I Dieci Migliori Dischi Degli Anni Novanta

I dieci migliori dischi country degli anni ’90 secondo Fabrizio Salmoni.
Avete seguito di recente sui giornali italiani, specializzati e no, gli alti lamenti dei signori critici musicali sul fatto che non ci sono più buoni dischi da comprare, che non c’è più una melodia riconoscibile nel ‘rock’ (o in quello che si ostinano a chiamare tale), che ci sono pochi ‘cantanti’ che sappiano veramente cantare, che i migliori sono ancora le vecchie stars (Clapton, Led Zeppelin, etc), che le case discografiche sono ‘cattive’, incompetenti, e così via? Ebbene, per una volta fa piacere, a noi appassionati di country music, contrapporre la nostra situazione e dire loro: Cari Signori, siete ignoranti e ciechi nei vostri pregiudizi; siete proprio come i discografici italiani: svogliati e pigri. Restate pure nel vostro orticello che non sapete datare più indietro degli anni ‘60, e beccatevi Gazosa, Africa United, Elisa e qualche ridicola copia nostrana di rappers. Ve li meritate.

Noi, country fans, viviamo invece in una costante ansia d’acquisto per cancellare dalle nostre chilometriche liste dischi il cui numero sembra aumentare esponenzialmente nel momento in cui ne compriamo uno e ce lo mettiamo sul lettore tutti goduti. Sì, ce n’è di belli e di brutti, ma tra Nashville, Austin, Clinch Mountain, Bakersville e l’infinito numero di produzioni locali e indipendenti (senza contare il roots rock, o l’alt. country o le mille contaminazioni tra i generi originali), non sappiamo più come far fronte alle sollecitazioni ed i dischi brutti, posso azzardare, nei nostri scaffali sono al massimo un 20%.

Tra il 1985 e il 1995 poi è stata una stagione discografica decisamente buona per la country music. Mi sembrava di essere negli anni 1964-1969 in cui la minuscola scena beat britannica degli inizi (Beatles, Rolling Stones e Who) si ampliava velocemente a nuovi protagonisti e si riusciva a tenere dietro alle uscite di tutti sempre più a stento.Non per nulla è particolarmente difficile scegliere 10 dischi degli anni ‘90. Di primo acchito ne ho elencati una trentina ma visto che è un gioco, mi sono divertito a ‘stringere’ non senza qualche patema.

Quali sono i migliori? Bè, in primo luogo, direi, quelli che non hanno una canzone che si discosta per qualità dalle altre: devono essere tutte belle. Alcune difficoltà a discernere vengono talvolta dai dischi di cantautori, in cui le canzoni, pur belle, hanno un che di noioso rispetto a quelle di scuderia discografica, sia per causa intrinseca (l’uniformità della fonte creativa) sia probabilmente per il fatto che il criterio di selezione dei brani tende a privilegiare la ‘qualità’ alla ‘gradevolezza’ intesa come ‘facilità di ascolto’. Mi viene in mente, come esempio di tale casistica, Any Saturday Night In Texas, il live di Chris Wall del 1996, assolutamente piacevole, belle canzoni, ma con il difetto di generare una certa stanchezza di ascolto relativamente presto.

Ho tenuto fuori un disco come Bluegrass Rules (1997) di Ricky Skaggs, solo perché la selezione riguarda la country music e mi è dispiaciuto non includerne almeno uno di George Strait (Carrying Your Love With Me era il candidato) o uno qualsiasi di Alan Jackson ma le regole e lo spazio sono tiranni.

Un’annotazione: tra i dieci scelti ce n’è solo uno di interprete femminile. Non credo di essere misogino. Ho l’impressione che le donne della country music abbiano dei limiti di repertorio e che troppe di loro (o forse i loro produttori) siano inclini alla contaminazione col pop. Detto questo, ecco la mia selezione in ordine cronologico di pubblicazione.

