Sin dall’epoca della prima apparizione sul mercato, nel lontano 1927, gli strumenti a risuonatore – National o Dobro – continuano a incuriosire e affascinare numerosi musicisti e appassionati di musica di vario genere, costituendo una singolarissima famiglia a parte rispetto agli altri tradizionali strumenti acustici.
L’originalità consiste principalmente nei diversi meccanismi di trasduzione delle vibrazioni delle corde e conseguente amplificazione del suono, dovuti in buona parte al famigerato risuonatore, nucleo dell’originale brevetto, schematicamente descrivibile come un cono, generalmente di alluminio, inserito al centro della cassa di risonanza e al cui apice è collocato, in vari modi, il ponticello su cui poggiano le corde.
Questo differente e, se vogliamo, ‘scientifico’ processo di produzione e proiezione del suono si traduce, secondo una ormai radicata convinzione di alcuni quotati estimatori, in una particolare metallicità del suono emesso da questi strumenti, etichettati anche con l’inquietante aggettivo di ‘resofonici’.
Niente di più falso; per quello che ho potuto constatare di persona, il timbro metallico è piuttosto prerogativa dei risuonatori in precarie condizioni di salute, invariabilmente ascrivibili a problemi nella giunzione cono-ponticello (usualmente una vite). Il timbro originale è semmai nasale, un poco aspro se lo strumento è suonato a dita, ma incredibilmente dolce e pieno se si fa uso di uno slide metallico o di un bottleneck; inoltre, ed è questo l’intendimento con cui furono inventati, il volume di suono emesso è tre/quattro volte più profondo rispetto al corrispondete fratellastro acustico tradizionale in legno.
Questi strani strumenti, fabbricati ancor oggi senza significative modifiche rispetto ai primi modelli, testimoniano senz’altro quella che fu la transizione da acustico ad elettrico in un’era in cui la soluzione non poteva che essere, per così dire, ‘meccanica’.
Molto popolari e largamente diffusi perché innovativi nella tecnica costruttiva e moderni nell’estetica di un’epoca (gli anni ’20) in cui tutta l’America era affetta da innovazione e modernismo, furono per gli stessi motivi, nel giro di poco più di un decennio, frettolosamente accantonati in favore dei primi strumenti elettrificati e solo recentemente, nei primi anni ‘70, complice il rinnovato interesse verso il blues e il bluegrass, la originale famiglia fabbricante è tornata a produrli e commerciarli con discreto successo.
Quello che segue è soltanto un tentativo di chiarire, se non altro da un punto di vista cronologico, la storia di questi originali strumenti, gli unici di origine effettivamente americana; storia che pure è tipicamente americana, per molti squarci legata a filo doppio alle carriere dei musicisti che li hanno adoperati nonché ai numerosi rivolgimenti economici della piccola industria americana in questo secolo, fedelmente riflessi nell’incredibile serie di passaggi di mano di proprietà e marchi che rendono ancora oggi confusa la originale paternità e le vicissitudini sino agli odierni giorni nostri.
Dunque, giusto sessant’anni fa, nel 1927 nasceva a Long Beach in California la National Company, fondata da John Dopyera, immigrato cecoslovacco musicista e inventore, da suo cugino Paul Barth e da due musicisti più avvezzi agli affari che al pentagramma, tali George Beauchamp e Ted Kleinmeyer.
Dopyera, novello Archimede Pitagorico, aveva presentato loro poco tempo prima una sua singolare invenzione: una chitarra hawaiiana, strumento allora in gran voga, in cui aveva inserito un cono d’alluminio di circa 25 cm. di diametro, il cui vertice portava, avvitato, il ponticello su cui vibravano le corde.
Il risultato parve rivoluzionario e furono in brevissimo stanziati i fondi necessari per la produzione industriale. Il primo modello prodotto venne ridisegnato varie volte durante le diverse fasi di lavorazione ed alla fine risultò sensibilmente diverso rispetto al prototipo: aveva un corpo di dimensioni e forma tradizionali (simile ad una Martin 00) fatto interamente in German silver (una particolare lega di ottone), nickelato esternamente, un ‘look’ molto moderno e, soprattutto, si avvaleva di ben tre coni di risonanza in alluminio, più piccoli di diametro rispetto all’originale, avvitati agli estremi di un ponte d’acciaio sagomato a forma di T.
