La poesia musicale delle nuove generazioni ha trovato, in questi ultimi anni, più sbocchi di quanto si potesse pensare agli inizi dei famigerati ‘70; eccola evidenziarsi attraverso messaggi autobiografici di prima penna, leggasi cantautori, o riapparire di soppiatto accoppiata ai fantascientifici sibili dei sintetizzatori dell’avant-garde metropolitana. Ecco che noi, in questo caso, ci troviamo ad ispezionare da vicino il delicato microcosmo popolato dai cosiddetti songwriters; nuove forme espressive si imponevano e si sono imposte, in quanto non bastava più saper egregiamente tirar di chitarra, boccheggiare un’armonica ed avere una voce roca e scomposta per essere considerati figli Dylan. Da qui, i nuovi loners arrabbiati dell’area newyorchese, dicasi Bruce Springsteen, Willie Nile e Steve Forbert, ed i kids della West, Warren Zevon e Dirk Hamilton, quali migliori esempi, a rigenerare grazie all’electric sound le fibra smunte e sfruttate del maestro Dylan.
Il texano Joe Ely è, a mio avviso, un personaggio alquanto ammirevole per il modo in cui si è adeguato alle nuove esigenze degli anni ‘80. Partito su posizioni tradizionaliste, anni or sono, in quel di Lubbock, dove ha svolto il suo apprendistato, ha pian piano riordinato le sue idee ed il suo sound, allargando, in modo non indifferente, le sue prospettive ed i suoi orizzonti musicali rapportandoli alla difficile formula capace di dare via libera ad un sicuro approccio al pubblico più svariato.
Il fatto che Ely sia un texano purosangue dà adito ad alcune immediate considerazioni. Più volte ho avuto modo di ribadire che il Texas è sempre stato avulso dal grande giro musicale degli States. Se questo a prima vista può sembrare un grosso svantaggio, e lo è per alcuni risvolti, è anche vero che, grazie a questo isolamento, il Texas si sta affermando, con alcuni anni di ritardo, come entità musicale con una sua fisionomia ben delineata ed assai originale, forgiatasi proprio come prima reazione ad un dato di fatto evidente, ed impostasi per la ventata di indubbia novità infusa negli ambienti musicali americani.
Chi ha seguito l’evolversi del personaggio Ely dal suo esordio solistico (1977) ad oggi, noterà non pochi cambiamenti a livello formale, cioè un suono che, dalle delicate movenze di tre anni or sono, si è spostato verso schemi più duri ed aggressivi; dicevo, un cambiamento solo esteriore in quanto l’anima che contraddistingue Ely nel far musica è sempre la stessa. Innanzitutto nei testi si notano alcune caratteristiche comuni a tutto il genere texano, sia rock sia country, quel continuo richiamo a persone e luoghi, quel volere uscire da un certo provincialismo e regionalismo con visioni più ampie possibili, quel mito ossessionante costituito dal vicino Mexico.
Il sound, a sua volta, è sempre stato imperniato su un elemento del tutto nuovo, l’utilizzazione dell’accordion, manovrato da Ponty Bone, musicista che nell’uso dello strumento non ha eguali; oltre a ciò, una voce certamente indovinata e calda, e un recupero dei temi tradizionali quali il waltz, la ballata più tipica degli honky tonk men. La nuova veste di Joe Ely, datata 1980, si identifica con l’elettrificazione totale del sound. Si può far poesia tramite musica, alta poesia usando strumenti elettrici.
È emblematico che questa performance live giunga da Londra, la nuova patria discografica di molti artisti americani, vedi Cramps, Feelies e Red Krayola (texani) e via dicendo. È quindi una conseguenza quasi obbligata ascoltare un sound il cui feeling è tinto di hard, emozioni forti derivate dall’impatto con una città che negli ultimi anni ha conosciuto la violenza dei Sex Pistols, mostrando riluttanza di fronte ad eventi più teneri e pacati.
Il tour della Joe Ely Band ha seguito a ruota le tournée inglesi di altri texani quali Lee Clayton, ZZtop e Commander Cody. Quest’ultimo nome aiuta a focalizzare un primo momento nuovo del sound di Joe Ely: il rock’n’roll. Come Cody ha fatto ultimamente, anche Ely strizza l’occhio a questo genere: Fingernails chiede spazio, con il suo piano scintillante, it’s only rock’n’roll! Veramente, un Joe Ely che ancora non conoscevamo; non casuale è, dunque, l’attiva presenza dei Clash, malati di rock’n’roll sino al midollo.
Midnigt Shift, Long Snake Moon, I Had My Hopes Up High si avvicinano molto al genere in cui Cody è maestro, e giustificano la strabiliante copertina del disco in stile prettamente new-wave / rock’n’roll. Comunque, Ely non ha dimenticato le ballate che lo hanno reso celebre, con il fisarmonicista Ponty Bone in primo piano, ma le esegue in versioni molto molto più arrabbiate, più vicine al sound di Lee Clayton che a quello, pur pregevole, cui eravamo abituati da Joe; è il caso di Fools Tall In Love, She Never Spoke Spanish To Me, e Boxcards, tre dei tanti brani scritti per Joe dall’amico Butch Hancock (ha partecipato anch’egli alla tournée inglese), pregnanti di trasudate sonorità alla Clayton con il tocco in più firmato Ponty Bone.
Ma dov’è il vecchio Joe Ely? È ancora ben vivo e paga il giusto tributo ai suoi vecchi fans con due tradizionali esecuzioni di Honky Tonk Masquerade e Honky Tonkin. Da uomo di grande esperienza qual è, Joe Ely ha fatto breccia sul difficile e distaccato pubblico anglosassone, grazie anche alla sua grande carica agonistica, per dirla in gergo sportivo, e, vi assicuro, ha acquistato tanti nuovi fans anche in Italia; l’operazione Clash/Ely è riuscita perfettamente e furbescamente, e gli accaniti sostenitori di un certo tipo di new-wave (leggi Clash, N.d.R.) non potranno fare a meno di acquistare questo LP di un Joe Ely dall’abito nuovo, in bilico fra rock’n’roll, new-wave (ma quale?) e country made in Texas; vogliamo scommettere?
MCA 5262 (Singer Songwriter, 1980)
Fabio Nosotti, fonte Mucchio Selvaggio n. 32, 1980
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