GARTH BROOKS, No Fences (Capitol, 1990)
Pur riproponendo alcuni brani già comparsi nel primo, Garth Brooks del 1989, No Fences è l’album della definitiva affermazione del nostro. Che dire che già non si sappia? Forse solo che per l’inconsueta fattura dei brani e per la vitalità espressa in disco e nei concerti sia nata quella che a mio parere è stata un’infondata accusa di distacco dalla tradizione. E a posteriore conferma di ciò, si pensi ai veri ‘tradimenti’ delle Shania e delle Faith Hill che hanno accettato di ri-arrangiare i loro brani ad uso del mercato europeo. Tra i brani, come non considerare The Dance un piccolo-grande capolavoro per l’intensità dell’interpretazione e per il testo? Se la capacità di trasmettere emozioni è una delle prime caratteristiche della country music, Garth non può che stare nel novero dei grandi. Per non parlare di Tomorrow Never Comes e della mia preferita, la poco citata Wolves che dipinge con partecipazione la tragedia dei piccoli agricoltori di fronte alla crisi economica ed alla impietosità delle intemperie in uno scenario di bellezza naturale di grande effetto.

KEITH WHITLEY, Kentucky Bluebird (RCA, 1991)
Questa collezione postuma di canzoni prevalentemente non pubblicate di Whitley non poteva essere migliore addio, a due anni dalla sua scomparsa. Testimonia il suo livello interpretativo e la sua scelta definitiva di dedicarsi ai temi sentimentali della più pura tradizione honkytonk: amori persi e conquistati, solitudini, cuori spezzati e duro lavoro. Accanto alla sua firma ne compaiono altre di altrettanto peso: Troy Seals, Verlon Thompson, Paul Overstreet, Kix Brooks, Whitey Shafer, Hank Cochran e simile compagnia di gran lusso per 11 brani tra cui è difficile scegliere. Notevole la versione di I Never Go Around Mirrors, il weeper Between An Old Memory And Me a firma Charlie Craig e Keith Stegall e l’appassionata Would These Arms Be In Your Way con Emmylou Harris alle harmonies. La bella voce baritonale, un po’ gutturale, tocca tutte le corde del cuore percorrendo alternativamente gli alti e i bassi che costruiscono pathos e emozioni. La mia preferita? Il duetto con Earl Thomas Conley, Brotherly Love, un inno all’amore tra fratelli costruito con gli episodi dell’infanzia che si ripetono all’arrivo della generazione seguente. Una celebrazione della vita che non sembra provenire da uno che ci aveva già lasciato.

ASLEEP AT THE WHEEL, Tribute To The Music Of Bob Wills (Liberty, 1993)
Per un Texas lover come il sottoscritto non poteva esserci miglior regalo che questa egregia escursione nel tempo in omaggio al ‘re’ del western swing, a tutt’oggi influente ispirazione e presenza spirituale per ogni artista del sud-ovest. Con un occhio saggiamente rivolto, più che al mercato, all’establishment di Music City, Ray Benson e compagnia inventano il coinvolgimento dei migliori e più illustri colleghi con obiettivo la piena accettazione e il definitivo riconoscimento presso gli ambienti che contano. Obiettivo conseguito parzialmente perché, malgrado gli elogi ed un posto da allora assicurato in platea per Ray Benson, l’Award annuale della CMA andrà a Common Thread: The Songs Of The Eagles. I ragazzi si aggiudicano invece l’Award dell’Academy (ACM). Non sappiamo delle vendite se non che è il loro definitivo best seller. L’album è veramente bello per le pregevoli esecuzioni più ancora che per le partecipazioni ed ha il merito di ravvivare la tradizione per le attuali generazioni.

VINCE GILL, When Love Finds You (MCA, 1994)
Quando voglio convincere qualcuno che la country music sa essere ritmo e allegria, tra le canzoni che faccio ascoltare ci sono What The Cowgirls Do e South Side Of Dixie (co-firmata da Delbert McClinton!) da questo album che raggiunse a suo tempo il terzo posto in classifica country ma anche, ebbene sì, i Top Ten Pop. Non per niente la critica si divide e c’è chi come Dan Cooper su All Music Guide dice: “…Quel Vince Gill…sì, è un bravo ragazzo ma a questo punto vorremmo un po’ più di cattiveria da lui”. Sì, è vero, Vince sa essere noioso ma trovo che in lui la country music trovi il campione della perfezione ed una voce senza uguali. L’album poi è suonato da signori musicisti che si lasciano andare a preziosismi e tocchi sfiziosissimi. Basti segnalare il lavoro di rullante di Carlos Vega che dà tono ad una ritmica già incalzante in South Side Of Dixie, il piano incalzante di John Barlow Jarvis e gli asolo chitarristici di Gill stesso.

