Joan Baez

Quarantanni fa cantava a Washington, a fianco di Martin Luther King, davanti a mezzo milione di persone. Benché i mass media l’abbiano quasi del tutto dimenticata, qualche mese fa si è esibita davanti a circa 200mila persone a San Francisco, durante una manifestazione contro la guerra in Iraq. Perché, per citare il suo vecchio amico/nemico Bob Dylan, se i tempi sono cambiati, Joan Baez non è mutata d’una virgola.

Sull’onda della pubblicazione del suo nuovo disco Dark Chords On A Big Guitar, vogliamo pagare tributo a un’icona della musica folk americana, ma anche dei diritti civili e delle lotte per la pace. Lo facciamo raccontando i momenti salienti della sua lunga carriera ; cercando di capire chi è oggi Joan Baez; rivisitando, attraverso le canzoni che lei gli ha dedicato, la tormentata relazione con Bob Dylan; esaminando il nuovo disco; dedicando uno spazio alle colleghe più significative della stagione del folk revival; e infine ricordando la sorella Mimi, scomparsa nel luglio 2001.

I primi vivi apprezzamenti da parte di un pubblico severo e selezionato, Joan Baez li ottiene nel 1959, a soli 18 anni, sul palcoscenico del primo Festival di Newport. È ospite di Bob Gibson e insieme si esibiscono in Virgin Mary Had One Son e Jordan River, due composizioni folk di stampo religioso, assolutamente perfette per la voce e la personalità della giovane Joan, che sorprende tutti con la sua purissima voce da soprano e si guadagna una valanga di applausi.

Prima di questa esposizione straordinaria Joan Baez si sta facendo un nome nella piccola scena folkie di Cambridge, a nord di NYC, nel leggendario Club 47 o in altri come il Ballad Room e il Golden Vanity in cui si esibisce un paio di sere alla settimana per un pubblico legato al mondo della tradizione. Il suo repertorio pesca nella ballata bianca, ma anche nel blues e nel gospel, in quei due tronconi non colti della musica popolare americana che proprio in quegli anni cominciano a rivivere una nuova stagione di gloria.

Subito dopo Newport nasce l’immediato interesse delle case discografiche nei suoi confronti; a seguirla nei martedì e venerdì al Club 47 si fa notare un Albert Grossman alle prime armi che la vuole presentare a John Hammond, allora dirigente di spicco della Columbia e noto talent scout che ha già fatto la fortuna di decine di illustri sconosciuti. I

l viaggio a New York è immediato e Hammond senza troppi preamboli, le propone un contratto per otto anni, un apparente colpo di fortuna da prendere al volo, ma Joan ha già instaurato rapporti con Maynard Solomon, un intellettuale di Boston fratello di Seymour, con il quale dirige una piccola etichetta prestigiosa: la Vanguard.

La scelta, senza mezzi termini, consiste nel decidere tra il successo commerciale e la qualità: da una parte un colosso discografico che le garantisce un’esposizione altrimenti impensabile con un manager abile e aggressivo capace di indirizzarla secondo le regole del business (Grossman non a caso diventerà a breve manager di personaggi come Bob Dylan, Peter Paul & Mary e Janis Joplin), dall’altra la possibilità di una scelta artistica più prossima alla sua sensibilità e la cura ineccepibile di un prodotto discografico destinato a un pubblico legato alla cultura popolare e certamente più vicino alla sua etica sociale. La scelta cade naturalmente sulla Vanguard, label per la quale incide nel tempo le sue cose migliori e con cui resta legata per quasi vent’anni.

L’attività concertistica di Joan Baez comincia a farsi sempre più intensa e i luoghi privilegiati delle sue esibizioni sono i teatri e le università, oltre naturalmente i vari folk festival. Il pubblico la segue sempre più numeroso, anche in virtù dei suoi dissensi radicali nei confronti della segregazione razziale, della violenza e della mancanza di libertà, un atteggiamento che da molti viene inteso come una chiara posizione di sinistra, ma che invece la Baez continua a precisare essere di puro carattere umanitario.

