Da vecchio e grandissimo estimatore di Joni Mitchell non posso che gioire ogni volta che esce un album della ormai mitica musicista canadese. Se i miei calcoli non sono errati, siamo giunti (bootleg esclusi) a quota 15, dopo oltre vent’anni di onoratissima e luminosa carriera. Appartengono veramente al passato remoto i tempi in cui una piccola, graziosa e timida ragazza dai lunghi capelli lisci apriva i concerti di Crosby, Stills, Nash & Young (suoi padri spirituali e …. qualcosa di più) con una Martin, che appariva gigantesca nelle sue braccia, un pianoforte a coda ed un piccolo dulcimer.
Negli anni Joni Mitchell è stata un fulgido esempio di creatività, freschezza artistica e grandissima duttilità.
Donna turbata e conturbante ha trasmesso emozioni fortissime attraverso una musicalità unica, una poetica raffinata e un raro talento estetico. Joni è indubbiamente un pezzo importante della storia della musica del ventesimo secolo, un’artista eclettica ed ispirata frutto di una generazione e di un periodo socio-culturale probabilmente irripetibili.
Da qualche anno, e almeno da tre dischi, la vena artistica della Mitchell (ormai una raffinata e, se possibile, ancor più affascinante signora) si è leggermele offuscata. Gli ultimi episodi discografici (specialmente il freddo Dog Eat Dog) non sono all’altezza della sua fama.
Così con una certa curiosità ci si accosta a questo Chalk Mark In A Rain Storm, dal titolo evocativo e dalla copertina suggestiva, nella speranza di essere sorpresi dall’ennesimo ciclo artistico di Joni.
Il disco, pur se pieno zeppo di ospiti illustri, è dominato da una sonorità sintetica che lo appiattisce notevolmente anche laddove esisterebbero i presupposti melodici ed armonici per il grande risultato. Non so quanto in questo nuovo sound abbia inciso l’intervento di Larry Klein (ultimo marito della Mitchell e, per altro, superbo bassista) ma, conoscendo il carattere di Joni, non credo che abbia potuto stravolgere gli intendimenti della cantautrice. L’incalzante tappeto di drum machine, tastiere e suoni sintetizzati è talmente dominante da impedire un giudizio più approfondito ed un’analisi oggettiva sulla creatività dell’artista. A parte tre episodi fortunati (in ordine di gradimento Cool Water con Willie Nelson, The Reoccurring Dream e Dancin’ Clown con Tom Petty ed un ringhiante Billy Idol) il resto del disco, mi fa male dirlo, scorre in maniera piuttosto noiosa.
Si sobbalza solo nel brano conclusivo, un magnifico remake del vecchio blues Corinna, Corinna, qui ribattezzato A Bird That Whistles, con un arrangiamento acustico incantevole e con un sublime intervento dei sax di Wayne Shorter. Il brano, come si suoi dire, vale l’acquisto del disco anche se appare veramente come un episodio staccato e avulso completamente dal progetto.
Per dovere di cronaca è giusto citare il clamoroso cast che è intervenuto alla corte di Joni. In ordine di apparizione, Peter Gabriel, Benjamin Orr, Don Henley, Wendy & Lisa, Thomas Dolby, Tom Petty, Billy Idol, Willie Nelson, Wayne Shorter.
Che il ‘periodo sintetico’ di Joni possa sparire come ‘un segno di gesso in un nubifragio’.
Geffen GHS 24172 (Singer Songwriter, Folk, 1988)
Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 29, 1988