Particolari studi aveva richiesto la ottimizzazione della forma e del materiale dei coni, che erano irrobustiti da una nervatura a spirale e di spessore graduato, come le tavole armoniche degli strumenti a corda e ad arco.
Questi strumenti, chiamati ‘Tri-plate’ o ‘Tri-cone’ per via del numero di coni che costituivano il risuonatore, furono commercializzati dapprima nelle versioni chitarra normale, col tradizionale manico in mogano e tastiera in ebano di egregia fattura, e chitarra hawaiiana, col manico in metallo dello stesso spessore delle fasce, cui seguirono di lì a poco il modello chitarra-tenore, a quattro corde, con lo stesso sistema di risuonatore ma con la cassa a forma di pera, la versione ‘heavy metal’ dell’ukulele, strumentino che furoreggiava in quel periodo, e il mandolino, entrambi con la cassa in acciaio, il manico in legno e il risuonatore a cono unico; tutti questi strumenti erano prodotti con diversi gradi di rifinitura a seconda del prezzo e la rifinitura consisteva in delicati disegni floreali o paesaggi esotici incisi a mano lungo tutto il corpo.
Le chitarre Tri-plate ottennero immediatamente una calorosa accoglienza; il modello ‘square neck’ fu adottato dalla stragrande maggioranza dei chitarristi hawaiiani mentre i banjoisti jazz facevano largo uso dei modelli a 6 e 4 corde nel processo di transizione da banjo tenore a chitarra.
Ma inaspettatamente un cospicuo numero di vendite fu registrato presso i musicisti neri di jazz, hokum e soprattutto blues. Una misura del vero e proprio ‘Tri-plate crazy’ di allora è indirettamente rappresentata dal fatto che questi strumenti non erano certo a buon mercato; il modello meno elaborato esteticamente costava 125 dollari, ma il prezzo saliva fino a 195 per il prestigioso Style 4, riccamente abbellito da disegni floreali (crisantemi!) quando una Martin D-28 costava 100 dollari e la ‘top-model’ D-45 veniva venduta (poco, per la verità) a 200 dollari.
Pure numerosissimi musicisti, allora agli inizi di carriera e quindi non particolarmente benestanti, li acquistarono subito, ritenendo che si sarebbero rivelati determinanti nello sviluppo del loro stile con conseguente accesso alle case discografiche, sempre attente alle novità.
Quanto tale ragionamento si sia dimostrato giusto è valutabile oggi attraverso le numerose incisioni a 78 giri di musicisti come Sol Hopii, King Benny Nawahi, Jim & Bob per la musica hawaiiana e bluesmen come Son House, Tampa Red, Blind Boy Fuller, Bukka White, Bill Weldon, Bo Carter, tutte eseguite con strumenti National o Dobro.
Già, e ‘Dobro’ da dove salta fuori?
Riprendendo il discorso, nonostante gli affari andassero a gonfie vele, nel 1928 la famiglia Dopyera, John in testa, lasciò la National per divergenze con Beauchamp, fondando una compagnia concorrente, il cui nome fu preso dalle iniziali di Dopyera Brothers, la Dobro appunto.
La Dobro si mise anch’essa a fabbricare strumenti a risuonatore, sia pure con una serie di modifiche rispetto ai modelli National, dettate da scarse possibilità economiche e problemi brevettuali. I primi strumenti prodotti, infatti, non disponendo delle costose macchine stampatrici della National, avevano la cassa in legno tradizionale e un sistema di risuonatore leggermente differente, a cono unico di grande diametro in alluminio posizionato al contrario, cioè capovolto, simile a una forma per budini con una impalcatura a forma di ragnatela che sosteneva al centro il ponticello poggiata sui bordi superiori del cono stesso. Questi modelli in legno avevano un suono leggermente differente che ne decretò inopinatamente il successo in quel genere musicale che oggi chiamiamo bluegrass.
