Leo Kottke

Sulle sonorità cupe e vigorose dovute all’accordatura bassa di una dodici corde di stampo arcaico — legata negli anni venti soprattutto alla figura di Leadbelly, il ‘Re della chitarra a dodici corde’, e divulgata negli anni cinquanta da Pete Seeger — Leo Kottke ha saputo costruire fin dai suoi esordi tra gli anni sessanta e settanta una personale rielaborazione, basata su un uso dinamico e virtuosistico delle accordature aperte. Di questa sua interpretazione stilistica è apparso subito chiaro l’inconfondibile valore, che ha reso il chitarrista di Minneapolis un caposcuola già riconosciuto dalla storia.
Da allora la sua carriera è trascorsa onorevolmente tra i consueti alti e bassi, ma forse anche con alcuni momenti caratterizzati da un’ispirazione discutibile. Cosi, non appagato da una consacrazione che rischia di imbalsamarlo anzi tempo, Kottke ha iniziato già dal precedente My Father’ s Face — e ancora di più nel suo ultimo album That’s What — un coraggioso processo di rinnovamento, che lo vede rinunciare temporaneamente al suo tradizionale virtuosismo, per abbracciare una più matura ed elaborata conoscenza della dimensione armonica e del linguaggio jazzistico. Ne abbiamo discusso con lui nell’ intervista che segue.

–Perché non cominciamo a parlare direttamente dei brani presenti nel tuo nuovo album, That’s What? Nel primo pezzo, Little Snoozer, sembrerebbe che suoni un basso a sei corde.
–Sì, è un basso a sei corde, uno strumento che consiglio vivamente. Si tratta di una copia del vecchio Danelectro. È costruito in masonite e carta da parati, ed è stato progettato come strumento economico. Il liutaio D’Angelico aveva suggerito molte delle caratteristiche che sono state adottate, fra cui la scalatura delle corde; quindi è un basso dal pedigree interessante.

–Monta dei pickup?
–Sì, due pickup modello ‘lipstick’.

–E lo suoni in accordatura aperta, in questo primo pezzo?
–No, è accordato normalmente.

–Eppure ottieni delle sonorità che fanno pensare alla tua dodici corde, quando la accordavi molto bassa; ritorna in mente quel tipo di fraseggio.
–È vero, si sente qualcosa di simile a certe vecchie cose che facevo con la dodici corde, ma l’accordatura è normale. Suono in La e la ‘forma’ della diteggiatura in questa tonalità è affine a quella dell’accordatura aperta di Sol; così, quando sto sull’accordo fondamentale di La, ottengo la stessa sonorità di un’accordatura aperta.

–Passiamo al secondo brano, Buzzby, nel quale suoni la chitarra slide. Che tipo di slide usi, e su quale chitarra e accordatura?
–La chitarra è ancora il basso a sei corde, questa volta accordato in Sol. Lo slide è stato costruito appositamente per me da una ditta di Saint Paul, specializzata in chiavistelli a prova di esplosione per caldaie! È realizzato in ottone con un disegno particolare. Lo stanno producendo in serie e lo metteranno in commercio molto presto.

–Nello stesso pezzo c’è anche un altro basso in stile slap…
–Sì, è un basso normale suonato dal mio produttore Willard Oliver.

–Poi, in What The Arm Said, sembrerebbe di sentire una chitarra elettrica semiacustica.
–È interessante che sia sembrata una semiacustica. Probabilmente l’impressione è dovuta al fatto che la chitarra — in realtà una solid body — è stata registrata facendo passare il suono in presa diretta attraverso i monitor dello studio, per poi riprendere con dei microfoni il suono proveniente da questi ultimi. Così quello che avete percepito è il percorso dagli altoparlanti al microfono, il che significa che avete un buon orecchio! La chitarra comunque è una Charvel, in genere usata per l’heavy metal.

