Dopo il successo dell’album precedente, reso anche più appetibile dalla presenza di Ry Cooder, Hiatt si ripropone in un contesto di grande efficacia in cui le sue composizioni vengono valorizzate da una produzione attenta a cogliere i punti chiave dell’artista. La sua musica ondeggia senza perdere colpi dalle sonorità acustiche e country di alcune ballad alle tinte più aspre e rockeggianti di altri brani cui ben si presta la sua voce graffiante.
Spicca questa volta la presenza di quel Bernie Leadon che, con i Flying Burrito Brothers e poi con i primi Eagles, contribuì non poco nei primi anni settanta all’evoluzione del suono country-rock. Il suo banjo 5 corde nel brano di apertura del disco, fra dobro e chitarre acustiche, riporta facilmente ad alcuni episodi del gruppo di Don Henley, cui però è quasi sempre mancato, specialmente nei testi, lo spessore che costituisce una delle caratteristiche più robuste di Hiatt, assieme alla sua grinta di cantante.
La strumentazione di Leadon, lo ripeto – e non manca nulla tra vecchie National, mandolini Gibson e Telecaster d’annata – contribuisce ad inserire in qualche modo l’album (inciso, guarda caso, a Nashville negli studi di Ronnie Milsap) nella corrente di ‘roots music’, di revival parziale della tradizione che ha portato alla luce diversi nuovi artisti, ma anche contagiato veterani come John Cougar, e non solo lui.
Ma, attenzione, questa non è country music. La miscela di John Hiatt comprende un’iniezione assai robusta di rock’n’roll d’annata, complice il notevole lavoro chitarristico di Sonny Landreth, uno dei migliori slide-guitarist visti dal vivo negli ultimi tempi, mentre alcune vere e proprie ‘soul-ballad’ completano l’immagine di un personaggio che merita tutta la nostra attenzione per il calore e la passione che pervadono la sua musica.
A & M 395206-1 (Roots Rock, Singer Songwriter, 1988)
Stefano Tavernese, fonte Chitarre n. 33, 1988
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