Paul Reddick - A different blues cover album

Lo diciamo subito: questo è un box essenziale per rendersi conto di chi era Jimmy Reed e di quanto importante e anche variegata sia stata la sua musica, ancorché sotto l’apparenza di uniformità e monotonia che lo ha spesso caratterizzato agli occhi dei più. In definitiva un box imperdibile per chi ama il blues degli anni ‘50, e molto istruttivo per tutti gli altri.
Nonostante non fosse un virtuoso come Little Walter né un grande showman come Muddy Waters o Howlin’ Wolf, ai tempi i dischi di Jimmy Reed vendettero tantissimo, forse proprio perché l’apparente semplicità dei suoi schemi risultava facilmente memorizzabile, ti entrava in testa insomma, e in secondo luogo perché i suoi pezzi erano, o almeno sembravano facili da rifare quindi diventavano immediatamente popolari anche presso gli altri musicisti. Quando poi nei primi anni ‘60 esplose il Blues Revival in Inghilterra, tutti ma proprio tutti i principali attori della scena inglese (per esempio Keith Richards e Brian Jones degli Stones) non esitavano a riconoscere in Jimmy uno dei loro modelli, proprio grazie al fatto che i suoi pezzi rappresentavano una sorta di introduzione, di manuale del blues, e spesso anche il canale che poi li aveva portati alla conoscenza degli altri grandi. Per tutti, in primis ovviamente i musicisti blues, ma anche per i frequentatori di altri generi dal jazz al rock al pop al r&b, la musica di Jimmy Reed, nella sua semplicità e immediatezza è sempre stata come uno sfondo da usare per disegnare un repertorio, e anche un serbatoio da cui attingere. Qualche nome? Elvis Presley, Hank Williams, Van Morrison, Neil Young, Etta James (Baby What You Want Me To Do), Wynton Marsalis con Willie Nelson, Rod Stewart, gli stessi Rolling Stones (Bright Lights, Big City). Noi in particolare amiamo ricordare la bellissima versione di Take Out Some Insurance che apre l’ultimo LP ufficiale della Siegel-Schwall Band (R.I.P. – 1974), un gruppo che come pochi è arrivato all’essenza di certe perle del repertorio di Jimmy.

Insomma, se rifare Jimmy Reed è sempre stato facile, essere come lui lo era molto meno, nel senso che le sue creazioni restano nella storia del blues, e della musica in generale, come piccoli monumenti dall’aria familiare, ma che comunque sono suoi, inequivocabilmente, per il semplice motivo che prima di lui questo modo di cantare e suonare i blues non esisteva. E’ per questo motivo che questo box costituisce una specie di vocabolario di base del blues urbano di quegli anni. Dal punto di vista musicale il tratto distintivo dei pezzi di Reed, è quel dondolio cadenzato ottenuto con la chitarra, con le note di dominante (la 5a) poi di sopradominante (la 6a) e di settima diminuita, suonate insieme alla tonica, il tutto sulle canoniche 12 battute, e su un ritmo di shuffle generalmente tranquillo, ma con una certa variabilità di metronomo, che poteva andare dai pezzi più lenti e sensuali come Caress Me Baby (fra parentesi, che testo bellissimo!) a quelli più ballabili come Ain’t That Lovin’ You Baby: molto più difficile a descriversi che a farsi. L’effetto sull’ascoltatore è invariabilmente contagioso, o ancor meglio ipnotico, nel senso che la tendenza è quella di lasciarsi cullare dal dondolio: praticamente la realizzazione del termine ‘Rock&Roll’. Altro tratto distintivo di Jimmy erano le note alte di armonica con le quali attaccava spesso i pezzi, come per richiamare l’attenzione di chi lo ascoltava. Venendo a conoscere un po’ il personaggio, si capisce come questo ipnotico dondolio derivasse almeno in parte dal suo essere convintamente dedito alla bottiglia, aspetto questo che influenzava anche la sua tipica emissione vocale strascicata e molto downhome, tutt’altra cosa dunque rispetto alla cavata di un B.B. King o agli ululati possenti di un Howlin’ Wolf. Dedizione, o meglio dipendenza, che portò i medici che lo curavano alla conseguenza paradossale di scambiare gli attacchi di epilessia di cui soffriva col delirium tremens conseguenza dell’alcolismo, e che fu sicuramente una delle cause che portarono alla fine anticipata della sua carriera e alla morte relativamente prematura nel 1976, pochi giorni dopo il suo cinquantunesimo compleanno. I testi dei suoi pezzi sono storie semplici di vita, quasi sempre collegati con problemi di coppia, ma anche questi filtrati da una specie di filosofia fatalista e alla fine positiva, non particolarmente drammatica anzi al contrario permeata di molta ironia, che era forse la caratteristica principale del suo carattere.