TRACY LAWRENCE, I See It Now (Atlantic, 1994)
Non so quante volte ho ascoltato questo disco, conquistato dalle canzoni e dalla voce particolare di Lawrence. Un talento che gode di grande popolarità presso il pubblico e conta una lunga serie di hits ma che finora non è stato pienamente gratificato in Music Row. Una voce che non è facile da ‘accettare’ immediatamente ma che arriva a toccare tutte le corde del cuore se solo ci si fa l’orecchio. Un pò chioccia e nasale ma calda e capace di inflessioni twangy che solo chi ha anima country (e un accento texano come il suo) possiede. E poi le storie che racconta sono quelle che mi piacciono: nostalgie rurali (If The World Had A Front Porch), passionalità (Hillbilly With A Heartache, gran duetto con John Anderson), sentimento (la title track, I’d Give Anything To Be Your Everything Again, Texas Tornado), cuori spezzati (As Any Fool Can See, The Cards) ed i soliti Eddie Bayers, Steve Nathan, Paul Franklin e compagnia suonante che interpretano alla perfezione lo spirito che pervade tutto l’album.

BILLY JOE SHAVER, Live At Smith’s Old Bar (Zoo/Praxis, 1995)
Un disco anomalo per il vecchio cowboy; un country-punk, con la firma del compianto Eddy, che non perde l’anima hard core country-outlaw ed allo stesso tempo lo propone ad un pubblico più ampio, quello del circuito alt. country. Molto è stato già detto dai critici sullo stile chitarristico dello Shaver Jr.; evidente è la marca texana del suono acido e robusto che rimanda ai fratelli Vaughan, a Larry Joe Taylor, al tortuoso Johnny Winter, in versione attuale. Se Eddy prende il sopravvento per irruenza, il grande vecchio non perde colpi e anche le sue solite canzoni riprendono vigore, quasi una nuova identità. La voce sfodera una grinta impressionante, ti prende per il bavero e ti trascina negli angoli più turbolenti dei peggiori honkytonks. Fumo, sudore, birra, whiskey e jalapenos. L’ambiente naturale per iniziare un concerto con un brano come The Hottest Thing in Town. Strepitosi il riff introduttivo ed il testo (She’s the queen of the red-hot mamas…). A mio parere, il miglior album del nuovo corso che si conclude con l’ultima comparsa di Eddy nel più recente Earth Rolls On.

HEATHER MYLES, Highways And Honkytonks (Rounder, 1998)
Mi ha entusiasmato quanto mi aveva deluso il precedente Untamed. Puro californian country anche nella line-up di musicisti tra cui, naturalmente, Pete Anderson. Una voce che viene dal profondo del cuore, appassionata, leggermente imitativa di quella di Buck Owens (quanto volutamente?). Brani quasi tutti suoi tranne la Kiss An Angel Good Morning, sottratta a Charlie Pride ma fatta definitivamente ed egregiamente sua, e lo shuffle ‘storico’ I’ll Be There If You Ever Want Me del grande Ray Price. Se la persona non ispira enorme simpatia per quell’aria un pò da ricca viziata non si può tuttavia negarle talento e comunicativa ed il merito di aver scelto la tradizione e di saperla interpretare in modo fresco, attuale e coinvolgente. Le perle del disco mi sembrano No One Is Gonna Love You Better, duetto con un rilassato Merle Haggard e Playin’ Every Honky Tonk In Town un altro shuffle il cui titolo dice tutto. Interessante True Love, anomala rispetto alle altre per l’andamento dylaniano rafforzato da un organo (Skip Edwards) in primo piano.