–In ogni caso il modo in cui suoni ricorda piuttosto certo finger style jazz alla Joe Pass. E a proposito di Pass, sembra che tu lo abbia conosciuto l’estate scorsa in Australia. Puoi parlarci di questa esperienza?
–È stata una grande emozione per me, una di quelle esperienze incredibili che accadono a volte nel nostro lavoro. Del resto in Australia non ho incontrato soltanto Joe, ma anche John Williams e Paco Perla: abbiamo suonato insieme, abbiamo trascorso qualche giornata insieme lavorando per il Festiva! delle Arti, e mi sono divertito veramente molto. Poi ho rivisto John e Paco in Spagna qualche mese dopo.

–Pare che Joe Pass abbia detto di aver imparato qualcosa da te in quell’occasione. Cosa pensi che abbia imparato?
–Davvero ha detto una cosa simile?

–Era scritto su una notizia stampa diffusa in Italia dalla tua casa discografica, la BMG Ariola.
–In realtà mi ha detto semplicemente che suonavo delle cose piacevoli, che le aveva apprezzate; ma non che aveva imparato qualcosa da me, mi sembrerebbe strano… Tuttavia era curioso circa il mio modo di portare il ritmo; diceva che quando lui suona è un tutt’uno, e che gli piaceva la mia maniera di usare una certa indipendenza tra melodia e accompagnamento. Invece a me piace proprio il fatto che lui sia un tutt’uno quando suona, vorrei saperlo fare anch’io!

–Insomma hai suonato con un maestro del jazz, un maestro della chitarra classica e un maestro del flamenco: come potresti definire la tua musica rispetto a queste tre grandi tradizioni chitarristiche?
–Innanzitutto intimidito! È veramente la prima parola che mi viene in mente. Mi sono divertito molto, ma mi sono anche chiesto quale fosse il mio posto lì in mezzo. Credo che rappresentassi quel tipo di finger picking di cui parlava Joe, e questa era la cosa che mi differenziava principalmente dagli altri. Inoltre, a differenza di loro tre, suonavo una chitarra a tavola piatta con corde di metallo…

–D’altra parte in Creature Feature, il pezzo successivo dell’album, suoni una chitarra con corde di nylon, poi una dodici corde e ancora altro. In effetti tu usi spesso diversi suoni di chitarra, diversi stili chitarristici e naturalmente diverse chitarre: dodici corde, sei corde, corde metalliche, corde di nylon. Forse questo è anche un tuo modo di comporre?
–È vero, ogni tipo di chitarra determina un certo tipo di scrittura musicale, perché ci si adatta inevitabilmente allo strumento. Frequentemente, però, il motivo dell’uso di diverse chitarre nei miei dischi dipende dal fatto che non sempre — per motivi tecnici — riesco ad ottenere il suono che desidero nel corso dell’incisione; allora cambiare chitarra significa cercare di ottenere un suono migliore, piuttosto che cercare l’effettivo suono di quel particolare strumento. Forse non sono stato chiaro: per fare un esempio, io volevo suonare What The Arm Said su una chitarra classica, ma l’intonazione di quella chitarra non era abbastanza buona nelle posizioni avanzate della tastiera; così ho optato per la solid body, che possedeva un’intonazione perfetta in quella parte del manico. Ecco uno dei motivi che mi spinge a passare da una chitarra all’altra. Tuttavia, comportandomi così, posso correre il rischio di ritrovarmi con un disco che salta eccessivamente di palo in frasca. Per evitare questo problema, cerco sempre di utilizzare la prima o la seconda registrazione di ogni brano, in modo che la spontaneità del suonare ci stia tutta e formi una sorta di tessitura tra un pezzo e l’altro.

–Nei brani seguenti dell’album, suoni soprattutto l’acustica a sei corde. Di che chitarra si tratta?
–È una Taylor modello 555, lo strumento più economico di quella casa; ha una tavola armonica in abete rosso e fasce e fondo in mogano. Possiede un bel suono…

— A mio avviso è la loro migliore chitarra: io adoro il mogano, lo preferisco al palissandro. E la dodici corde, è anch’essa una Taylor?
–Sì.

