Johnny Cash

Stiamo attraversando Andover, Kansas, teatro di una delle piu’ gravi trombe d’aria nella storia americana: un mostruoso tornado qualche anno fa ha raso al suolo la cittadina e ucciso trenta persone. Ogni palazzo sembra essere stato costruito nel giro di dieci minuti. La civilta’ umana qui e’ stata sradicata. Le luci della prima serata stanno filtrando attraverso i finestrini del Greyhound MCI nero e argentato, carezzando con i caldi raggi arancioni le gigantesche fattezze di Johnny Cash.

Il lato sinistro del viso di Johnny Cash e’ dolorosamente gonfio dopo le innumerevoli operazioni alla mascella, ma ancora una volta si prepara ad esibirsi davanti ad una folla di fedeli campagnoli, questa volta in un posto assolutamente in mezzo al nulla; un nuovo ed efficiente (come ti sbagli) centro commerciale che si trova surrealmente solo, nell’infinita distesa delle Grandi Pianure americane.

Anche se lo si volesse, non ci si potrebbe trovare di piu’ nel cuore delle terre americane. Abbastanza appropriatamente, da quando abbiamo lasciato la periferia di Wichita, Cash ha cominciato a canticchiare e poi a cantare la famosa canzone di Jimmy Webb che parla dei guardalinee nazionali ‘ancora in prima linea’ come l’ugualmente famoso protagonista della canzone di Cash I Walk The Line.

Dal retro del bus emerge June Carter Cash, un compendio di rassicurante grazia del Sud, con i capelli raccolti in un fazzoletto. Anche lei si sta preparando per l’ennesimo concerto nel quale duettera’ con il marito in Jackson e If I Were A Carpenter per poi interpretare un magico medley di classici della Carter Family intervallato dai suoi divertentissimi monologhi comici. Seduto di fronte a Cash e a un tavolo che si piega per diventare un letto, gli chiedo se stasera cantera’ qualche canzone dal suo nuovo bellissimo album Unchained. La mia ipotesi e’ che terra’ la sua versione di Rowboat di Beck, quella di Rusty Cage dei Soundgarden e pezzi forti come Ring Of Fire e Sunday Morning Coming Down per il pubblico radical-chic di Londra e Manhattan.

“Se ci saranno dei giovani cantero’ Rusty Cage” dice con la sua voce profonda, un misto di sonoro di John Wayne ne ‘Il Pistolero’ di Siegel e Robert Mitchum in ‘La morte corre sul fiume’. “Devo salire sul palco e sentire il pubblico. So come comincero’, ma questo e’ tutto. Il mio pubblico preferito e’ quello delle citta’ universitarie – ci si sente come negli anni ’50. E poi ci sfreniamo”.

Ben presto il centro commerciale emerge dall’orizzonte piatto; nella luce fioca cominciamo a vedere le macchine e i pulmini parcheggiati nello spazio intorno. Quando il pullman esce dall’autostrada, ci sono una ventina di persone che aspettano di vedere Cash scendere dall’auto – un mucchio di berretti e Stetson. Cash tira la tendina per nascondersi, ma June saluta dall’altra parte una coppia di mezza eta’ che sta seduta in una Winebago.

“I nostri grupies” mi dice. “Ci seguono ovunque”. Si viene a sapere che piu’ di 10.000 persone sono uscite in questa tiepida e ventosa serata del Columbus Day per vedere lo spettacolo. Il palco si trova in mezzo al centro commerciale, un campo da golf in miniatura da una parte e dall’altra negozi con insegne al neon con nomi come London Fog, Jones New York e Rue 21.

Alle otto circa l’artista locale Johnny Western sale sul palco e comincia a cantare un soporifero medley di canzoni di cowboys. Western era l’artista che apriva le serate di Cash e il suo compagno di viaggio durante i giorni infuocati della meta’ degli anni ’60, quindi questa e’ una specie di rimpatriata.

Fra una ballata e l’altra, Western fa il suo lavoro ringraziando un largo numero di personalita’ locali per aver reso possibile questo evento: il sindaco, il capo della polizia, il capo dei vigili del fuoco e, naturalmente, i proprietari del centro commerciale. Se una cosa del genere fosse capitata a Milano sarebbe successo il finimondo. Cash intanto e’ seduto su uno sgabello al lato del palco, tossendo e firmando autografi ai poliziotti di servizio.

