Keb'Mo'

Affermatosi negli anni Novanta, dopo due decenni da sidemen, Keb’ Mo’ ha beneficiato di una fase, non lunga purtroppo, in cui sulla scia del successo del cofanetto dedicato all’integrale di Robert Johnson, la Sony aveva riesumato il marchio Okeh e messo sotto contratto artisti afroamericani di blues acustico, come appunto lui e Alvin ‘Youngblood’ Hart. Per entrambi, come per altri colleghi emersi in quel periodo quali Eric Bibb, Guy Davis e Corey Harris, la figura di Taj Mahal è stato un modello o almeno una fonte ispirazione. Ognuno di loro ha poi preso una sua strada e Keb’ Mo’ stesso si è progressivamente smarcato dall’iniziale accostamento a Johnson, virando verso una musica di sintesi, meno tradizionale, ma di sicuro più vicina alla propria sensibilità. Non è stata del tutto una sorpresa quindi, ritrovarlo ora, per un intero disco e un lungo tour, al fianco di Mahal.

Di chi è stata l’idea di fare un disco insieme?
Di Taj! Non che a me non sia venuto in mente, ma non ho mai avuto il coraggio di proporglielo. Lui è un gigante, ed è una persona per cui ho un rispetto enorme. Ci è voluto tempo per realizzarlo e molte componenti da coordinare perché questo avvenisse, il lavoro preparatorio, il management giusto, una etichetta e tutto il resto. Abbiamo lavorato negli ultimi due anni, quando i rispettivi impegni ce lo consentivano. Siamo partiti da una canzone e poi, pezzo dopo pezzo, senza troppe difficoltà, il disco ha preso forma. Tenevo particolarmente al fatto che ognuno sapesse cosa fare e che Taj fosse al centro del progetto.

Sei sempre stato un ammiratore di Taj, sin da giovane?
Sono stato un suo fan e l’ho visto in concerto alcune volte in quel periodo. Lui venne anche a suonare al mio liceo. Poi negli anni Novanta quando sono usciti i primi dischi a mio nome, ci siamo incrociati spesso, ho avuto occasione di aprire i suoi concerti e negli ultimi vent’anni ci siamo conosciuti meglio. Ora siamo amici e ci sentiamo di frequente. E’ un tipo eccezionale e sono molto contento di poterlo avere a fianco per i prossimi sei mesi, e passare del tempo insieme.

Cosa ricordi dei tuoi inizi con Papa John Creach?
Ero molto giovane, ma ho imparato molto da lui. Ricordo bene che sull’album Filthy! c’è una foto in cui ci siamo tutti noi del gruppo in studio e in quella foto il tizio vicino a me è il mio buon amico John Lewis Parker, tuttora collaboriamo, abbiamo scritto molte canzoni insieme. Anche qualcuna per questo nuovo disco, come Ain’t Nobody Talkin’ e Home Sweet Home.

Divin’ Duck Blues compariva anche sul primo LP di Taj, quasi cinquant’anni fa, come mai l’avete ripresa?
E’ una canzone che secondo me appartiene a Taj, ne ha date altre versioni molto belle, mi piace anche quella che ha suonato con Eric Bibb, l’ho vista su Youtube. Noi l’abbiamo suonata insieme al Festival Crossroads di Eric Clapton qualche anno fa e forse è stata proprio quell’occasione ad aver ispirato il disco. Volevamo inserire canzoni che avessero senso tra loro, non canzoni che avevamo già inciso, però sapevamo che Divin’ Duck avrebbe trovato posto. E così è stato.

Credi che Taj abbia rappresentato un riferimento negli anni Novanta per te, Eric Bibb, Alvin ‘Younblood’ Hart, Corey Harris
Senza alcun dubbio. Taj è stato un faro, una speranza, un’alternativa. Sai se sei afromericano in America puoi fare rap, rhythm and blues, soul… oppure blues, ma se vuoi essere qualcosa di diverso il mercato è molto ridotto. E’ davvero difficile. Perciò aver visto per tutti questi anni Taj ritagliarsi la libertà di essere quello che voleva essere, di cambiare e di continuare ad avere un seguito, beh credo che sia stato importante per diverse generazioni di musicisti. Lui è riuscito a non farsi incasellare in un genere, forse non c’è una categoria per racchiuderlo. Ho intitolato il disco precedente BluesAmericana e  non mi dispiace la definizione ‘Americana’, per l’ampiezza delle influenze che ricadono sotto questo ombrello, voglio dire ce ne sono talmente tante che è come se non ci fosse una categoria vera e propria. Agli Americana Awards ci sono elementi jazz, country, blues, folk, r’n’b… alla fine conta solo la qualità della musica.

Qualche hanno fa hai inciso un album, Peace… Back By Popular Demand, in cui riprendevi alcuni classici su temi sociali, però c’era un tuo brano Talk in cui ti rivolgevi al presidente. E’ ancora attuale?
Oh sì. Quella era in effetti l’unica canzone originale del disco e la scrissi con Kevin So, all’indomani dell’11 settembre. Lui che abitava a Boston, era bloccato a Los Angeles perché molti  voli erano stati annullati, e allora l’avevo ospitato a casa mia. Così scrivemmo quella canzone, sapevamo già che gente come Cheney ci avrebbe trascinati in una guerra. Il nostro messaggio era, ed è tuttora, quello di parlare, dialogare, cercare di comprendere le ragioni dell’altro. Non credo che le bombe abbiano mai risolto nulla, se non peggiorato le cose.

