Johnny Cash – American Recordings cover album

Nel 1994 Johnny Cash, reduce da alcuni anni di silenzio e da collaborazioni saltuarie con Nelson, Jennings e Kristofferson negli Highwayman, è destinato a un inesorabile declino, acutizzato dai cronici problemi di salute e da una generale indifferenza per la sua produzione più recente. Ma, come nelle migliori favole, un produttore (rap e hard rock!) di nome Rick Rubin rende un gran servizio all’umanità e invita il grande vecchio del country a cimentarsi con brani, sia della tradizione americana, sia di autori più recenti, arrangiati però come se uscissero in quel momento dalla penna dell’Uomo in Nero. Il risultato è questo magnifico American Recordings, titolo che gioca sul doppio significato di ‘registrazioni americane’ e ‘registrazioni della American’, l’etichetta che lo edita e che pubblicherà anche gli episodi successivi.

Già dalla copertina si percepisce che le intenzioni sono serie. Cash ha un lungo vestito nero, talare, e la custodia nera, appoggiata a terra e tenuta dalle sue mani, che quasi non si vede. A lato ci sono due cani a dare l’idea di un San Rocco laico. Poi c’è lo sguardo di Cash. Lo sguardo di un uomo battagliero che non vuole arrendersi agli anni e all’indifferenza. Infine c’è il disco.

Il primo brano è il singolo Delia’s Gone, trasmesso anche da MTV, che trascina l’album a vincere nel 1995 il Grammy Award For Best Contemporary Folk Album. Canzone tra blues e country su di un omicidio, con un ritornello memorizzabile, ma per nulla commerciale.

Tra i brani del disco che meritano assoluto rispetto ci sono la cover di Nick Lowe, The Beast In Me, assolutamente adatta a Cash anche come tematica. L’uomo che chiede a Dio perdono per i demoni che infestano il suo corpo è la quintessenza del Cash-pensiero e Why Me Lord di Kris Kristofferson, un altro dialogo con Dio, che è un gospel nella struttura e nella tematica, con un testo da antologia scolastica.

Come detto, ci sono poi cover di musicisti più ‘moderni’ come Cohen, Bird On A Wire, e Waits, Down By The Train. Cash, giustamente, sceglie brani di autori con caratteristiche vocali simili alle sue e si cala perfettamente nei due brani. Tanto è conosciuto ed epocale quello di Leonard Cohen, quanto è nuovo, ma ugualmente affascinante, quello di Tom Waits.

Tra le altre canzoni, si badi bene, tutte da ricordare, ci sono Redemption, da un libro della Bibbia, Drive On, che inizia talkin’ e cresce fino al ritornello che non si può non cantare, Let The Train Blow The Whistle, anch’essa di facile presa e Like A Soldier, dove il protagonista vuole vedere l’alba di un giorno migliore. Thirteen di Glenn Danzig parla invece di un nuovo che ha il numero 13 tatuato sul collo e una vita segnata. Semplice, profonda e cinematografica.

Da segnalare ancora un paio di brani dal vivo al locale trendy di Los Angeles, The Viper Room, ovvero Tennessee Stud e The Man Who Couldn’t Cry di Loudon Wainwright III dove mi sembra però poco azzeccata l’audience, troppo ridanciana su tematiche, sicuramente rese in modo ironico, ma decisamente serie. Per finire due parole su Oh Bury Me Not. Canzone triste, ma con taglio ironico, su di un peccatore che chiede la redenzione, e curiosamente registrata ‘in Rick’s living room and Johnny Cash’s cabin’.
Da avere, ascoltare, riascoltare e consumare.

American 45520 (Country Gospel, Traditional Country, 1994)

Fabrizio Demarie, fonte TLJ, 2005

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