Alle 8.15 Johnny Western fa quello che ha fatto per sette stralunati anni e da’ al suo vecchio capo il via allo show: “Eccolo! L’uomo in nero! I Walk The Line! Folsom Prison Blues! Un applauso per … Johnny Cash!!!”. E lentamente Cash si avvia verso la familiare visuale di centinaia di lavoratori, americani della middle-class, timorati di Dio, arrivati a dare un tributo di massa. Persone che sciamano davanti con le loro macchine fotografiche, accovacciati sotto Cash per catturare Sua Maesta’ in una foto casereccia.

In Italia avrebbero sicuramente proibito fare le foto. Nessuno sa perche’, ma sembra diventare una legge ferrea. “C’e’ vento stasera” la voce di Cash rimbomba nelle casse. “Ma e’ un buon vento, un vento del Kansas. Lo potete respirare”. Comincia con Folsom Prison Blues e poi scivola nel rockabilly d’annata di Get Rhythm, una canzone che ha scritto quaranta anni fa per un collega della sua stessa casa discografica, la Sun, Elvis Presley. Una cupa esecuzione di Sunday Morning Coming Down di Kris Kristofferson sembra unirlo a tutto il pubblico.

“Ci sono alcune canzoni country nel mio nuovo album che spero proprio ascolterete” dice, con un velato riferimento al fatto che American Recordings, il disco prodotto nel 1994 da Rick Rubin e’ stato ignorato dalle radio country. Canta la bellissima title- track del nuovo album, e lo fa senza fronzoli. Lacera Country Boy, uno dei due vecchi rock della Sun ripresi per Unchained.

E poi, nonostante l’assenza di teenager fra la folla, introduce Rusty Cage. “E’ una canzone dei Soundgarden”, dice in un silenzio assordante. La performance di Cash della canzone di Chris Cornell, sia dal vivo che nell’album e’ un capolavoro di minaccia mitopoetica. “I’m gonna break/ I’m gonna break my/ I’m gonna break my rusty cage and run” urla al pubblico del centro commerciale non appena la canzone raggiunge l’apice.

Guardo le famiglie di campagna e mi chiedo cosa ne pensino. Vedo solo dell’incomprensione e poi il sollievo quando il gruppo attacca Ring Of Fire, con la sua musica riprodotta da un piccolo sintetizzatore suonato dal pianista Earl Ball. Una donna con il distintivo di Bob Dole sventola davanti a Cash la sua copia originale di Ring Of Fire.

L’Uomo In Nero non la nota. Il fatto che sia  andato avanti e abbia cantato Rusty Cage comunque ci fa capire qualcosa di Johnny Cash. Non molto, ma qualcosa: ci fa capire che a lui non importa veramente se questa platea di mangiatori di granturco gradisca i Soundgarden o meno, cosi’ come non gli importo’ molto negli anni ’60 di cosa pensassero questi americani credenti di ceto medio delle sue esternazioni circa il Vietnam, le riforme carcerarie o la piaga degli indiani d’America.

Ci fa capire che Cash non sta facendo il gioco sicuro della nostalgia, cosi’ come ha bisogno di andare avanti tanto quanto ha bisogno di regalare ai fans duri a morire canzoni che canta da quarant’anni, cosi’ come quasi tutto quello che fa dimostra che non accetta compromessi. Al momento, Cash e’ nella terza fase della sua carriera, in una nuova prospettiva di vita dopo i cupi anni ’80.

Il vento sta ricominciando a soffiare. I suoi amici Highwaymen (Willie Nelson, Waylon Jennings, e Kris Kristofferson) possono aver registrato album con Don Was, ma il cavaliere di Cash in una sfavillante armatura e’ un tipo di New York con dei lunghi capelli meglio conosciuto per aver lanciato Public Enemy e Beasty Boys. Proprio come Bob Dylan e’ stato un grande amico di Cash negli anni ’60 (suggerendo alla Columbia che l’uomo in nero era stato finalmente scoperto dal circuito alternativo) cosi’ il primo album di Cash per l’etichetta di Rick Rubin ha significato la voglia di godersi la sua formidabile presenza per tutti i grunge di poca importanza e per le supermodelle.

Cash e’ diventato un’icona transgenerazionale, un padrino del gotico americano, una ‘tabula rasa’ per le persone che preferiscono il mito alla realta’. Tutto quello che ci serve ora e’ che Johnny Deep e Kate Moss abbiano un figlio e chiedano a Cash di esserne il padrino. Per Unchained, il seguito di American Recordings Cash ha optato per un suono pieno, da band (essenzialmente Tom Petty e gli Heartbreakers, con vari ospiti) che ricorda i suoni grezzi dei tempi della Sun.

E’ un album piu’ accessibile del precedente, che non era cosi’ acustico quanto nudo. Vuole anche attraversare cinquant’anni di musica, da The One Rose di Jimmie Rodgers a Rowboat di Beck passando per Memories Are Made Of This di Dean Martin con niente che sembri fuori posto. Per dirla brevemente, e’ uno degli album piu’ belli dell’anno.