I litigi a questo proposito con il manager Manny Greenhill, che si considera marxista, sono all’ordine del giorno, ma la trasparenza e l’onestà dei loro rapporti permette che il sodalizio si mantenga forte. Manny ricorda che Joan “passava metà del suo tempo a bussare alla porta degli orfanotrofi nel profondo Sud a caccia di certificati di nascita per bluesmen ciechi, in modo da poter soddisfare la crescente richiesta di spettacoli in Europa, per i quali occorreva loro un passaporto”. “Era uno che credeva fino in fondo nell’eguaglianza ed era tanto corretto nei rapporti che, con me, non fu mai necessario stipulare nessun accordo scritto. Manny lavorava a percentuale e non abbiamo mai avuto da ridire per questioni finanziarie”, racconta la Baez.

E durante i suoi primi tour che conosce i padri della tradizione popolare americana, personaggi come Odetta e Pete Seeger che ben presto la integrano nel loro giro fatto di politica oltre che di canzoni. Suona in questo periodo anche con musicisti country del calibro di Earl Scruggs e Lester Flatt incrementando ulteriormente la conoscenza delle ballate e dei traditional.

Nel 1960 si reca a New York per incidere il suo primo album, Joan Baez: “Lavoravamo al Manhattan Towers Hotel in uno squallido isolato di Broadway. Avevamo a nostra disposizione la sala da ballo tutti i giorni della settimana, eccetto il venerdì quando ci trasferivamo in un locale di bingo. Stavo a piedi scalzi sul tappeto più sudicio di New York, sentendomi piccola piccola in quell’enorme salone ammuffito e cantavo dentro a tre microfoni, due ai lati per lo stereo e uno in mezzo per il mono. Fred Hellerman usò un quarto microfono per sei canzoni quando decisi, dopo grandi insistenze, che un secondo strumento, suonato molto delicatamente, non era commerciale, ma dava più forza all’interpretazione. In tre giorni registrammo diciannove canzoni, tredici delle quali costituirono il mio primo vero album. Mary Hamilton venne registrata subito tutta di fila senza bisogno di prove”.

In questo primo lavoro la Baez incide alcune ballate popolari di straordinaria bellezza, pezzi come Silver Dagger che racconta delle frustrazioni e paure indotte da una rigida educazione puritana, All My Trials e Little Moses legate alla tradizione religiosa nera, Donna Donna che affonda le sue origine nella cultura yiddish, El Preso Numero Nueve di matrice messicana e cantata in spagnolo, The House Of The Rising Sun, classico che narra le sfortune di una giovane finita a lavorare in un bordello, e poi ancora East Virginia, Wildwood Flower e molto altro che riportano in vita un mondo antico il cui eco è ancora udibile nella quotidianità della provincia e del profondo Sud.

Anche il secondo album, che esce un anno dopo, raccoglie lo stesso materiale tradizionale; altre ballate riemergono dall’inconscio collettivo per parlarci di amore e morte, temi tanto cari alla letteratura americana. Ecco allora comparire le ‘murder songs’ Banks Of The Ohio e The Lily Of The West, la struggente Barbara Allen e le varie The Trees They Do Grow High, Pal Of Mine, Railroad Boy e la mestissima Plasir D’amour, cantata in parte in francese e in parte in inglese.

L’impulso che la Baez riesce a dare alla riscoperta del mondo tradizionale è importantissimo; sulla sua scia decine di altri folksinger si impegneranno nella riscoperta di vecchie canzoni, blues e ballate. L’inizio degli anni ‘60, del resto, ha già in sé i prodromi del revival della musica folk e blues; è questo il periodo in cui talent scout di piccole etichette, intellettuali e semplici appassionati si lanciano alla riscoperta di vecchi musicisti ormai scomparsi dalla circolazione.

Le cose per la Baez non cambiano neppure per il terzo e quarto album ricavati entrambi da concerti dal vivo tenuti tra l’agosto del ’62 e il novembre ’63. In questi dischi vengono recuperate alcune ‘child ballads’ di matrice inglese, gospel e inni, come We Shall Overcome, che non di rado accompagnano le marce non violente dei neri organizzate da Martin Luther King, a cui la Baez spesso si affianca.