–Per caso è il nuovo modello che stai preparando in collaborazione con la casa?
–Non sono proprio sicuro che questa nuova chitarra sia presente nell’ultimo album, ma c’è sicuramente nel precedente, My Father’s Face. Ormai sono quasi due anni che la posseggo e alla Taylor sono stati molto meticolosi, c’è voluto molto tempo per completare tutte le operazioni al computer necessarie per costruirla in serie. Infatti sarà messa in commercio molto presto: è dotata di un’incatenatura molto leggera per una dodici corde, e anche lei ha fasce e fondo in mogano. Già ne sono stati costruiti cinque prototipi per me: li proverò e riferirò le mie impressioni alla casa. La Taylor si è mostrata disposta a realizzare qualsiasi cosa per me, tranne cambiare il diapason delle corde, perché ciò avrebbe significato dover quasi costruire un’altra fabbrica. Ora la chitarra è praticamente pronta e si tratta solo di coordinare la campagna promozionale per il suo lancio sul mercato.

–Jesus Maria, un altro pezzo dell’ ultimo album, è stato composto dalla jazzista Carla Bley. In effetti c’è parecchio sapore jazz in questo disco: che ne pensi?
–Sì, sono d’accordo, ci sono molte armonie jazz.

–Il che si discosta alquanto dal vecchio Kottke, le cui caratteristiche cavalcate sulla dodici corde erano di natura più ritmica e melodica che armonica.
–È vero, sto cercando in qualche modo un giusto equilibrio, che mi consenta di sfruttare maggiormente l’uso di accordi jazzistici senza perdere quanto già mi appartiene. Se sarò in grado di raggiungere questo obiettivo non lo so, ma ho appunto iniziato a studiare un po’ di armonia, e quando studi una cosa è impossibile che non si rifletta nella tua musica. Probabilmente il brano che meglio annuncia i prossimi sviluppi del mio modo di comporre è Oddball: vi sono molte dissonanze e alcune sonorità tipiche del jazz, ma credo che l’esecuzione mantenga pure un po’ del mio ritmo e delle cose che ho sempre fatto. Anche nell’album My Father’s Face si trova un pezzo che viaggia nella stessa direzione, intitolato My Aunt Frances. Questi brani piacciono al pubblico, funzionano benissimo dal vivo. Invece il pubblico non va certo a nozze con Jesus Maria: se un pezzo del genere lo suonassi con i tromboni, come nel disco, forse sarebbe accolto bene; ma con la sola chitarra invece…. A proposito, l’ho suonato a Joe Pass e lui mi ha detto: “Dov’è la melodia in questo brano?” E pensare che secondo me era quasi unicamente melodia, e semmai quello che gli mancava era il ritmo! Tuttavia si tratta di una composizione interessante, che è stata registrata da diversi musicisti come ad esempio Gary Burdon, però sempre con il pianoforte oppure in trio o in quartetto, mai con la chitarra solista..

–A proposito di tromboni e di orchestrazione, non hai lavorato recentemente insieme a Steve’? Paulus e alla Atlanta Symphony Orchestra?
–Abbiamo appena terminato una suite per chitarra e orchestra, che rappresenteremo presto a Fort Wayne nell’Indiana. Abbiamo anche l’intenzione di registrarla, ma solo perché sia trasmessa dalla radio pubblica nazionale degli Stati Uniti. Spero inoltre di farne un disco, ma i costi qui sono ormai arrivati a livelli astronomici, così che molti musicisti – per portare a termine opere dello stesso genere – preferiscono recarsi in Europa. Forse faremo anche noi in questo modo. Quel che è certo è che Paulus ed io contiamo di comporre altra musica di comune accordo, perché la nostra piacevole collaborazione sembra essere proficua e più cose scriviamo insieme, migliori diventano i risultati. In ogni caso mi sto divertendo molto.

–Se è troppo costoso registrare queste musiche con una vera orchestra, che ne diresti di utilizzare un’orchestra sintetizzata?
–Credo che si potrebbe fare, anche se andrebbe persa ovviamente tutta la qualità che una vera orchestra può dare. Del resto non sono un grande amante dei sintetizzatori, riguardo ai quali Miles Davis disse una volta che — secondo lui — non sono altro che dei “bianchi programmatic”. Il sintetizzatore deve essere suonato da un vero genio, per potergli tirar fuori un po’ d’anima…

–E vero che tua moglie e il tuo manager hanno espresso delle perplessità nei confronti del tuo ultimo album?
–In genere a loro piacciono i mei dischi, mentre alla casa discografica no. Questa volta invece è successo proprio il contrario: una cosa stranissima, che mi ha letteralmente disorientato! Credo sia stato per via delle armonizzazioni, visto che a loro non piacciono le settime maggiori e le dissonanze. Per il resto hanno preferito di gran lunga i pezzi solistici rispetto a quelli in gruppo. Ad esempio a mia moglie è piaciuto molto Czech Bounce.

