Storia del five string banjo

Quella che genericamente chiamiamo ‘musica country’ americana ha, paradossalmente, le sue radici altrove. In realtà tutta la cultura americana è, oltre che poliglotta, non-indigena. Della unica, vera cultura indigena americana, quella indiana, non è rimasto più nulla dopo il genocidio che ha eliminato quasi completamente un popolo dimostratosi talmente ‘scomodo’ da giustificare, agli occhi ed alla coscienza dei bianchi, un massacro che ha pochi equivalenti nella storia.
La musica country, dunque, nasce dalla fusione, in suolo americano, di una serie di elementi e tradizioni le più varie. Un ruolo fondamentale è stato svolto da due strumenti che sono un po’ i simboli della country music, perlomeno di quella più genuina: fiddle e banjo.
Il fiddle venne introdotto in America fin dall’epoca delle prime emigrazioni dall’area anglo-scoto-irlandese e da allora ha sempre ricoperto un ruolo privilegiato nella musica popolare americana.

Ed il banjo? Non vi sono dubbi: è stato importato negli Stati Uniti dagli schiavi che, a partire dal 1619, data dell’arrivo in America del primo gruppo di africani catturati sulle coste dell’Africa Occidentale, trasferirono nel Nuovo Mondo parte della loro storia, della loro cultura, dei loro costumi. Portarono anche uno strumento a corde il cui diretto discendente in suolo americano, il five-string banjo, è considerato il più americano degli strumenti musicali diffusi nel Nuovo Mondo.
Mentre tutto ciò è storicamente documentato, molto più complesso è andare indietro nel tempo alla ricerca delle origini di questo strumento. Da un qualsiasi trattato sulla storia degli strumenti musicali si apprende che la presenza di parenti del banjo, più o meno lontani, è diffusa in un’area vastissima. I liuti cinesi piatti, a quattro ed a cinque corde (yuehchyn e sanshyan) hanno la cassa rotonda e ricoperta da una pelle. In Egitto, intorno al 1570 a.C, comincia a diffondersi uno strumento della famiglia dei liuti: detto forse ‘pandora’, aveva la cassa di legno, di forma generalmente oviforme, ricoperta superiormente da una pelle tesa o da una pergamena, che presentava dei piccoli fori di risonanza. Le corde erano due, tre, o al massimo quattro. La pandora rimase in voga nel periodo greco e romano ed ancora oggi si trova in Africa Settentrionale sotto il nome di ‘ganabir’. Probabilmente l’introduzione di uno strumento di tale genere in Africa avvenne per mezzo degli Arabi, che lo usavano nelle regioni della costa occidentale, avendolo ereditato essi stessi da civiltà precedenti.

Anche gli antenati del liuto arabo (che era di legno) erano strumenti con tavola armonica di pergamena. Ricordiamo il ‘rebec’, nato in Arabia più di un migliaio di anni fa e presente ancora oggi in Medio Oriente. Consiste di una pelle tesa sopra una zucca o una cassa cava, un manico e tre corde di budello. La sua diffusione cominciò con l’espandersi dell’Islam nel VII secolo dopo Cristo. In Arabia vi erano anticamente anche numerosi tipi di pandora.
Se è difficile tracciare la stona del banjo fino ai tempi della sua introduzione in America, altrettanto complesso è ricostruirne le vicende successive. Innanzitutto non vi sono sufficienti fonti scritte alle quali attingere informazioni. I primi viaggiatori che sbarcarono in Jamaica nel 1688, ad esempio, parlano di ‘banjos’ suonati dagli schiavi neri, ricavati da un tronco ricoperto da pergamena, ma la descrizione farebbe pensare più a strumenti a percussione che a corde.
La documentazione più rilevante è contenuta nelle Notes On The State Of Virginia redatte nel 1781 da Thomas Jefferson, il quale, oltre ad essere uomo politico di rilievo, era uno studioso ed un profondo conoscitore di musica. Egli chiama ‘banjar’ lo strumento tipico degli schiavi neri delle piantagioni, notando che essi lo denominavano ‘banjer’: aveva quattro corde accordate come le quattro più basse della chitarra.