Il box di cui parliamo, Mr. Luck – The Complete Vee & Jay Singles, documenta in toto la parte centrale e più importante della sua vita musicale, che spazia dal 1953 al 1965 e coincide con la durata del contratto in esclusiva che Jimmy Reed firmò con la casa discografica Vee-Jay (dalle iniziali dei due fondatori Vivian Carter e Jimmy Bracken) dopo essere stato ‘rimbalzato’ dalla Chess. Fin dai primi anni 1950 Jimmy, proveniente dal profondo Mississippi e già armonicista dilettante, dopo essere transitato dall’Indiana, e con un’esperienza di contadino e operaio alle spalle, si era spostato a Chicago nell’intenzione di diventare un musicista professionista. Imparata a suonare anche la chitarra grazie all’amico Eddie Taylor, si mise a suonare facendosi conoscere prima come busker in duo con Willie Joe Duncan, poi in ambienti più professionistici, insieme col suddetto Taylor e John e Grace Brim.
Il contratto con la Vee-Jay si rivelò quasi immediatamente una carta vincente perché i suoi dischi, proprio per le caratteristiche che abbiamo citato, cominciarono a vendere, permettendogli di farsi un nome e di mettere insieme qualche soldo. Il successo di vendite veniva sostanzialmente dall’essere i suoi pezzi talmente mainstream da diventare istantaneamente cantabili, riproducibili, e dunque popolari, garantendogli anche un certo successo come performer nelle serate. Fu questo successo probabilmente a fornirgli il soprannome di ‘Mr.Luck’, insieme col suo aspetto che nelle foto dell’epoca appare sempre molto sorridente e ammiccante. A chi volesse approfondire la conoscenza della biografia di Jimmy consigliamo il libro di Will Romano Big Boss Man: The Life and Music of Jimmy Reed.

Ma veniamo a parlare della raccolta: si tratta di 3 CD che riportano in ordine cronologico tutti i pezzi incisi da Reed per Vee-Jay, molti preceduti da un’introduzione parlata registrata nel 1965 dallo stesso Reed in forma di intervista a Calvin Carter, produttore di gran parte di queste incisioni. In queste introduzioni è facile apprezzare il carattere bonario e l’ironia dell’uomo Reed, che racconta come sono nati certi pezzi, quasi sempre da esperienze vissute, come la Honest I Do scaturita da un diverbio con la moglie Mary ‘Mama’ Reed, la compagna di tutta la sua vita, che Jimmy qui chiama proprio ‘Big Boss’. I sidemen che accompagnano Reed che canta e suona armonica e chitarra, sono musicisti vari e spesso molto noti: fra loro Albert King che nei primi brani è alla batteria (!), molto spesso il già citato Eddie Taylor, i chitarristi John Littlejohn, Phil Upchurch, Remo Biondi, Lefty Bates, Hubert Sumlin, i batteristi Vernell Fournier, Earl Phillips e altri. Sui bassisti va fatto un discorso a parte, perché la stessa assenza del basso in molte di queste incisioni è un indizio molto interessante per capire l’evoluzione musicale del blues urbano di quegli anni, nel senso del progressivo arricchirsi della sezione ritmica che inizialmente è molto rudimentale, essendo di diretta derivazione rurale o comunque di strada. In molti dei brani in cui il basso è presente, peraltro non è dato di sapere chi lo suona, a parte un paio di casi in cui è accreditato nientemeno che il grande Willie Dixon al contrabbasso.