American Recordings era piu’ duro”, mi dice Cash nella stanza d’albergo a Wichita. “Non c’era niente di nascosto dietro e questo faceva paura. Con questo album mi sono divertito di piu’ perche’ stavo insieme ad un gruppo di gente a fare musica. E’ un disco piu’ musicale. Le sessions ricordavano molto i giorni di Memphis… quel tipo di liberta’. Stare seduti e parlare: cosa vuoi sapere? Niente orologi sulla parete, niente pressioni. Ho fatto Country Boy in concerto ed era proprio bello. Mean-Eyed Cat e’ stata originariamente scritta quarant’anni fa ma non fu mai finita cosi’ ne ho scritto un’altra versione l’anno scorso.”

D: Presumo che all’inizio eri riluttante ad interpretare le canzoni di Beck e dei Soundgarden.

R: Beh, se una canzone suona male, allora non sta comunicando niente. Questo e’ stato il problema con Rusty Cage. Poi Rick e Tom hanno fatto un arrangiamento molto adatto a me, e penso che ora sia una delle canzoni che piu’ preferisco cantare. Avevo rifiutato anche Rowboat: cosi’ com’era, non era per me. Non riuscivo a capire  cosa farci.

D: Cosa hai pensato di Beck l’anno scorso quando ha aperto il tuo concerto a L.A.?

R: La mia impressione e’ stata che in un certo senso fosse un grande cantante un po’ montanaro. Aveva quel senso della musica degli Appalachi che faceva sembrare proprio che lui sentisse e amasse quello che stava facendo.

D: Potresti affermare che il tuo successo presso il pubblico rock alternativo ti abbia fatto perdere i tuoi fans country?

R: No, non ho voltato le spalle a Nashville, ma non so se loro le abbiano voltate a me. Non mi importa molto, comunque non stavo combinando granche’, se non farmi trascinare dagli eventi. Mi sono totalmente allontanato da Nashville quando ho saputo che la Mercury aveva stampato solo 500 copie dell’ultimo album che avevo fatto li’. Quindi perche’ andare avanti?

D: L’anno scorso hai chiuso il Museo Cash (attrazione turistica vicino la casa di Cash a Hendersonville, in Tennessee).

R: Si. Non voglio stare nel business turistico. Era una collezzione di pezzi d’antiquariato e effetti personali che June ed io avevamo raccolto negli anni, ed era molto interessante per me vedere che la gente se ne interessava, ma alla fine ci siamo stancati. Mia madre e’ morta (nel 1991) e lei era una specie di capo li’.

D: La vendita fenomenale di musica country ha finalmente raggiunto una sua stabilita’ dopo dieci anni. Pensi che la gente voglia qualcosa di piu’ sentimentale da Nashville?

R: C’e’ una piu’ grande selezione di canzoni ora, ma penso che ci sia una grande sovrapproduzione di dischi. Alcune persone stanno cercando di trovare uno stile preciso per la loro musica piuttosto che far sentire le stesse cose in continuazione, e io credo che ricomincera’ ad esserci in giro la vera musica country. Alcune stazioni radio stanno ricominciando a programmare i veterani. Gente come Haggard, George Jones va molto. Puo’ darsi che mettano in rotazione anche una o due canzoni del mio nuovo album, visto che e’ veramente un disco country in molti sensi. C’e’ un brano di country classico di Jimmie Rodgers, e poi c’e’ la canzone di Don Gibson (Sea Of Heart Break) e I Never Picked Cotton (un hit del 1970 di Roy Clark).

D: In ogni caso tu trascendi le categorie. American Recordings era tanto folk quanto country.

R: Ho sempre amato la musica folk. E’ la spina dorsale di un paese, o almeno lo era. E’ da li’ che viene la musica country, e penso che sara’ un bene se il country si ricordera’ delle sue origini e delle sue tradizioni.

D: Credi che persone come Steve Earle e Dwight Yoakam siano dei ribelli di Nashville? Il recente concerto di Earle in una prigione ricorda inevitabilmente i tuoi album Folsom Prison e San Quentin.

R: Loro sono i miei due cantanti country preferiti al momento. Dwight e’ un mio amico. Quando la Columbia mi scarico’ (nel 1986) lui ando’ da loro e gli disse cosa pensava. Ho fatto una session con Steve Earle l’anno scorso: abbiamo fatto una canzone per Dead Man Walking chiamata In Your Mind. E’ molto simile a me quando ero giovane. Si mette i vestiti al contrario!