Ma già nel 1774 nel Diario di Nicholas Cromwell vengono descritti schiavi del Maryland che danzano al suono di un banjo ricavato da una zucca vuota, “qualcosa che voleva essere una chitarra, ma con sole quattro corde”. Ed ancora, altrove si incontrano descrizioni incomplete che si riferiscono sempre a strumenti con tre o al massimo quattro corde.
Ma prima di passare alla nascita della quinta corda, esaminiamo la versione di LeRoi Jones nel suo libro Il Popolo Del Blues, che contrasta nettamente con tutte le fonti precedenti. Secondo Jones la diffusione tra i neri di questo strumento e di tanti altri si verificò solo dopo l’emancipazione, formalmente sancita nel 1863 con l’abolizione della schiavitù proclamata da Lincoln. In precedenza gli schiavi possedevano raramente strumenti musicali, a parte quelli di tipo percussivo costruiti su modelli africani. Le illustrazioni, che dopo la Guerra Civile cominciarono a circolare sulle pagine dei romanzi, sono per Jones storicamente false. “Il negro spensierato che strimpella sotto il sole il suo banjo, seduto su una balla di cotone, non corrisponde certo alla realtà. A parte che difficilmente uno schiavo aveva il tempo di sedersi su una balla di cotone, gli unici strumenti comuni tra gli schiavi erano tamburi, raganelle, tamburelli, scrapers (una mandibola di cavallo sfregata con un pezzo di legno) e cose simili; anche uno strumento africano come il banjo era rarissimo e la chitarra divenne comune solo parecchio tempo dopo la Guerra Civile”.

Da notare comunque che, pur negando alcuni aspetti a suo avviso stereotipati e falsi, anche LeRoi Jones riconosce la paternità africana al banjo. D’altra parte la diffusa idea che si aveva del “… negro spensierato che strimpella sotto il sole il suo banjo…”, se pure non ha fondamenti storici, è perlomeno giustificata dalla falsa immagine che del nero avevano diffuso in tutti gli Stati Uniti (ed anche in Europa) gli spettacoli dei ‘Negro Minstrels’. I Minstrels erano bianchi che, volto dipinto di nero e banjo tra le mani, cominciarono a percorrere gli Stati Uniti verso il 1840-50 con i loro spettacoli di improvvisazione teatrale su canovacci tradizionali. Il loro idioma musicale era sicuramente più vicino alla ballata inglese, alla marcia ed all’inno, piuttosto che alla musica nera. La loro scarsa conoscenza del nero del Sud produsse tali deformazioni.
“Tutto il fenomeno dei Minstrels è schizoide, come l’atteggiamento dell’America nei confronti della minoranza negra. I comici ritratti del negro disegnati con sughero bruciato erano a un tempo pieni di simpatia ma anche denigratori. Essi lasciavano nei ricordi del pubblico due diverse immagini. Una era quella del sempliciotto di buon cuore, che si muoveva come una marionetta, goffo, ma che paradossalmente poteva, tutto a un tratto, esibirsi in intricati passi di danza o far parlare il banjo. L’altra era quella del ‘Negro Dandy’, che indossava i vestiti dei suoi ‘padroni’ bianchi in modo così assurdo e con tanta grottesca solennità da divertire enormemente il pubblico” (Rudi Blesh & Harriet Davis: They All Played Ragtime).
I neri avevano dunque più di un motivo per abbandonare progressivamente il banjo: la scarsità di strumenti musicali nelle piantagioni, il limitato tempo libero a disposizione dopo il lavoro nei campi di cotone, il rifiuto di identificarsi con l’immagine parodiata che il padrone bianco diffondeva con i minstrel-shows.