In Joan Baez In Concert Part 2 compare per la prima volta una composizione di Dylan, Don’t Think Twice, It’s All Right.
“La prima volta che vidi Dylan fu nel 1961 al Gerde’s Folk City, nel Greenwich Village”, racconta. “Non fui particolarmente impressionata, aveva l’aria di un ragazzotto di campagna da poco arrivato in città, coi capelli corti intorno alle orecchie e riccioluti in cima alla testa. Mentre suonava, saltellava da un piede all’altro e la chitarra lo faceva sembrare più piccolo. Portava una giacca di pelle lisa, di due misure più piccola. Le guance erano paffute, con poco dignitose tracce di pinguedine infantile. Ma la bocca era assassina: morbida, sensuale, da bambino, nervosa e reticente. Le parole delle sue canzoni le sputava fuori. Erano originali e fresche, per quanto brusche e grezze. Lui era assurdo, nuovo e sudicio oltre ogni dire.”

Tra i due nasce ben presto una tenera amicizia che sfocia anche in qualcosa di più. Joan ne è infatuata e nell’agosto del ’63 se lo porta insieme in tournée; i suoi concerti vantano ormai un pubblico che sfiora le 10rnila persone e per Bob è il vero battesimo professionale.

Dylan non sposerà mai la causa della non violenza tanto cara alla Baez e probabilmente – affermerà lei – “non parteciperà mai a una manifestazione di protesta in vita sua”; si limiterà a scrivere splendide canzoni che avranno comunque il compito di contribuire a risvegliare le coscienze. Il rapporto con Dylan finisce per essere frustrante per Joan, soprattutto quando le viene chiesto di accompagnarlo nel suo tour europeo e non sarà invitata neppure una volta a salire sul palco con lui.

L’incontro con le sue canzoni segna però una svolta decisiva nel repertorio della Baez; i criteri di giustizia e ingiustizia vengono aggiornati e si rivelano coerenti con il Vietnam alle porte e il movimento dei diritti civili deciso a raggiungere i suoi scopi. La Baez negli album successivi comincia a dare largo spazio alla canzone di protesta, a proporre sempre più brani di Dylan, ma anche di Phil Ochs, Pete Seeger, Malvina Reynolds e del cognato Richard Farina.

Joan Baez conosce Martin Luther King Jr. nel 1961, nel corso di alcuni suoi concerti in Alabama, ed è con lui a Washington nel 1963 in occasione del famoso discorso “I had a dream”: “Dirò solo che una delle medaglie segrete che ho sul cuore me la guadagnai quel giorno accettando di cantare. Sotto il sole rovente, davanti alla folla variopinta, intonai alla testa di 400mila persone We Shall Overcome ed ero vicina al mio amato dottor King, quando lui mise da parte il discorso che aveva preparato e lasciò che la voce di Dio tuonasse attraverso di lui e in alto, sopra la mia testa, vidi la libertà e la sentii vibrare tutt’intorno a me”.

Il rapporto di impegno concreto con Martin Luther King e la sua causa costano alla Baez più volte la reclusione, ma le aprono anche ulteriori orizzonti di disobbedienza civile che la portano successivamente a manifestare contro la guerra e la leva obbligatoria. La sua voce e le sue canzoni per tutti gli anni ‘60 diventano un riferimento sicuro per i movimenti di liberazione e tutti coloro che si riconoscono in un’etica pacifista.

Queste prese di posizione provocano anche reazioni sopra le righe e autentici discrediti come quelli apparsi in chiave fumettistica sul Boston Globe col titolo “Joanie the Phoanie” (Joan la fasulla) in cui il famoso disegnatore e soggettista conservatore Al Capp ironizza pesantemente sull’onestà del personaggio.

Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio della decade successiva la Baez è continuamente impegnata in tournée, guadagna un sacco di soldi, ma ne dona anche molti alle associazioni umanitarie, una parte delle sue royalty discografiche vanno anche al movimento per la renitenza alla leva (proprio in quel periodo il marito David viene condannato a tre anni di prigione per avere rifiutato di partire per il servizio militare). La sua immagine pubblica è semplice e schietta e il suo nome è ormai noto in tutto il mondo.