–Tu invece sei pienamente soddisfatto del risultato?
–Sì, sono contento di That’s What: è diverso da tutto quello che ho fatto finora. Inoltre è stato realizzato bene, è più intenso di tante mie altre cose; vi è un elemento in più che forse emerge dal modo in cui ho composto i brani e dagli arrangiamenti. Questo elemento dipende in massima parte dai movimenti armonici, che fanno suonare l’album in un certo modo. Detto ciò, non penso che continuerò in una direzione simile per sempre. In realtà non so mai cosa accadrà quando inizio un nuovo disco. Certo, di solito ho in mano del materiale, ma tutto quello che posso prevedere è se sarà di sola chitarra o meno. Per esempio il prossimo disco sarà — o meglio penso che sarà — interamente cantato, con un piccolo gruppo acustico e forse sarà registrato dal vivo. E’ da tantissimo tempo che non canto un buon numero di canzoni, e non ho mai realizzato un disco tutto cantato. Però dubito che questo possa realmente accadere, non saprò resistere alla tentazione di metterci un paio di strumentali!

–Nel tuo ultimo album, ci sembra che tu abbia lasciato un po’ in disparte l’abilità tecnica, la velocità. E come se avessi soprattutto desiderato qualcosa di più sottile e intimo. Forse che, giunto a questo punto, non avverti più l’esigenza di dimostrare a nessuno il tuo virtuosismo e riesci a concentrarti maggiormente sulle emozioni e sull’espressione?
–Esatto, e la ragione per cui ciò avviene è che sto cercando di imparare a conoscere meglio la tastiera della chitarra, per potermi dedicare maggiormente all’improvvisazione. Naturalmente ci vorrà un po’ di tempo prima di riuscire a muovermi con una certa sicurezza. Dal vivo improvviso, ma in una misura che varia da serata a serata. L’improvvisazione mi piace perché quando ascolto altri musicisti improvvisare, come Joe Pass ad esempio, li sento cantare e questo riflette un approccio molto diverso rispetto al comporre. Penso che debba essere affascinante. Perciò credo che la velocità e la tecnica abbiano un’importanza, ma sto appunto modificando la loro collocazione. Non sarà una cosa rapida.

–Un’altra domanda per concludere. La copertina di That’s What fa pensare ad un disegno prodotto da un bambino. Recentemente, del resto, non hai lavorato anche per un album dedicato ai piccoli?
–Sì, è appena uscito negli Stati Uniti per la Windham Hill, in concomitanza con uno special televisivo destinato alla TV via cavo. Lo special narra la storia di Paul Bunyan, raccontata da un comico americano di nome Jonathan Winters, e la musica prevede una presenza importante della dodici corde, nonché della dodici corde slide. Alcune cose le ho realizzate insieme a Duck Baker ed è stata un’esperienza molto simpatica: ci sono numerosi assoli di chitarra e diversi duetti. In definitiva sono pienamente soddisfatto e mi è sembrato carino suonare in un album destinato ai bambini, visto che quand’ero piccolo dischi del genere sono stati molto importanti per me; a quei tempi se ne producevano parecchi, mentre adesso sono diventati più rari. Il progetto fa parte di una serie prodotta dalla Rabbit Ears, che ha affidato le musiche anche ad altri musicisti quali Ry Cooder, Michael Hedges, Chet Atkins.

–Qualche anticipazione?
–Sono stato molto occupato ultimamente, ma spero di poter tornare presto in Europa per una tournée, magari a primavera. Naturalmente per fare dei concerti pure in Italia.

Andrea Carpi e Marco Lucchi, fonte Chitarre n. 59, 1991

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