La conclusione è che nell’Ottocento il banjo, da strumento afro-americano, diviene strumento dei bianchi, al punto che, nella versione a cinque corde, esso è considerato lo strumento nazionale ed una delle più caratteristiche invenzioni musicali americane.
Sulla nascita della quinta corda c’è molto da discutere e poco da concludere con certezza. Innanzittutto l’aggiunta di una corda, posta accanto a quella più bassa ma accordata su una nota molto più alta, può essere fatta risalire agli antichi greci e la si trova anche in altre zone: in Etiopia ad esempio è ancora oggi usata la ‘kèrar’, una lira che presenta questa particolarità. Ciò potrebbe portare elementi a favore della teoria secondo la quale la quinta corda in realtà era già presente nei rudimentali ‘banjar’ degli schiavi delle piantagioni, che l’avrebbero derivata da qualche strumento africano. Ci sono anche testimonianze di viaggiatori tra le popolazioni rurali di sangue misto di alcune zone del Sud America, che datano intorno alla metà del Settecento, e che riferiscono di uno strumento che sembrerebbe esattamente un banjo a cinque corde. Al Victoria & Albert Museum di Londra, poi, è esposto un banjo con la cassa a forma di pera, di origine inglese o americana; ma la data di costruzione presunta dello strumento varia tra la fine del Settecento ed il 1840.

Su queste ipotesi purtroppo non c’è possibilità di costruire conferme e non sarebbe quindi corretto andare alla ricerca di suggestive conclusioni. La tradizione americana narra che è stato proprio dagli schiavi delle piantagioni che colui che viene considerato l’inventore della quinta corda, Joel Walker Sweeney, avrebbe copiato quel particolare che aprì nuove strade ed offrì nuove possibilità ritmiche e melodiche al banjo a quattro corde, fino a quel momento più diffuso tra i bianchi e tra i neri.
Volendo attribuire a Sweeney la paternità della quinta corda, la si può far risalire al 1831-33. E’ in quel periodo, infatti, che essa diviene uno standard ed è da allora che il banjo comincia la sua evoluzione tecnica e stilistica.
E’ molto interessante, a proposito di Sweeney, riportare la testimonianza di tale Harold Marcum, da Scott County, suonatore e costruttore di banjos e dulcimers: questo è ciò che ricorda della narrazione che faceva suo nonno sull’origine della quinta corda. “Circa il 1840. Io non so chi fosse quel tipo, ma aveva un nome. Lo chiamavano un ‘fixer’. Venne giù guidando un carretto a due ruote con una coppia di buoi e costruiva campanelli per mucche, intagliava cortecce di meli, accordava pianoforti, lavorava l’argento. Lo chiamavano un ‘fixer’. Aveva alcuni banjos, era lui stesso un suonatore di banjo. Andava mettendo la quinta corda su questi banjos. Faceva un foro da un lato e la metteva dentro a quel modo. Mio nonno gli diede quindici cents ed un vecchio coltello Barlow, perché gli mettesse la quinta corda su quel banjo. Aveva anche corde da pianoforte; forniva corde e mostrava come montarle ed accordarle. Questo succedeva tra il 1840 ed il 1843 … Mio nonno non nominò mai il nome del ‘fixer’, ma quell’uomo era Joe Sweeney, secondo quello che si legge nei libri. Joe Sweeney veniva dalla Virginia e dal Kentucky e metteva la quinta corda sul banjo. C’è la possibilità che si trattasse dello stesso uomo”.