D: Ho sentito dire che il tuo prossimo album con Rick Rubin sara’ gospel. Questo mi ha ricordato che la prima volta che hai fatto un provino per Sam Phillips ti eri definito un ‘cantante gospel’.

R: Il gospel fa parte di me. Non posso fare un concerto senza fare una canzone gospel. E’ la cosa che piu’ mi ha ispirato quando ero piccolo, dato che sono cresciuto su un campo di cotone dove il lavoro era molto duro. Quando stavo nel campo cantavo gospel tutto il tempo, perche’ riusciva ad innalzarmi.

D: Ci sono canzoni che sai che metterai nell’album?

R: Alcune dove ci sono solo io con la chitarra sono gia’ state registrate, ma per quanto riguarda quelle da incidere con la band, abbiamo l’arrangiamento per Farther Along. Me l’ha suggerita Mike Campbell (il chitarrista degli Heartbreakers). Ci sono altre canzoni che amo molto – alcune di Sister Rosetta Tharpe. Strange Things Happening Every Day, la devo registrare. E forse Didn’t It Rain, Child. Piu’ le vecchie cose country gospel, come How Beautiful Heaven Must Be.

D: Hai mai parlato di gospel con Elvis?

R: Oh si. Parlavamo solo di quello… beh, parlavamo anche di ragazze! Elvis ed io facevamo un sacco di show insieme in camerino, e inevitabilmente finivamo sempre a cantare gospel. Lui veniva da Tupelo, ed io ero in Arkansas a circa quaranta miglia di distanza. Quindi siamo cresciuti con le stesse canzoni, da Bill Monroe al gospel nero alla Church Wagon Gang. Elvis, Carl ed io ci sedevamo nel camerino prima degli spettacoli e cantavamo i gospel dei Blackwood Brothers.

D: Alcune persone affermano che quando alla Sun si costitui’ casualmente il gruppo chiamato Million Dollar Quartet (Presley, Cash, Carl Perkins e Jerry Lee Lewis), tu in realta’ eri in giro a fare shopping.

R: Questa e’ una favola che la RCA o qualcun altro ha fatto passare per vera a Memphis – penso per non avere a che fare con me per i diritti. Ma il fatto e’ che era una session di Carl e io stavo con lui. Poi arriva Elvis con la sua ragazza, cosi’ ci fermiamo. Elvis si siede al piano e arriva Jerry Lee Lewis. Io sto dalla parte opposta del piano e del microfono, quindi non mi si sente. E quando ci riuscivo, cantavo con un tono molto alto, perche’ non trovavo l’armonia giusta.

D: Pensi che saresti potuto essere un predicatore?

R: Penso che per la mia idea di religione o vieni ‘chiamato’ a predicare oppure no. Io non sono mai stato chiamato.

D: Qual e’ la tua opinione dei telepredicatori?

R: Prima di tutto, non ne conosco molti, e ho deciso che non ne voglio conoscere. Perche’ se fossi un predicatore sicuramente non farei di queste cose. Predicherei in qualche piccola chiesetta di campagna, cercando di provvedere ai bisogni dei miei fedeli. E penso proprio che non andrei in televisione. Non sto dicendo che non perdono questo tipo di cose, ma certamente non le appoggio. L’unico predicatore che va in televisione e che apprezzo e’ Billy Graham, perche’ lo conosco molto bene. Non ha mai pensato ai soldi. Siamo stati seduti in riva al mare per molte ore ed e’ veramente cio’ che sembra.

D: Paragonato a gente come Jerry Lee Lewis, sembrerebbe che tu sia riuscito a tenere piu’ a bada le passioni.

R: Vorrei che fosse vero. Vorrei che lo fosse. Qualche volta hanno quasi preso il sopravvento.

D: Sei stato sposato solo due volte comunque.

R: Non sono mai stato il tipo che cambia moglie di frequente. Amo la donna con la quale sto da 28 anni. Ragazzi, ci siamo proprio divertiti. E’ stato uno spasso.

D: Sei un uomo che sembra avere delle contraddizioni. Un uomo che da un lato incide un album (Bitter Tears, 1964) sui nativi americani e dall’altro un brano sciovinista come Sold Out Of Flagpoles (1976). Dove sta la verita’?

