Joe Moore

Proposta interessante – ed atipica – che ci viene da quel d’Irlanda del Nord a proposito di un personaggio che è già sulla scena anglosassone da alcuni anni, ma del quale onestamente non sapevamo assolutamente niente.
Questo fino a quando gli amici della Lough Neagh Records hanno voluto inviarci i tre albums a suo nome.
Joe è nato a Dungiven, nella contea nordirlandese di Derry e si è sempre guadagnato il pane lavorando nel campo dell’edilizia. Nel 1997 Joe ha deciso di dedicarsi alla country-music in modo professionale ed è così che la suddetta indie gli ha pubblicato la prima raccolta di ben quattordici pezzi dal titolo introduttivo ed accattivante A Friend In Country Music.
Purtroppo il booklet – si fa per dire – del CD non reca alcun tipo di informazione sui musicisti che accompagnano Joe in questo suo debutto e neppure su altri dati che risulterebbero d’aiuto per il povero recensore.
Quello che invece salta all’…orecchio fin dal primo ascolto è la scelta dei brani: si tratta infatti per lo più di covers estratte dal repertorio dei nomi più blasonati del new country, gente che risponde ai nomi dei vari Alan Jackson, Travis Tritt e Randy Travis.
Proprio a proposito di quest’ultimo, non può non lasciare meravigliati la rassomiglianza della voce di Joe con quella del primo – in ordine di uscita sul mercato – dei new-traditionalists.

Chi avesse dei dubbi, si vada ad ascoltare la versione che Travis dà di Forever And Ever Amen e la confronti con l’interpretazione del nostro Joe: la voce è praticamente clonata.
Discorso molto simile, specie nella modulazione della voce – per Heroes And Friends e per The Box. Si tratta di country-music attuale, suonata e cantata con molta professionalità e quindi stiamo parlando di un ottimo prodotto, soprattutto se consideriamo che è accreditato ad un esordiente. Anche il succitato Alan Jackson è abbondantemente saccheggiato, con la famosa Chattahoochiee, con il title-track del suo debut album Here In The Real World, per finire con un’accattivante versione dell’ariosa country ballad Chasing That Neon Rainbow.
Dall’omonimo album di Travis Tritt viene ripescata poi All About To Change ed il risultato non manca di deliziare i palati degli estimatori di un certo tipo di musica country, più orientata al suono tradizionale.
Ancora in tema di covers, segnaliamo Mama Knows The Highway (Pete Wasner – John Charles Quarto), che abbelliva il CD Sure Love di Hal Ketchum nel lontano 1992 e Got No Reason di Johnny Russell.
Sul fronte dei brani – a me – sconosciuti, ricordiamo le tipiche ballate Roads And Other Reasons, Hard Rock Bottom, ancora molto ‘Travisiana’, per completare la carrellata con un classicissimo tempo di ¾ dal titolo esplicativo di Home To Donegal.
Senza dubbio si tratta di una proposta alquanto stimolante, oltre ad un contenuto ad alto tasso di professionalità.

Se questo debutto rientra nella media dei country-singers dell’Irlanda del Nord, abbiamo un ampio territorio sul quale cominciare a pascolare d’ora in poi.
A seguito di una nutrita serie di presenze nei bar, nei clubs ed ai festival country in Europa (Inghilterra, Scandinavia ed Irlanda), la gente comincia ad interessarsi a Joe Moore, grazie anche alla sua interpretazione del brano di Tony Martin, Little Dutch Maiden, che farà bella mostra di sé nel secondo CD di Joe, intitolato It’s A Hard Way To Make An Easy Liling, pubblicato dalla stessa indie un anno dopo. Il pezzo in questione è decisamente ‘radio-friendly’ e si rivela un ottimo veicolo promozionale per Joe e fin dal brano di apertura, quella Mama’s Rocking Chair, a firma Mike Headrick, che dava anche il titolo al quarto album di Benny Berry (bravissimo quanto sconosciuto country-singer americano con la voce molto vicina al grande Hag e che ha trovato credibilità discografica in terra d’Albione), si può comprendere il cambiamento di rotta operato da Joe Moore. La voce si è avvicinata a quella di Merle Haggard, stilista di indubbia influenza per una folta schiera di attuali country singers, pur mantenendo molte similarità con quella di Randy Travis, neppure lui immune al fascino di Merle.