L’uso del five-string banjo si è sviluppato in differenti settori della musica americana.
Nello stile ‘classical’ il banjo è stato usato in maniera decisamente ‘non folk’, con tanto di partiture per orchestra, rinuncia a qualsiasi tipo di plettro, uso di corde di nylon piuttosto che di metallo, stile arpeggiato della mano destra. Esiste addirittura ancora oggi una ‘American Banjo Fraternity’ che serve da punto di riferimento per tutti i musicisti e gli appassionati di questo stile.
Il più antico stile popolare è quello nato nei minstrel-shows. Sembra ormai accertata la sua derivazione dallo stile usato dagli schiavi delle piantagioni. Dissuaso, nel corso del lungo processo di ‘americanizzazione’ del quale fu soggetto ed oggetto, dal conservare le proprie tradizioni culturali, il nero ormai americano utilizzò il caratteristico stile sincopato della propria musica per adattarvi quella che ascoltava dai bianchi, per i quali spesso era costretto a suonare: musica da ballo di origine britannica. Ripreso dai musicisti bianchi che si esibivano nei minstrels, questo stile divenne molto popolare. Dalle descrizioni che se ne fanno si deduce che richiedeva l’uso dei soli pollice ed indice, il quale ultimo era a volte rinforzato dall’uso di un plettro metallico; uno stile che oggi chiameremmo ‘double thumbing’.

Ma gli stili più interessanti, sui quali è basata tutta la successiva evoluzione dello strumento, si svilupparono nell’area delle montagne del Sud-Est. Il banjo five-string si diffuse nella regione in un periodo non ben definito; comunque verso il 1880 aveva già acquistato una posizione di rilievo. Avendo alle spalle la tradizione dei minstrels, venne adattato a tutta la musica popolare eseguita nell’area (ballate, musica da danza, canzone lirica) mantenendo la caratteristica accentazione sincopata. Lo stile usato inizialmente è ancora il double-thumbing in cui al pollice è affidato il compito più importante: suonare sia la quinta corda sia le note della melodia sulla seconda, terza e quarta corda. I musicisti delle montagne cominciarono a prediligere lo strumento per la presenza della quinta corda, il cui uso ripetuto e costante di bordone (ma su una nota acuta, al contrario di quello che si trova di solito in altri strumenti), producendo dissonanze, divenne l’ideale per l’esecuzione della musica da ballo e delle antiche ballate modali inglesi. Ma lo stile della mano destra, che diventò distintivo degli Appalachi per originalità e caratteristiche ritmiche, il ‘clawhammer’ o ‘frailing’, era eseguito colpendo le corde con il dorso dell’unghia del dito indice piuttosto che pizzicandole, ottenendo così anche un notevole effetto percussivo.
All’incirca dal 1880 questo stile si fissò nella tradizione della regione, e salvo le sue moderne modifiche in senso melodico, è sopravvissuto e continua ad essere attuale ancora oggi. Oltretutto sulla base ritmica fornita dal banjo suonato in ‘clawhammer style’ si inseriva quasi naturalmente il fiddle, con le sue spiccate caratteristiche melodiche, portando alla nascita delle string bands.

Nello stesso periodo nacque l’abitudine di accordare il banjo in modi differenti: esigenza suggerita dalla possibilità di eseguire la musica modale senza dover assumere sulla tastiera posizioni difficili che avrebbero posto limitazioni allo sviluppo della linea melodica. Queste accordature, dette ‘aperte’ in quanto l’accordo relativo alla tonalità del brano veniva eseguito a corde vuote, si moltiplicarono, al punto da dar luogo ad accordature personalizzate, utilizzate a volte per un solo brano. Questa semplificazione rese possibile ai banjoisti l’esecuzione della linea melodica senza trascurare il vigoroso ed essenziale apporto ritmico.
Non bisogna però pensare al banjo come ad un supporto o ad una integrazione del fiddle; esiste sugli Appalachi anche una solida tradizione di ‘banjo solo’ con un repertorio specifico e d’altra parte le molteplici possibilità dello strumento sono ampiamente dimostrate dai suoi più recenti sviluppi.

