E’ decisamente burino nel vestire, ha una faccia discretamente antipatica, la sua voce è per molti troppo ‘americana’, stile ‘patata in bocca’, e la sua autoconsiderazione tocca i limiti della più sfacciata presunzione. Nonostante ciò non si può fare a meno di restare colpiti dalla sua grinta, affascinati dal suo impeccabile senso del tempo, rapiti dalla potenza della sua voce e dal vigore della sua chitarra, e in fondo anche un po’ intimiditi dalla forza che la sua ‘scuola’ ha saputo mantenere e propagare in oltre trent’anni di carriera. Di fronte a questi fatti i cappelli a scacchi verdolini o le giacche di lamé rosa diventano solo dettagli, anche se un po’ fastidiosi, e il tronfio attributo di ‘King of bluegrass’ assume una luce più reale, se pur narcisistica.
La vita di Jimmy Martin è simile a quella di tanti altri ‘padri’ del bluegrass: nato a Sneedville, Tennessee, nel 1927, Jimmy si trova presto orfano di padre; il patrigno lo alleva a base di lavoro nei campi, quartetti gospel in ogni possibile occasione (chiesa, funerali, ‘back porch singing’), e naturalmente Grand Ole Opry ogni sabato sera. “Un giorno andrò a Nashville e canterò nel quartetto di Bill Monroe” è il chiodo fisso del giovane Jimmy e la base per il suo duro studio di voce e chitarra. Il ‘chiodo fisso’ diventa una realtà nel 1949, ma per quel tempo Jimmy Martin ha già l’esperienza di un professionista consumato, avendo suonato con una band in tutto il Tennessee, tre show al giorno.
In effetti Jimmy va a Nashville, si presenta a Monroe dopo uno spettacolo alla Opry, e diventa da quel momento cantante e chitarrista dei Blue Grass Boys. Resta con Monroe fino al 1954, anche se non continuamente, e dà un notevole contributo alla musica del gruppo: Uncle Pen, On & On, A Voice From On High, River Of Death, New Muleskinner Blues e molti altri pezzi restano a testimoniare l’incredibile valore di questo lead singer, uno dei migliori che Monroe abbia mai avuto.
Ma lavorare con i Blue Grass Boys è indubbiamente utile anche a Martin, che non tarda molto a rendersi conto di potere sfondare con un proprio gruppo che dia maggiore spazio alla sua prorompente personalità.
Il primo tentativo di formare una propria band è fatto in compagnia di Larry Richardson, notevole banjoista, e di Bobby Osborne, mandolinista e tenor singer di valore insuperabile. Richardson presto abbandona, e Jimmy entra con Bob nei Lonesome Pine Fiddlers, con i fratelli Charlie e Curly Ray Cline: con loro incide alcuni pezzi, classici come Blue Eyed Darling o You’ll Never Be The Same, ed inizia a ‘chiarirsi le idee’ su ciò che sarà il suo stile. Poco tempo dopo Bobby Osborne è arruolato, e va a rischiare la pelle in Corea. Jimmy Martin torna a suonare con Monroe, portando con sé Sonny Osborne, tredicenne fratello di Bob, già valido banjoista e baritone. Nei Blue Grass Boys i due restano un anno e mezzo, registrando capolavori come Pike County Breakdown o Memories Of Mother & Dad, e decidendosi a lasciare Monroe soltanto al ritorno di Bob.
Nel 1954 Jimmy Martin & The Osborne Brothers creano uno stile nuovo, grintoso e al tempo stesso raffinato, a tratti duro ma sempre perfezionistico, spesso scanzonato, ma altamente professionistico. Il trio vocale di Jimmy (lead), Bobby (tenor) e Sonny (baritone) è qualcosa di difficilmente eguagliabile, e pur nella sua unità già lascia intuire ciò che in seguito Martin e i due Osborne avrebbero, separatamente, sviluppato e perfezionato. Un album solo resta a testimonianza di questo periodo, ed è caldamente raccomandato: Jimmy Martin & The Osborne Brothers, Collectors Classics LP-14; bootleg, naturalmente, dato che la RCA anni ’50 non si curava molto di uno stile poco commerciale, e dava al gruppo uno ‘spazio’ di soli quattro pezzi (tutte le sides dell’album citato sono incisioni RCA, ma solo 4 furono pubblicate… ).
Ascoltando l’album si nota che gli spunti interessanti sono molti: la voce forte, dura e ‘bluesy’ di Martin è affiancata dal tenor altissimo, limpido e naturale di Bobby Osborne, e il baritone raffinato e complesso di Sonny lega il tutto in un trio in cui le singole voci sono spesso indistinguibili. Strumentalmente i tre sono ineccepibili, e sono affiancati da sidemen di pari valore, come Merle ‘Red’ Taylor al fiddle e Cedric Rainwater al contrabbasso, ma è nel repertorio che si nota in particolare una reale svolta rispetto al passato: il Jimmy Martin che con Bill Monroe cantava la tristezza dell’abbandono o il dolore per la morte delle persone care in pezzi come The Old Kentucky Shore o Letter From My Darling si lancia ora sulle ‘novelty tunes’, canzoni dichiaratamente umoristiche e di scarso impegno concettuale, come I Pulled A Boo Boo, Save It! Save It! o They Didn’t Know The Difference.
In molti casi queste ‘novelty tunes’ erano pure e semplici sciocchezze, ma avevano gli innegabili vantaggi di essere suonati benissimo, decisamente più commerciali del bluegrass serio e impegnato di altre band, e soprattutto erano ‘nuove’. Nasce così lo stile ‘good & country’ di Jimmy Martin, marchio di fabbrica di questo musicista e caratteristica di quasi tutta la produzione a venire.
