John McCutcheon – Fine Times At Our House cover album

John McCutcheon, polistrumentista, quattro albums all’attivo, numerose partecipazioni a svariati lavori altrui, è uno di quei pochi musicisti dell’odierno revival – quattro o cinque, a voler essere di manica larga – che ha fatto tesoro dell’esperienza dei colleghi della prima ora (ascolto dei documenti sonori originali e ricerche in loco, spesso abbinando le due cose nei casi possibili) ed è andato oltre, fissando cioè il proprio domicilio in Virginia per apprendere, capire, vivere, ‘respirare’ la tradizione musicale del Sud-Est.

Non esiste disco, firmato dal nostro, che non contenga ballate, fiddle-tunes, filastrocche, tiritere apprese direttamente da qualche nuovo compaesano, sia esso un virtuoso strumentista o una semplice casalinga particolarmente devota alla compilazione del professor Child; non esiste disco sulle cui note di copertina non si legga un sincero ringraziamento a chicchessia per qualche oscuro motivo riposto da un secolo in un angolo della memoria o un pubblico riconoscimento per aver preservato uno stile strumentale (fiddle, banjo, hammered-dulcimer) altrimenti destinato all’estinzione.

Sin dalla prova d’esordio, How Can I Keep From Singing (June Appal JA-003, 1975), McCutcheon ha ampiamente dimostrato di non essere solo uno scrupoloso archeologo né un fortunato rabdomante, ma di servirsi del repertorio tradizionale come materia prima su cui forgiare le proprie interpretazioni e, non di rado, le proprie creazioni.
Dell’otm McCutcheon rappresenta l’aspetto raffinato, sofisticato, colto; un retaggio della sua origine urbana e medio-borghese difficile da cancellare che comunque molto spesso torna ad esclusivo beneficio della musica stessa. Ogni suo arrangiamento rasenta infatti la perfezione formale, le scelte da solista riguardo l’uso di uno strumento musicale piuttosto che un altro per rendere al massimo la particolare atmosfera di un brano si rivelano sempre felicissime, le sue manipolazioni e combinazioni nell’economia sonora di una string-band sempre azzeccate.

Queste doti, in parte naturali e in parte acquisite, hanno fatto sì che i risultati dei due LPs seguenti, The Wind That Shakes The Barley (June Appal JA-014, 1977) e Barefoot Boy With Boots On (Front Hall 021, 1981), siano andati molto al di là delle più rosee aspettative. Inutile dire che tutto quanto viene riconfermato in maniera splendida da quest’ultimo Fine Times At Our House.

Con l’aiuto di musicisti patentati – i Trapezoid al gran completo, l’eccellente ‘clogger’ Beverly Cotten e Joe Hickerson, attuale direttore dell’Archivio musicale della Library of Congress – John presenta qui un programma di motivi tradizionali (non molto comuni) e d’autore eseguiti con perizia, infinito amore e squisito buon gusto. Il gruppo così composto sostiene con un accompagnamento tanto solido quanto tradizionalissimo la voce del titolare (fresca, incisiva, impeccabile), e gli strumenti che di volta in volta sono chiamati a svolgere le parti soliste accentuando il loro timbro peculiare e le proprie caratteristiche: gli splendidi violini gemelli in Wild Rose Of The Mountain (titolo identico per due differenti composizioni), i fiddle-sticks in Nancy, hammered-dulcimer in Lonesome John con una scelta di tempi, pause e toni da manuale.

In Fine Times At Our House su tutto si elevano due autentici gioielli: Samanthra, un inno religioso originariamente concepito per lo ‘shape-note singing’, completamente rivisitato e reso da un raro duetto di hammered-dulcimer e violoncello, e la lunga Times Are Not What They Used To Be, una bellissima blues-ballad bianca, nata durante la Depressione ma tragicamente attuale ad ogni ricorrere di congiuntura economica, recitata da due voci ispirate e da un paio di fiddle, sovraincisi dal nostro, che del blues hanno afferrato l’essenza intima.
Non è escluso che Hi, Folks!, continuando una costosa ma gloriosa tradizione inaugurata con Mike Seeger, riesca a portare McCutcheon in Italia la prossima primavera. Se così fosse, avremo per la seconda volta la possibilità di assistere allo show di uno degli artisti più genuini dell’attuale panorama del folk revival statunitense.

Greenhays GR-710 (Folk, Old Time Music, 1982)

Pierangelo Valenti, fonte Hi, Folks! n. 5, 1984

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