Negli Stati Uniti vengono chiamati ‘string bands’ quei complessi musicali nei quali compaiono esclusivamente strumenti a corde (chitarra, banjo, fiddle, mandolino, etc.) ed il cui repertorio attinge alla tradizione, sia come scelta di brani che come stile di esecuzione. E’ difficile dire quando nasce la prima string band: probabilmente nel momento in cui si forma il duo banjo-fiddle, che costituisce il nucleo, il perno delle attuali bands. Nonostante sia improprio chiamare due soli strumenti una ‘band’, il duo assume una posizione chiave nello sviluppo della musica rurale del XIX secolo, saldando definitivamente le tradizioni musicali angloamericane con quelle afro-americane.
In effetti esistono documentazioni di balli pubblici eseguiti dal duo banjo-fiddle, suonati da musicisti neri, che risalgono al 1770: ma è impossibile formulare fondate ipotesi sugli stili strumentali e sui repertori. Di certo si è visto come l’introduzione del banjo five-string nelle montagne e la sua utilizzazione come strumento di accompagnamento del fiddle nei balli rurali risalgano agli ultimi decenni del secolo scorso e si fissino poi nella tradizione della regione. Il repertorio, di sapore modale, era sempre basato sulle fiddle-tunes e su rielaborazioni delle vecchie ballate e canzoni liriche tradizionali; la musica eseguita dalle string bands era soprattutto musica da ballo, il quale ultimo aveva un grosso peso e funzione sociale nella vita delle popolazioni rurali.

Inizialmente la parte più complessa era affidata al fiddle, mentre il banjo forniva soprattutto una base ritmica. Caratteristica comune era l’uso di bordoni, ottenuti suonando contemporaneamente due corde sul fiddle e pizzicando la quinta corda lungo tutto il brano sul banjo. Questo uso, unitamente a quello delle scale modali sulle quali si sviluppavano i brani, conferiva alla musica quel carattere ‘arcaico’ che costituisce ancora oggi il suo sapore più autentico. Ma quello che contraddistingueva in modo particolare la musica delle string bands era l’accentazione del ritmo, il cosiddetto ‘driving’, ottenuto con uno stile particolarmente percussivo di banjo e con l’accentazione mediante l’archetto del fiddle, che rafforzava gli ‘off-beats’.
L’affascinante fusione dei due strumenti divenne tanto naturale che musicisti provenienti dalla stessa area erano in grado di suonare insieme per ore, senza problemi, al loro primo incontro. E la complementarietà ma non nello stesso tempo l’autonomia dei due strumenti costituiscono l’aspetto più caratteristico della musica tradizionale del duo.

La musica per banjo-fiddle rimane rigorosamente modale fino all’inizio di questo secolo, quando si assiste all’introduzione nelle Southern Mountains di un nuovo strumento: la chitarra. Questa aveva conquistato un certo spazio e popolarità nei salotti ottocenteschi, grazie soprattutto alla sua versatilità; la sua diffusione venne favorita e sostenuta dalla presenza, a partire dal 1890, nei cataloghi della Sears & Roebuck, la nota ditta di spedizioni ‘mail order’.
La chitarra produce una vera e propria rivoluzione nella musica delle montagne: innanzitutto attraverso il progressivo abbandono della musica modale, per la quale questo strumento risulta poco adatto, e la definitiva impostazione temperata maggiore/minore. La chitarra è inoltre veicolo di stili strumentali (il blues, il finger-picking, l’uso di accordi) che influenzano sia banjo che fiddle: soprattutto per quanto riguarda l’uso di accordi sul banjo, fino a quel momento strumento melodico e ritmico. E’ da sottolineare che, soprattutto nelle regioni più isolate, sopravvive un repertorio di solo banjo e solo fiddle, spiccatamente modale, come dimostrano le prime registrazioni commerciali di musica appalachiana degli anni ’20. Ma, tornando alle innovazioni apportate dall’introduzione della chitarra, la più notevole è la definizione di ruoli precisi all’interno delle string bands: la chitarra, con una funzione soprattutto ritmica, a segnare con le corde basse i tempi forti; il fiddle a ricoprire il ruolo di strumento melodico principale; il banjo, con la doppia funzione, melodica e ritmica, a sottolineare ed abbellire la melodia principale suonata dal fiddle.
Le prime incisioni discografiche degli anni ’20 erano di solisti di fiddle e di cantanti: l’interesse dell’industria si sposterà verso le string bands solo più tardi.