Nel 1955 i fratelli Osborne e Jimmy Martin si separano, e Jimmy è rapidissimo a formare una nuova band: la prima versione dei Sunny Mountain Boys comprende Earl Taylor a mandolino e tenor, e Sam Hutchins a banjo e baritone. Per la RCA vengono incisi i primi classici dello stile: Hit Parade Of Love, The Grand Ole Opry Song, You’ll Be A Lost Ball e altri, alcuni già incisi con gli Osborne.
Il momento magico per Martin, però, si realizza solo con l’entrata nella band di due giovani musicisti: J.D. Crowe e Paul Williams. Crowe, in quegli anni ancora un ragazzino, stabilisce definitivamente i canoni del ‘Martin-style banjo’, e traccia una strada che ancora oggi i banjoisti di Martin ricalcano fedelmente. Il ruolo del banjo nei Sunny Mountain Boys è ben preciso: lo stile è grintoso, spesso scarno in favore di un ritmo più serrato, e altamente ‘bluesy’ e sincopato nei pezzi meno veloci; la band deve essere trascinata dal ritmo del banjo, spinta e caricata con calore e vitalità, e J.D. Crowe assolve perfettamente questo compito.
Paul Williams, dal canto suo, ha da offrire un tenor acutissimo e penetrante e un mandolino asciutto e percussivo, che ben complementa la chitarra brillante di Martin.
Il trio vocale di Martin, Crowe e Williams è unito e trascinante, dominato dal lead di Martin ma sempre compatto. I gospel sono di solito eseguiti con un quartetto insolito: invece dell’usuale lead-tenor-baritone-bass, Martin preferisce spostare le voci in acuto, con un quartetto ‘stacked-up’, in cui il quasi etereo high-baritone di Williams sovrasta tutte le altre voci.
Dilungarsi su queste caratteristiche non è inutile, dato che tutte le successive formazioni dei Sunny Mountain Boys seguiranno fedelmente e senza variazioni questa impostazione. Un pregio/difetto costante di Jimmy Martin, infatti, è di voler mantenere assolutamente immutato il proprio suono negli anni, naturalmente a notevole discapito della personalità e creatività dei diversi musicisti, anche se a vantaggio della ‘identità’ dello stile.
Nelle file dei Sunny Mountain Boys, nel corso degli anni, sono passati musicisti di notevole calibro, come i banjoisti Bill Emerson, Vic Jordan, Chris Warner, Alan Munde e Kenny Ingram; i mandolinisti Doyle Lawson, Vernon Derrick e Herschel Sizemore; i fiddlers Blaine Sprouse, Red Taylor, Buddy Spicher e ‘Tater’ Tate; i contrabbassisti Bill Yates, Roy Huskey e Floyd Chance.
Tutti hanno dato un notevole contributo alla musica del gruppo, tutti hanno tratto un notevole vantaggio dall’esperienza con Martin, ma nessuno è restato a lungo nella band, e pochi di loro sono facilmente riconoscibili all’ascolto dei dischi, soffocati come sono dalla personalità e dal granitico stile di Jimmy Martin. A livellare definitivamente il suono sono costantemente presenti, in quasi tutti gli album Decca dal 1955 in poi (fanno eccezione i soli album di gospel), una o due chitarre ritmiche insieme con quella di Martin, e una batteria: aggiungono certamente grinta, ma appesantiscono il suono (e l’ascolto) e costringono gli strumentisti in un solco ritmico ben definito, da cui poco possono alzarsi in volo.
L’esame retrospettivo del lavoro di Martin negli ultimi 30 anni deve così seguire molti punti di vista: infatti se per i molti (troppi forse) musicisti che si sono avvicendati nei Sunny Mountain Boys l’estroversa personalità vagamente dittatoriale di Martin ha i pregi e i difetti tipici di ogni scuola troppo rigida, per il pubblico affezionato del gruppo, al contrario, l’uniformità dello stile è garanzia di divertimento ad ogni concerto o nuovo disco. Lo stesso suono, personalissimo e immutato negli anni, è poi un certo punto di riferimento, quasi una pietra miliare nella storia del bluegrass, ma è stato inevitabilmente imitato, sfruttato e in seguito sopravanzato, per maturità e completezza tecnica, da molte altre band, spesso guidate da ex Sunny Mountain Boys. E oggi Martin non può più contare con facilità su giovani prodigi come i Crowe, Williams o Osborne degli anni ’50: tutti sanno che lavorare con lui è sì soddisfacente, ma anche duro e spesso sgradevole, e oggi le possibilità che un giovane musicista ha sono ben superiori a quelle che avrebbe avuto nei durissimi anni ’50 e ’60.
Così il mito di Jimmy Martin trova sempre meno adepti che collaborino nel tramandarlo, e si basa sempre più sul passato. Ma è un mito che vive, e sicuramente vivrà a lungo, per la solidità della musica su cui si basa e la vitalità dello spirito che lo anima.
Preferiamo però limitarci al passato per i dischi consigliati (edizioni MCA dei vecchi Decca), e rinnovare le usuali avvertenze: ignorate le ‘novelty tunes’, tollerate la batteria e le troppe chitarre, e perdonate la mancanza di note di copertina e la mancata citazione dei musicisti. A questo punto scegliete serenamente.
Discografia:
-MCA-79, Sunny Side Of The Mountain
-MCA-81, Good ‘n’ Country
-MCA-91, Country Music Time
-MCA-96, This World Is Not My Home
-MCA-101, Widow Maker
-MCA-115, Big & Country Instrumentals
-Gusto GT-0003, Greatest Bluegrass Hits
-Gusto GD-5024X, Me ‘n’ Ole Pete
Silvio Ferretti, fonte Hi, Folks! n. 10, 1985