Christmas: “Avevamo finito di registrare il brano Mean Old Man, quella session fu molto veloce e avevamo ancora parecchio tempo avanzato da usare in studio, così proposi di provare Merry Christmas, questo vecchio tradizionale di cui avevo pronto un arrangiamento per chitarra”.
Un brano natalizio un po’ diverso dai classici del tipo, dall’incedere alquanto triste. “Merry Christmas, in origine, è una canzone triste. Il messaggio base è: ‘Cerchiamo di farcela questo Natale e speriamo che il prossimo sarà meglio’. Fu pubblicata in occasione dello scorso Natale, quando la città di New York stava vivendo il suo Natale più triste per via della tragedia delle Twin Towers. Pensai che quei versi si adattassero perfettamente a quello che la gente di New York stava vivendo.”
Ma come vive la situazione in cui l’America si trova, dopo l’11 settembre? Per citare la sua Stand Up And Fight, questo è il momento per un musicista come lui di ‘alzarsi in piedi e combattere’? “Ero in tour quando accade l’attacco dell’11 settembre, un tour che andò avanti fino a novembre. La gran parte della mia musica ha sempre avuto a che fare con storie personali, problemi e relazioni, ma durante quel tour avemmo la sensazione che il solo fatto di suonare un po’ di musica, senza bisogno di prendere posizioni politiche, solo il proporre un po’ di musica era di grande aiuto e consolazione per la gente. Per cui no, non credo sia il momento per uno come me di fare dichiarazioni o interventi particolarmente significativi. Non c’è bisogno di mostrarsi incazzati o cose del genere, insomma.”
Eppure c’è una canzone, nel nuovo disco, Belfast To Boston, che inizialmente si intitolava God’s Rifle, ‘il fucile di Dio’, e che parla di un problema di non poco conto, le guerre fratricide: “Quella canzone particolare la scrissi in Lussemburgo, due giorni prima di esibirmi a Belfast. Stavo pensando all’ultima volta che ero stato a Belfast: quella volta ci furono durissimi scontri, bombe, macchine della polizia ovunque, un momento molto tragico. Devi sapere che esiste una connection particolare tra Belfast e Boston: gran parte delle armi e dei soldi per i terroristi irlandesi arrivano proprio da Boston, la città dove vivo. Poi la canzone è divenuta una riflessione su tutti gli altri conflitti fratricidi, ad esempio quello della Bosnia o quello del Ruanda, guerre che si trasmettono di generazione in generazione. Pensavo a come queste popolazioni, pur di bloccare queste stragi, devono ingoiare le peggiori ingiustizie. Credo che risolvere questo problema sia una delle sfide più importanti del mondo moderno. Non vengono neanche più chiamate guerre, ma sono un pericolo per la pace di tutti e purtroppo siamo costretti a convivere con esse”.
Ma è un’eccezione, perché un brano che potrebbe sembrare celare qualche osservazione di carattere politico sin dal titolo (4th Of July), è solo “un’altra canzone d’amore. Parla di due fidanzati che si trovano il 4 di luglio a guardare i fuochi d’artificio; lei è molto patriottica, lui invece no. Lui la prende in giro per essere così seria e patriottica, e in ogni caso è stata scritta prima dell’11 settembre”.
Undici settembre che comunque James Taylor ha contribuito a commemorare nel corso del Concert For NYC dello scorso ottobre: “La gente, i musicisti, voleva veramente fare qualcosa. Fu un concerto per le famiglie dei pompieri e dei poliziotti morti, con nessuno altro scopo se non quello di portare un po’ di solidarietà e di sollievo a tutta quella gente, ed era gran parte del pubblico, che aveva perso amici e familiari nel crollo delle Twin Towers. Fu molto commovente suonare per quelle persone, e credo che anche per loro fu molto commovente. È difficile sapere cosa fare in situazioni del genere, ma credo sia stata una serata molto bella”.
Prima di questo October Road, si era sentito parlare di un disco composto di sole cover, brani come Knock On Wood, Summertime Blues o addirittura Woodstock: “Con la mia band dal vivo suoniamo ogni sera almeno una cover, sono brani che ci vengono ormai molto facilmente, ma sentivo il bisogno di registrare ancora un disco di canzoni autobiografiche. Il disco di cover penso uscirà molto presto, comunque”.
E ovviamente, data la recente e triste scomparsa del suo grande amico Timothy White, direttore di Billboard e autore della biografia ufficiale di Taylor, Long Ago And Far Away, ci lasciamo con un suo ricordo: “La morte di Timmy è stata un momento estremamente triste, è stato portato via in modo così inaspettato. La moglie e i suoi figli stanno vivendo un momento molto difficile. Timmy è stato prima di tutto un carissimo amico, e poi ha sempre supportato la mia musica, aiutandomi molto in momenti difficili. Mi ha incoraggiato e sostenuto sempre. Mi manca moltissimo, davvero. Il libro che ha scritto su di me e sulla mia famiglia è stato un po’ fastidioso, ma anche molto lusinghiero e sono grato a lui per averlo scritto. Era un grande scrittore e un grande appassionato di musica. Con altre persone, Sheryl Crow e Don Henley fra gli altri, stiamo pensando di organizzare qualcosa in sua memoria, ancora non sappiamo se sarà un disco o un concerto, ma bisogna assolutamente fare qualcosa in suo ricordo”.
Paolo Vites, fonte JAM n. 85, 2002