La prima incisione in assoluto di una band, il duo banjo-fiddle composto da Riley Puckett & Gid Tanner, risale al marzo del 1924. Con l’espandersi del mercato discografico, gli stili strumentali cominciarono a standardizzarsi mentre i ritmi delle dance-tunes divennero più lenti. Una evoluzione di questo tipo si era effettivamente dimostrata necessaria con l’incremento di popolarità del canto, che aveva reso gli stessi musicisti consapevoli che la loro musica era eseguita ad un ritmo, tipico della musica da danza e dei breakdowns, troppo elevato per permettere una pronuncia distinta e comprensibile. Ascoltando le incisioni dell’epoca, non si può fare a meno di notare come il ruolo principale fosse del fiddle, con il banjo abbastanza presente ma con funzione soprattutto ritmica e la chitarra sacrificata dallo spietato taglio dato alle frequenze medio-alte dalle tecniche di registrazione di allora, che ne facevano emergere solo la linea dei bassi.
Tra i musicisti che negli anni ’20 acquistarono notorietà ed il cui nome è legato al banjo, vanno ricordati Charlie Poole, Dock Boggs ed Uncle Dave Macon: ciascuno per il proprio verso, hanno dato il loro contributo alla storia dello strumento.

Charlie Poole, leader dei North Carolina Ramblers, sebbene morto abbastanza giovane, nel 1931, esercitò una grossa influenza con il suo stile di banjo, che appare antesignano dello stile bluegrass ‘three fingers’, reso in seguito famoso da Earl Scruggs. Dock Boggs, il misconosciuto minatore e banjoista della Virginia, deve la citazione al suo stile, personalissimo sia per l’uso della mano destra che per le scelte melodiche, chiaramente influenzate dal blues dei lavoratori neri delle miniere di carbone. Quanto a David Harrison Macon, il suo nome emerse alla grossa ribalta della Grand Ole Opry di Nashville solo nel 1926, quando Uncle Dave aveva già cinquantasei anni ed un passato di soli dieci anni come ‘entertainer’ nei vaudeville e nei minstrel-shows. Secondo Ralph Rinzler (il noto mandolinista e studioso di folklore) è stato, dopo la Carter Family, il musicista che ha preservato con le sue registrazioni la più grossa quantità di materiale tradizionale. Personaggio dotato di grande umanità, era soprannominato ‘Dixie Dew Drop’ o ‘King of the Banjo Pickers’. Il suo repertorio comprendeva molte folk-songs imparate prima del 1900 dai lavoratori neri delle miniere e delle ferrovie, e nel corso dei suoi viaggi; altre le aveva composte lui stesso.

Gli anni ’30 sono gli anni del declino per il five string banjo. L’interesse del mercato si sposta verso Ovest: Texas, Louisiana, Oklahoma. Sulla scia dello swing nasce e cresce rapidamente la febbre del ballo e con essa il numero di orchestre e di locali dove era possibile ballare al suono di questa nuova, eccitante musica. Ed in Texas l’eterogenea atmosfera musicale che si respirava produsse il western-swing. Nella formazione-tipo delle string bands, presenti con i temi e gli strumenti tradizionali (fiddles, chitarre, dobro), al banjo five-string viene preferito il quattro corde utilizzato nel jazz fin dai tempi di New Orleans. Successivamente si aggiungono a volte il pianoforte, il contrabbasso ed anche intere sezioni di fiati.