A riprova del peso che il grande di Bakersfield ha esercitato sulla formazione di Joe, si evidenzia il suo personale tributo con Holding Things Together. A proposito di questa song, si rende imprescindibile una nota di traduzione al brano: “…Tenere le cose insieme non è una cosa facile/Quando si parla di crescere dei bambini, è un lavoro da fare in due/Alice, per favore credimi/non riesco ad andare avanti a tenere le cose insieme, mentre tu te ne sei andata./Oggi era il compleanno di Angie, credo te ne sia dimenticata/Ho cercato di telefonarti due volte, ma senza successo entrambe le volte/Il postino ha recapitato un regalo che ho spedito io alcuni giorni fa/L’ho firmato semplicemente CON TANTO AFFETTO. MAMMA, cosicché Angie non ne soffrisse…”.
I legami con il new-country permangono comunque con un’altra cover di Love Without End, Amen, già apparsa nel repertorio di George Strait nel 1990.
L’interesse di Joe Moore per la country music d’autore non si ferma comunque ai tempi recenti, perché Atlanta Anymore fa parte del repertorio di Gene Watson almeno dal 1986, quando fu inclusa nel suo album Starting New Memories e si rivela un’altra ballata struggente, mentre Grundy County Auction è uno spiritato uptempo con la chitarra molto twangy.
Una menzione particolare poi per il title-track autobiografico. E’ il primo sforzo compositivo di Joe Moore che riesce a trovare la via dei solchi di un CD ed il risultato è pura ed onesta country-music, come si vorrebbe ascoltare molto più spesso al giorno d’oggi, poco importa se viene dalla vecchia Europa o dalla giovane America, a parte il fatto che sfido chiunque a stabilire la nazionalità di Joe dalla sua musica o dalla sua pronuncia.

Il 1999 vede la pubblicazione di un nuovo album prima della fine del millennio, Her Heart Or Mine. Joe Moore è uno di quei cantanti country che potrebbero calcare il palco della Grand Ole Opry di Nashville sentendosi perfettamente a proprio agio. Questo nuovo CD comprende ben quindici brani che soddisferanno molti ascoltatori, siano essi attratti dalle sonorità tradizionali o dai suoni più attuali. Si trovano anche due brani originali di compositori Irlandesi; We Owe It All To Those Who Have Gone Before, scritta da Martin Soye, è una lenta e languida ballata che deve molto allo stile vocale di Merle Haggard, mentre Fiddle And Bow, opera di Gerard Doran, si rivela un brillante uptempo.

Da sottolineare la presenza di un brano magico, Seven Spanish Angels, originariamente portato al successo nel duetto fra Willie Nelson e Ray Charles. Il coraggio di cimentarsi con un pezzo tanto blasonato è sicuramente un punto a favore di Joe, che ottiene un altro centro, grazie anche all’aiuto dell’amico Chris Logue, già metà del duo Logue & McCool, con un CD all’attivo dal titolo eloquente di Cowboys & Outlaws. Per la cronaca, lo stesso CD contiene anche la cover di quella Got No Reason che Joe ha incluso nel suo primo album.
Sempre in tema di covers si apprezzano Honky-Tonk, Two-Steppin’, Beer-Drinkin’ Saturady Night (County Line Band con Carmol Taylor), Irma Jackson (Merle Haggard), All You Ever Do Is Bring Me Down (Raoul Malo e Al Anderson) – manca però l’accordion di Flaco Jimenez che allietava l’originale – e God Keeps The Wild Flowers Blooming (George Jones).

Per la prima volta compaiono i session-men impegnati nelle registrazioni, purtroppo i loro nomi ci sono sconosciuti, ma non credo lo resteranno per molto. Manus Marron (batteria), Charlie Arkins (violino ed armonica), Clive Culbertson (basso e voce corista), Matthew Curran (chitarra solista e steel), John Dolan (piano) e Johnny Scott (chitarre acustiche e dobro) rappresentano un supporto imprescindibile dalla qualità del lavoro di Joe Moore, un nostro (nuovo) amico in country music: WELCOME JOE!

Dino Della Casa, fonte TLJ, 2005

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