In Italia arriva per la prima volta nel 1967; si esibisce il 29 maggio al Teatro Lirico di Milano, e per l’occasione, a testimonianza dell’evento, viene anche registrato un disco dal vivo, Joan Baez In Italy, che viene bissato tre anni dopo con le due memorabili serate all’Arena Civica, sempre di Milano: il 24 luglio, contrariamente all’apparizione precedente, caratterizzata da una presenza sobria, da vera folksinger, si presenta con capelli corti e un vestito cortissimo a vivaci strisce orizzontali, ostenta una gran verve e bacchetta puntualmente i carabinieri che tentano di fermare la folla che si vuole assiepare intorno al palco.

Inizia come sempre con la dylaniana Farewell, Angelina e termina forzatamente con Kumbaya sotto un autentico nubifragio che si scatena improvviso. Il repertorio è molto diverso da quello degli inizi, abbandona sempre più la tradizione a favore di un repertorio fatto di grandi classici (Yesterday, Suzanne) e anche di canzoni scritte da musicisti del posto in cui suona. C’era Un Ragazzo Che Come Me Amava I Beatles E I Rolling Stones di Morandi troverà da allora in poi sempre spazio nei suoi concerti italiani e si affiancherà talvolta anche a La Donna Cannone di De Gregori.

Tra le due date italiane c’è la sua partecipazione a Woodstock, quando lei, incinta di sei mesi, non vuole perdere l’occasione per dire la sua su quel palco straordinario (memorabile la sua interpretazione di Joe Hill) e di vivere la più incredibile avventura della storia del rock. A ricordo di quel periodo disse: “Woodstock? Diavolo, stavo già forzando la sorte. Ero sulla scena musicale da dieci anni e non mi ero ancora drogata né fatta accompagnare da una band. Avevo anch’io il mio posto a Woodstock, ero eternamente impegnata a predicare contro la guerra, ero degli anni ‘60 ed ero già una sopravvissuta.”

Il Vietnam, allora, era ancora la spina nel fianco dell’America e nel ‘72 la Baez è tra i promotori di un simbolico girotondo di donne e bambini intorno al Campidoglio. Lo scopo dei manifestanti di Washington è di fare pressione sul Congresso perché non vengano più stanziati fondi per la guerra; ci dovevano essere migliaia di persone, ma le donne nere, guidate tra le altre da Coretta King, si dissociarono all’ultimo momento per un motivo, ancora oggi, poco chiaro.

Si parlò di rifiuto da parte dei neri a pulire la città dalla sporcizia che sarebbe conseguita alla manifestazione, ma certamente qualcosa di più grosso dovette fare desistere dalla protesta la componente femminile più arrabbiata e vessata del Paese. La Baez la troviamo poi nel Natale dello stesso anno ad Hanoi, come ambasciatrice della componente pacifista americana, proprio durante uno dei bombardamenti più feroci dell’intera guerra voluta da Kennedy e Johnson e continuata da Nixon.

Joan Baez per tutti gli anni ‘70 è sulle barricate contro l’ingiustizia; la troviamo in Sud America, a Belfast e a Praga, sempre con la sua chitarra e parole di solidarietà a favore di chi è costretto a subire. Difficile definire un personaggio così umanitario e così poco politico, utopisticamente convinto di potercela fare con la forza del buon senso contro il potere senza nessun altro supporto che la non violenza.

Un’ispirazione gandhiana mediata dal suo amico e guru Ira che fa scalpore, ma non ha nessuna possibilità di imporsi in un Paese nato e cresciuto sul genocidio, convinto di essere il migliore e quindi di avere il diritto divino di potersi sempre imporre comunque e con ogni mezzo. Un personaggio tipicamente americano, tutto sommato individualista, incapace di una prospettiva più ampia anche se onesto e coerente.

Joan Baez continua per tutti gli anni ‘80 e ‘90 a prendere posizioni coraggiose, anche se la sua stella subisce inevitabilmente l’offuscarsi del tempo che passa, dell’età ormai non più verdissima.
La sua voce rimane però a servizio del suo pubblico di sempre e delle nuove generazioni che non rinunciano alla scoperta della memoria storica. Per loro l’usignolo di Staten Island non smetterà mai di cantare.

Roberto Caselli, fonte JAM n. 96, 2003

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