R: Credo che Kristofferson l’abbia sintetizzata in un brano che ha scritto su di me: “He’s a walking contradiction/ Partly truth and partly fiction”. Patrick Carr (musicista) ha scritto in un racconto su di me che sono l’indiano in un campo di bianchi. Potrebbe essere cosi’, o potrei essere il bianco in un campo di indiani. Non lo so. Sono qui per vivere una vita interessante, non per minare le istituzioni del paese o cose simili. Ho fatto pressione sul mio produttore per registrare Bitter Tears ed e’ quasi svenuto. Al momento se mi guardo indietro, e’ uno dei due album migliori che abbia mai registrato; l’altro e’ Ride This Train (1960). Molti indiani sono venuti ai miei spettacoli e gli piace pensare che qualcuno dell’altro sistema si interessi di loro. Sono tuttora contento di poter essere stato la loro voce, anche se per pochi minuti. Tutto quello di cui ho cantato e parlato sono cose che puoi trovare sui trattati che l’uomo bianco ha scritto con loro. Le canzoni chiedono solo quello che e’ giusto per loro.

D: Nell’anno delle elezioni presidenziali, quanto sei ottimista sul futuro dell’America?

R: Lo sono molto. Mi piacerebbe se smettessimo di intrometterci nelle piccole guerre, o almeno che non le facessimo iniziare. Questo mi infastidisce. Questo mi infastidisce veramente. E’ sempre stato cosi’. Credo che ci stiamo mettendo in mezzo in certe zone della terra a cui noi non apparteniamo. Credo che in un certo senso dovremmo farci gli affari nostri, essere parte dell’Onu ma non cercare di esserne i capi.

D: Come va il dolore alla mascella?

R: E’ abbastanza forte quasi tutto il tempo. Tranne quando sono sul palco. Sto pregando per questo, e funziona. Non influisce sulla mia performance. Non prendo anti-dolorifici. Ho gia avuto problemi con loro un paio di volte.

D: Come vivi con questo dolore?

R: Dopo sei, sette anni, probabilmente arrivi a sopportarlo. Dopo una decina di minuti con la faccia su un morbido cuscino riesco ad addormentarmi. Mi sto abituando. E’ il mio dolore. Non sto cercando di essere coraggioso – non lo sono per niente – ma dopo che ci sono passato so come gestirlo.

D: Non hai intentato una causa? Pensavo che in America lo facessero tutti (la mascella di cash si e’ rotta quando un dentista ha tentato di rimuovere una cisti. E’ sopraggiunto un’infezione ed e’ ‘cominciato l’inferno’. Fino adesso ha dovuto subire 34 operazioni).

R: Tutti mi dicono di fargli causa, ma non lo vorrei fare. Non voglio questa cosa nella mia vita, non voglio questa seccatura.

D: L’ultima canzone di Unchained, I’ve Been Everywhere, potrebbe essere la storia della tua vita. Hai bisogno di fare cosi’ tante tournee e di lavorare cosi’ duramente?

R: Lo faccio per la mia anima. Mia madre mi ha insegnato che ogni talento e’ un dono di Dio e io ci ho sempre creduto. Non che io creda al fatto che se non lo sfrutti lo perdi. Ma se smettessi, vivrei di fronte alla televisione, ingrasserei e morirei. E non mi va.

D: C’e’ moltissimo senso etico nella musica country. Vedi gente come Ernest Tubb, che continua a fare tournee finche’ non crolla.

R: Perche’ no? Capita spesso che la gente muoia sul posto di lavoro. Sai, io spero e prego di morire con i miei stivali addosso, sul serio. Sono stato nei letti d’ospedale e non voglio finire li’.

D: Non ti stanchi mai di cantare sempre le stesse vecchie canzoni?

R: Assolutamente no. L’ho superato. Ho passato un periodo in cui non volevo piu’ cantare queste vecchie canzoni, ne potevo fare una o due a spettacolo. Ma alla fine ho deciso che stavo imbrogliando loro e me stesso. E ho cominciato a cantarle con ‘gusto’ e ‘desiderio’, come se le ‘amassi’. E ora non c’e’ una canzone che non faccia, se me la chiedono e se mi ricordo le parole. Queste canzoni sono una parte di me, una mia estensione. Quando mi trovo di fronte ad un microfono, c’e’ una parte di me, una mia estensione. Quando mi trovo di fronte ad un microfono, c’e’ una parte di me che va da quel microfono al pubblico e loro lo sentono, e sentono se anch’io provo lo stesso e mi ritorna indietro. E questo e’ cio’ che vuol dire fare uno spettacolo: dividere e comunicare.

D: Quando ti guardi allo specchio vedi un’icona americana?

R: Dio, che domanda! Merda! No. No. No. Vedo i brufoli sul naso, e la mascella gonfia… pochi capelli. Un’icona no. Non nel ‘mio’ specchio.

(per gentile concessione de Il Mucchio Selvaggio)

Max Stefani, fonte Country Store n. 37, 1997

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