Ora purtroppo abbiamo alla Casa Bianca una situazione ancora più complicata rispetto ai tempi di Bush jr e Cheney, potenzialmente più pericolosa. Ci chiediamo come ci siamo arrivati. Non so come sia percepita dall’Italia, ma qui c’è un gruppo di persone su cui hanno fatto presa discorsi forti, persone che vivono in comunità rurali, cittadine di provincia, nel mid-west. Brave persone ai quali uno come Trump ha raccontato che riapre le miniere di carbone, ma non è realistico, il carbone è superato, però ha detto loro quello che volevano sentirsi dire e loro lo hanno votato. Bisogna considerare che molti non viaggiano o non hanno la possibilità di farlo perché è costoso, non sono mai stati in Europa o in Asia e questo restringe le prospettive.

E d’altra parte spesso chi viene negli Stati Uniti va a New York, Los Angeles, San Francisco o Chicago, difficilmente va in North Dakota. Il tutto si fonda sull’ignoranza e sulla condiscendenza, Trump dice che tutti possono tenersi tutte le armi, così la National Rifle Association lo vota. E’ la stessa cosa della Brexit, nessuno pensava che gli inglesi volessero lasciare l’Unione Europea, eppure c’è stata abbastanza gente che è andata a votare per farlo. Anzi in realtà non è proprio lo stesso, perché Hillary Clinton ha avuto quasi tre milioni di voti più di Trump. Forse dovrei scusarmi per conto del mio paese.

Come è nato il tuo coinvolgimento in ‘Playing For Change’? Anche questo progetto mette in relazione musicisti di diverse parti del mondo.
Mark Johnson, l’ideatore del progetto, è un ingegnere del suono ed ha lavorato a diversi miei dischi, The Door e anche quello che hai citato prima, Peace… Back By Popular Demand. Mi ha parlato di questa idea che aveva avuto di viaggiare, partendo che so da Santa Monica e far registrare insieme musicisti diversi, per unire le persone, metterle in connessione. Mark è una persona molto entusiasta, appassionata, anzi forse l’ho assunto per i miei dischi proprio per questo motivo, non fraintendermi è un ottimo ingegnere del suono. Ma è una persona di gran cuore e credeva davvero nelle potenzialità di ‘Playing For Change’. Ora è importante continuarlo perché è un progetto che porta buone vibrazioni in ogni parte del mondo in cui vanno a suonare, mette in evidenza ciò che ci rende umani. Ed è una cosa davvero impagabile.

Per sostenerlo devolveremo anche una parte del ricavato di TajMo a ‘Playing For Change’. Mettere le persone in contatto tra loro, essere aperti verso gli altri, è quello che dovremmo fare tutti. Parlare, comprendere i bisogni delle persone, la diplomazia, invece che spendere milioni di dollari in bombe da lanciare sul Medio Oriente, sarebbe anche molto più economico della guerra. Ma chi governa in genere è guidato dall’avidità e questo determina altre priorità. Ora mi fermo, in fondo sono un musicista, non un politico. Ci vorrebbero più persone con la stessa attitudine, disposte ad ascoltare, a negoziare e a prendersi tutto il tempo che serve per farlo.

Hai anche prodotto dischi per altri artisti quali i Subdudes, Arthur Adams o Sweet Pea Atkinson, qual è il tuo approccio alla produzione?
Il disco di Atkinson non è  ancora uscito e non ne conosco la ragione, è un disco soul di cui eravamo entrambi soddisfatti. Ho parlato con la casa discografica e so che a loro era piaciuto, il disco doveva uscire su Blue Note, ma forse non sapevano bene cosa farne. Ed è curioso perché l’anno scorso è uscito un disco soul come quello di William Bell, che ha finito per vincere il Grammy nella categoria ‘Best Americana Album’!

Le case discografiche tendono a rifare quello che ha già funzionato, non prendono rischi se non vedono come etichettare un prodotto e a volte dischi come questo ne fanno le spese. In generale il mio approccio alla produzione è di mettermi al servizio di un artista, onorare la sua visione. Ora sto lavorando con Rebecca Correia, pianista e chitarrista originaria di Boston, voglio semplicemente che sia felice della sua musica. Ho collaborato anche con Ronnie Baker Brooks, stavamo lavorando ad un suo disco prima che uscisse quello prodotto da Steve Jordan. Il suo management ha deciso di fare il disco con Steve Jordan ed è una decisione che rispetto, Steve è un ottimo produttore, ma spero che con Ronnie potremo finire il disco che avevamo iniziato insieme.

Lavorare con altri artisti mi piace, cerco di mettermi a disposizione, cerco di creare un ambiente in cui i musicisti si sentano a proprio agio e poi soprattutto di ascoltare. Con i Subdudes andò molto bene, ci conoscevamo già e le cose in studio con la band hanno funzionato, furono contenti del risultato. In un certo senso è come se i gruppi abbiano bisogno di un produttore più di un artista singolo, perché c’è un confronto continuo tra i componenti ed è importante avere qualcuno di esterno che media e mette d’accordo tutti. Amo ancora quel disco, incisero anche una mia canzone, piuttosto divertente, Social Aid And Pleasure Club.

James Cotton è mancato qualche settimana fa, tu hai suonato nel suo ultimo disco, Cotton Mouth Man, cosa ricordi di quell’occasione?
James non cantava negli ultimi anni e perciò quando Tom Hambridge mi ha chiamato per il disco, la mia preoccupazione è stata di essere fedele alla sua musica, diventare una sorta di surrogato delle sue corde vocali. L’ho presa molto seriamente, ed è stato un onore suonare con James Cotton.

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 139, 2017

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