Quasi parallelamente, nel 1929, la National mise in produzione una serie di modelli a cono singolo, frutto di un progetto dei Dopyera precedente la loro scissione, col corpo in acciaio anziché German silver, istoriato a mano con motivi ornamentali più o meno complessi a seconda del modello, da semplici paesaggi hawaiiani stilizzati a veri e propri piccoli capolavori, talvolta a colori.
Questa nuova linea di modelli, i Duolian e Triolian della National da una parte, i Dobro in legno e successivamente in metallo dall’altra, sostituirono i Tri-cone, di cui cessò pressoché definitivamente la produzione intorno al 1936.
Nel 1932, colpo di scena, la National cominciò ad avere difficoltà economiche e nel 1934 i fratelli Dopyera, spinti più dall’orgoglio che dalla convenienza, comprano da Beauchamp la compagnia, riunendo le firme National-Dobro.
Di lí a poco John Dopyera, vero motore per l’azienda, abbandonò l’attività commerciale in prima linea per soddisfare un antico sogno: costruire un violino resofonico!
Il progetto, manco a dirlo, fu un fallimento e, significativamente, segnò l’inizio della crisi creativa per tutta la produzione, provocando in seno alla stessa una sorta di repulsione verso il resofonico. Da qui in poi una serie di iniziative che snaturarono la filosofia creativa profusa sino ad allora: dapprima lo spostamento della sede dalla California a Chicago nel 1936 per meglio seguire la fabbricazione dei vari componenti necessari all’assemblaggio di chitarre elettriche (ironia della sorte, la prima chitarra elettrica commercialmente prodotta è opera di A.J. Rickenbaker, precedentemente impiegato presso la National Company), strumenti che la compagnia si mise a produrre in quegli anni senza particolari originalità e qualità; quindi alcune decisioni dettate da opportunità economiche, fra cui quella di comprare chitarre acustiche tradizionali da altre firme (Regal, Kay e Harmony) e collocarvi i propri risuonatori oppure di vendere i medesimi ad altre compagnie desiderose di avere una linea di strumenti a risuonatore.
Dal ’41 in poi la compagnia chiuse, riaprì, cambiando nome e proprietà varie volte, in una successione di alti e bassi commerciali tutta americana fino a diventare Valco, che produceva sostanzialmente chitarre elettriche e durò fine alla metà degli anni ’60.
Crisi delle idee a parte, la oggettiva scarsità di acciaio del periodo della guerra, così fondamentale per questo tipo dì strumenti, e gli innegabili vantaggi per l’utilizzatore offerti dal novello strumento elettrificato, segnarono virtualmente la fine, così come mancanza di sostentamento e capacità di adeguamento alle modifiche ambientali estinsero i dinosauri.
Bisogna arrivare fino al 1959 per assistere ad un primo pallido tentativo di ripresa produttiva, allorché due sorelle Dopyera, Emil e Rudy riacquistarono in California l’impolverato originale macchinario e i diritti al marchio Dobro, cominciando a fabbricare e vendere qualche strumento.
Ma è ancora epoca di compromessi: nel 1961 le due vecchiette vendono nuovamente tutto a una nipote, Emil Jr., che nel 1967 a sua volta la cedette a Semie Moseley della Mosrite Guitars, che si mise a produrre inusuali, brutti e inutili strumenti ibridi, con risuonatore, corpo da chitarra elettrica e due pick-up.
Fortunatamente nel 1969 arrivò nuovamente la bancarotta e finalmente, nel 1971, la giovane Emil Dopyera riacquistò il marchio e aprì la Original Musical Instrument Company in California.
Il resto è storia dei nostri giorni: la OMI si mise a produrre inizialmente (tranquilli, li produce ancora oggi, 1987) strumenti in legno con il risuonatore a ragno stile Dobro, il cui timbro e la fedeltà ai modelli degli anni ’30 piacquero subito ai musicisti bluegrass e, successivamente, strumenti con la cassa in acciaio e il cono stile National che incontrarono il favore di numerosi musicisti di vari generi, primi fra tutti gli amanti del blues, ma anche rock ‘n’ roll e di musica pop (come ad esempio Mark Knopfler dei Dire Straits) e, perché no, della vecchia swingante musica hawaiiana, come il sottoscritto.
Andrea Rebora, fonte Hi, Folks! n. 22, 1987