Ma per il vecchio five-string le cose non andavano meglio nell’area del Sud-Est. Nelle string bands il repertorio rimaneva abbastanza fedele a quello tradizionale (reels, breakdowns, etc.) mentre le tecniche strumentali, i ritmi, le improvvisazioni sulla linea melodica mostrano le influenze del jazz di Basin Street. In questa fase il banjo, suonato ancora negli stili frailing e two-fingers, risulta decisamente troppo fragile per poter emergere e viene confinato ad un semplice ruolo di accompagnamento, soppiantato dal prepotente emergere del mandolino.
Ma è negli anni ’30 che musicisti del North Carolina, ‘Snuffy’ Jenkins, Rex Brooks e soprattutto Smith Hammett, elaborano quello stile di banjo chiamato poi ‘three fingers’ che impronterà tutta la successiva evoluzione dello strumento. E la storia del five-string comincia ad essere legata a quella del bluegrass e di Bill Monroe, il ‘padre’ di questa musica. A partire dalla seconda metà degli anni ’30 il banjo aveva fatto sporadiche apparizioni nell’organico della band di Monroe (Snuffy Jenkins, David ‘Stringbean’ Akeman).

Ma la svolta si ebbe solo nel 1945, quando nei Blue Grass Boys entrò Earl Scruggs. Nato a Flint Hill, North Carolina, in una famiglia in cui tutti erano musicisti, Scruggs cominciò a suonare il banjo all’età di tredici anni ed assorbì fin dall’inizio il nuovo stile sperimentato negli anni ’30 nelle regioni occidentali del North Carolina. Quando si unì a Monroe aveva solo venti anni, ma il suo stile era ormai perfettamente strutturato, come è possibile verificare ascoltando le incisioni degli anni tra il 1945 ed il 1948: risultato di un lungo processo di elaborazione di tecniche precedenti e di estro e di inventiva personali. Non ha torto quindi chi afferma che il bluegrass non sarebbe stato un fenomeno musicale di uguale portata se non ci fosse stato Earl Scruggs. La sua prima apparizione alla Opry strabiliò letteralmente gli ascoltatori e convinse Monroe della necessità di inserire stabilmente il banjo nell’organico del gruppo, dandogli quel risalto che ne renderà l’immagine inscindibile dalla musica bluegrass.
Tra i banjoisti più legati all’evoluzione dello strumento è da mettere in primo piano Don Reno. Allievo anch’egli di Snuffy Jenkins, ebbe la sfortuna di dover partire per la guerra nel 1943, mentre era in procinto di entrare a far parte del gruppo di Monroe. Tornato in patria, trovò Scruggs ormai insediato nei Blue Grass Boys. Anche se successivamente suonò per circa un anno con Monroe, la sua affermazione è legata al gruppo formato insieme a Red Smiley ed i Tennessee Cut-Ups. Don Reno era l’elemento di maggior spicco del gruppo. Musicista tra i più originali ed innovatori di quel periodo, aveva una tecnica molto personale, soprattutto per l’uso della mano destra, con la quale eseguiva scale e passaggi cromatici alternando pollice e indice, a mo’ di plettro. Ed ancora di rilievo i suoi breaks di stampo jazzistico, il ritmo ed il back-up complessi, nonché la versatilità che lo portò anche a sperimentare sulla chitarra e, primo in ordine di tempo, ad utilizzare questo strumento come solista nell’ambito del bluegrass, precursore con i suoi breaks in flat-picking dei chitarristi di oggi.

Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 si verifica per il banjo una svolta importante. In precedenza gli unici stili di banjo erano il clawhammer, la cui tradizione continuava ad essere mantenuta in vita soprattutto attraverso le Conventions, e lo Scruggs-style. Il limite di quest’ultimo era che non permetteva di affrontare brani melodicamente elaborati se non semplificandoli, ovvero alterando la melodia, adattandola al tipo di arpeggio e di uso della mano sinistra di Earl Scruggs. E fu ancora Bill Monroe, sempre pronto a cogliere elementi innovatori da inserire nella sua musica, a far conoscere al pubblico il banjoista che, oltre a creare uno stile nuovo, ha più di altri suscitato interesse per lo strumento: Bill Keith. Nonostante l’idea alla base dello stile ‘melodico’, o ‘Keith-style’, fosse già stata elaborata da altri musicisti, Keith è stato il primo ad applicarvisi in maniera costante, strutturando uno stile definito. Il Keith-style consiste in una cascata di note singole estendentisi su ampie scale ed in passaggi cromatici, adattissimi per eseguire le antiche fiddle-tunes nota-per-nota, esattamente come i fiddlers. Si distinguono così due scuole: quella di Scruggs e dei suoi discepoli, ancorati allo stile del suo ideatore ed alla riproduzione dei suoi fraseggi; e quella ‘melodica’, che apre la strada ad esecuzioni sempre più audaci, all’improvvisazione, in definitiva ad un approccio con lo strumento di tipo ‘progressivo’, che continua ad essere in movimento ed a produrre novità (per tutti: Tony Trischka e Bela Fleck).
E’ proprio grazie a tutti coloro che hanno sperimentato tecniche nuove e soluzioni originali che il banjo deve la propria fortuna. Ed il seguente episodio, citato da Larry McNeely (banjoista della California) non dovrebbe avere bisogno di commenti.

“L’altro giorno andai a comprare una sordina per il banjo ed il ragazzo dietro il banco disse: ‘Una sordina per il banjo? Che tipo di banjo suoni?’. Io risposi che suonavo il cinque-corde e lui fece: ‘Perché vuoi mettere la sordina ad un banjo a cinque corde?’. Eccovi l’esempio dell’idea preconcetta di ‘come’ il banjo dovrebbe essere suonato e ‘come’ dovrebbe rimanere. Capite, ‘non modificatelo’. Ma se non cambia rimarrà così com’è e continuerà a fare la stessa cosa per anni. C’è gente che vuole provare delle cose nuove, come divertircisi di più. E’ così che escono fuori idee nuove ed è proprio verso nuove idee che io lo sto portando”.
Il confronto tra l’arcaico stile delle piantagioni e le sofisticate tecniche di oggi ci fa rendere conto dell’evoluzione dello strumento.
Ma come si è modificato il banjo in quanto a struttura e tecniche costruttive? Il confronto tra un disadorno strumento costituito da un manico senza tasti (fretless) e di una cassa fatta con una zucca secca (e vuota!) utilizzante come piano armonico una vecchia pelle di opossum, ed una delle più recenti creazioni, del peso di numerosi chili e dalla sofisticata tecnologia, è stridente. Se si pensa a come era un violino nel Settecento e com’è oggi, non si notano grosse differenze. Il banjo invece si è modificato profondamente, soprattutto per quanto riguarda la cassa. Nei modelli dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento le soluzioni adottate erano diverse: ‘rim’ (il cerchio che fa da supporto alla pelle) in legno, in metallo, o in legno ricoperto di metallo; ‘tone-ring’ (parte terminale del ‘rim’, su cui poggia la pelle) di materiale, struttura e sezione differenti. Una modifica sostanziale fu costituita dall’aggiunta del ‘resonator’, una specie di coperchio con il quale risulta quasi completamente chiuso il fondo della cassa, consentendo al suono, decisamente amplificato in potenza, di essere diffuso solo anteriormente. Questa aggiunta riguardò il modello che, successivamente, verrà chiamato ‘bluegrass’, in quanto il modello cosiddetto ‘old time’ è ancora oggi ‘open-back’ (a fondo aperto).

La definitiva standardizzazione del banjo bluegrass avvenne negli stabilimenti della Gibson a Kalamazoo, Michigan, negli anni ’30. Le soluzioni tecniche, strutturali, nonché estetiche adottate in quegli anni hanno necessitato di ben poche modifiche, ed un Gibson Mastertone di quel periodo continua a costituire il sogno (spesso proibito) di tutti i banjoisti odierni. Ma chi se la sente di concludere con sicurezza che il banjo five-string sia giunto al punto terminale della sua evoluzione?
(Il contenuto di questo articolo è ampiamente tratto dal libro Country Music di Mariano De Simone, su concessione dell’Editore Datanews).

Mariano De Simone, fonte Hi, Folks! n. 14, 1985

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