Le grandi hit di Jimmy Reed ci sono tutte, a cominciare da You Don’t Have To Go, nella versione originale del 30 dicembre 1953, per proseguire con Ain’t That Lovin You Baby, The Sun Is Shining, Honest I Do (rispetto a quanto si diceva sopra si ricordino per esempio le cover di Aretha Franklin e dei Rolling Stones), ma poi Going To New York, Baby What You Want Me To Do, Caress Me Baby, Hush Hush, Big Boss Man, la strafamosa e già citata Bright Lights Big City, Shame Shame Shame, Upside Your Head, tutti brani che hanno fatto la storia, qui nelle loro versioni originali, ricche di freschezza, e degli spunti musicali che hanno poi influenzato intere generazioni di musicisti. Le cose interessanti, quelle che fanno capire che Jimmy non era affatto monotono o monolitico come spesso lo si è percepito, si trovano poi nei pezzi meno noti, in qualche strumentale usato come B-side, come Roll & Rhumba, con un interessante ritmo latineggiante, e incentrato sull’armonica. Anche Jimmy’s Boogie è un bello strumentale sempre con l’armonica in primo piano, su un ritmo appunto di boogie tranquillo à la Jimmy. Torniamo sulla nostra amata Take Out Some Insurance per almeno un paio di motivi: il primo è il testo, molto ironico, che in sostanza dice: «Se hai intenzione di lasciarmi baby, ti conviene stipulare un’assicurazione sulla mia vita perché se mi lasci io ne morirei (e tu prenderesti i soldi)»: questo di fatto è uno dei pezzi non scritti da Jimmy Reed, essendo un parto degli altrimenti sconosciuti Charles Singleton e Wadense Hall, anche se da qualche parte è accreditato a Jesse Albert Stone. Il testo non piaceva molto a Reed la cui superstizione lo portava a vederci un presagio della sua stessa morte, ma poi decise comunque di incidere il brano facendolo totalmente suo e rendendolo famoso, al punto che nel 1962 faceva parte del repertorio dei primi Beatles di Tony Sheridan. L’altro è la struttura del pezzo, che dopo le prime due strofe prevede un bridge che normalmente non fa parte della normale costruzione dei brani blues, ma è una specie di ammiccamento seminale ai brani pop. Il tutto in 2 minuti e 26 secondi di musica.

Ancora da citare, per capire il carattere del personaggio, ci sono brani come Laughing At The Blues, uno strumentale con la chitarra di Lefty Bates in primo piano, il cui titolo è una specie di contraddizione in termini, o la strana combinazione dei titoli di Odd And Ends e Ends And Odds, che alla fine sono rifacimenti strumentali di You Don’t Have To Go, costruite su tempi leggermente diversi l’una dall’altra. Nel primo dei due pezzi, quello più lento, spicca la presenza del violino di Remo Biondi, un po’ pizzicato un po’ suonato in stile country. Vi lasciamo il piacere di scoprire da soli il resto, tenendo conto che l’ascolto dei 3 volumi, per un totale di 78 brevi pezzi più le introduzioni parlate, si rivela nel complesso assolutamente interessante e molto godibile. In conclusione, l’osservazione che non possiamo evitare di fare è di come, ascoltando i pezzi in ordine cronologico, sia difficile percepire col passare degli anni una qualche evoluzione, sia dal punto di vista del contenuto musicale che degli arrangiamenti. E questo è un segnale che fa capire molte cose, in primis il fatto che dato che i dischi di Reed vendevano, e i suoi pezzi avevano successo, la Vee-Jay intendeva sfruttare la gallina dalle uova d’oro riproponendo lo stesso schema per quanto possibile, e lui ovviamente si adattava alla situazione. La seconda osservazione che si può fare è che il blues urbano invece nel corso degli anni ‘50 si stava evolvendo: la parabola di Muddy Waters, di Little Walter, Willie Dixon, Howlin’ Wolf e degli altri grandi della scuderia Chess era al massimo, ed erano sorte le stelle di Junior Wells, di B.B.King, poi di Freddie King, e di tanti altri grandi protagonisti del blues urbano. Contemporaneamente era iniziato il grande saccheggio della musica blues da parte dei protagonisti bianchi del rock&roll, prima americani e poi inglesi, che poi portò alle conseguenze e all’evoluzione che tutti conosciamo. In ultimo, negli stessi anni in cui promuoveva Reed, la Vee-Jay cercava di diversificare la propria proposta promuovendo artisti r&b e pop, veicolando addirittura nei primi anni ‘60 la vendita negli US dei primi dischi dei Beatles, ai quali la Capitol, che era la casa americana affiliata alla inglese EMI, non era interessata.

Il tutto portò a far coincidere la storia di Jimmy Reed e dei suoi successi con quella della Vee-Jay, la quale negli ultimi anni fu denunciata ripetutamente per mancato pagamento di royalties, e quasi contestualmente al divorzio con Reed fece bancarotta, per riapparire poco tempo dopo come Vee-Jay International. Reed però nel frattempo aveva esaurito la sua vena creativa e quindi di fatto non riuscì a riciclarsi, superato dagli eventi e dalle mode, e nemmeno a produrre nulla di veramente interessante negli anni che seguirono. Aveva già dato moltissimo alla musica, e tutto il suo lascito è praticamente incluso in questo box, oltre che nelle migliaia di riciclaggi e citazioni che ha avuto in seguito. Buon ascolto.

Craft 0888072024878 (3 CD)(Chicago Blues, 2017)

Carlo Gerelli, fonte Il Blues n. 142, 2018

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