GARY ALLAN, It Would Be You (MCA, 1998)
Secondo album di uno dei più recenti neotradizionalisti che abbiamo appena avuto il piacere di vedere sul palco della Country Night. Migliore del primo, Used Heart For Sale, per la maggiore grinta esibita e per il materiale più valido ed omogeneo. La scelta stilistica è sempre honky tonk e Bakersfield sound e relativi soggetti tematici. Il tocco vincente è la voce: calda, sensuale e rasposa con quel pò di nasalità sui bassi a sottolineare i picchi emozionali. Mi ripeto anche, da un precedente articolo, ma l’incipit di It Would Be You ha pochi uguali. C’è sempre un che di nostalgico e romantico in quella voce, perfetta per corteggiamenti canori come la title track e I Ain’t Runnin’ Yet o addirittura per fughe preventive con lusinga (No Man In His Wrong Heart), per addii appassionati (It Took Us All Nigh Long To Say Goodbye) e altrettanto appassionate nostalgie (Forgotten But Not Gone). C’è anche una cover di Conway Twitty (She Loves Me, She Don’t Love You) resa alla perfezione. Insomma, non saprei quale delle 11 canzoni ( più una nascosta) consigliare. Tra gli autori che contribuiscono ai testi, Marty Stuart, Bob McDill, Kostas, Brent Moyer, Gary Nicholson e Jamie O’Hara. Assolutamente da avere.

KRIS KRISTOFFERSON, The Austin Sessions (WEA/Atlantic, 1999)
Di lui già sappiamo tutto e l’abbiamo sempre amato e considerato uno tra i dieci più grandi autori americani. Pittore di paesaggi e di atmosfere, cantore di solitudini e di amori romantici, pellegrino e predicatore. Nella vita, roughneck, elicotterista, attore interprete di personaggi che sono tutt’uno con il West di ieri e di oggi. Tutto di lui è nelle sue canzoni il cui nucleo più solido è riprodotto in questo CD registrato in due giorni tra un impegno e l’altro agli Arlyn Studios di Austin,Texas, dopo una registrazione a Austin City Limits. I brani sono ri-arrangiati rispetto alle versioni originali ma, se possibile, sono ancora più gradevoli per raffinatezza e feeling. Otto su dodici vedono la partecipazione alle harmonies di amici eccellenti (Jackson Browne, Steve Earle, Matraca Berg, Marc Cohn, Vince Gill, Alison Krauss, Catie Curtis, Mark Knopfler) e di musicisti che danno l’impressione di essere stati scelti per garbo, sintonia e compatibilità con l’autore ed il repertorio più che per i nomi: Stephen Bruton, Joe Spivey, Paul Franklin, Larry Paxton, Jim Cox, Mike Baird. L’atmosfera è rilassata, si sentono commenti e risate. La voce, profonda e imperfetta, ha il fascino di chi ti racconta con semplicità e senza presunzione com’è la vita, le sue miserie, le sue tentazioni e le sue piccole-grandi gioie: un amico a cui parlare, un bicchiere di birra quando la gola è secca, una donna da amare, la paura del futuro e una buona dose di fede per tirare avanti. Grande Kris, ci fai stare bene, ci fai commuovere e ci fai pensare.

BRAD PAISLEY, Who Needs Pictures (Arista, 1999)
Vincitore dell’ Horizon Award 2000 dedicato alle grandi promesse, in realtà il giovane Brad con Who Needs Pictures è già una star. Probabilmente la vera, nuova star che la Nashville tradizionale contrappone agli ‘innovatori’. Non un pirotecnico Garth Brooks ma un pacatissimo grintoso che riversa energia, freschezza, e gran gusto sia in musica che nei testi. Che sia un egregio chitarrista lo si capisce dalla tecnica più che peculiare, un picking fluido e ritmico allo stesso tempo: sentire lo strumentale The Nervous Breakdown ma anche come affronta lo swing. E’ anche ottimo autore con la gradevole tendenza ad essere spiritoso: Long Sermon, Me Neither, It Never Woulda Worked Out Anyway, Sleepin’ On The Foldout appartengono al filone brillante. Ma visto che per una country song ci vuole anche tanto cuore, ecco We Danced, Who Needs Pictures , Holdin’On To You ed il single #1 He Didn’t Have To Be in cui affronta con grande garbo e sentimento il tema dell’adozione vista attraverso gli occhi del bambino. La voce non ha apparentemente caratteristiche rilevanti ma è semplicemente giusta, anzi perfetta, per le sue canzoni. E se la raffinatezza non è sempre di casa a Nashville, Brad la offre a piene mani. C’è da augurarsi che continui così ma intanto constatiamo con soddisfazione che Nashville, pur tra alti e bassi, pur in un momento di stagnazione come l’attuale, è sempre capace di trovare e proporre veri talenti. E questo ci rassicura alquanto.

Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 60, 2001

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