Quattro anni fa, verso la conclusione della trattativa che mi avrebbe portato a collaborare con Virgin Radio, dalla direzione della radio mi giunse la richiesta di utilizzare un nickname che potesse esprimere con immediatezza la caratteristica principale del personaggio che intendevo proporre per le sveglie radiofoniche mattutine. Non mi dispiacque, anche se confesso che impiegai qualche momento per metabolizzare l’idea di dovermi presentare con un nome d’arte dopo ben trent’anni di attività radiofonica. Il mio pensiero andò subito al nome di quella band che tanti anni prima, durante un concerto, mi diede una tale scarica elettrica da lasciarmi segni profondi che non accennano fortunatamente a rimarginarsi ancora oggi.
I Dr Feelgood di Lee Brilleaux attraversarono il mio cammino verso la metà degli anni ’80, quando vennero a esibirsi al Ciak di Milano. Ero giovane, ma con alle spalle un considerevole numero di esperienze forti avendo assistito, a partire dal 1978, ad una lunga serie di concerti rock, hard e punk ma anche blues e folk. Eppure, ricordo che l’incontro fu quasi devastante, il concerto di quella sera al Teatro Ciak fu qualcosa che mi impressionò davvero. La carica esplosiva di Lee Brilleaux era a dir poco travolgente, inarrestabile, era la prima volta che mi capitava di assistere a un live così carico di tensione. Non davano tregua, un proiettile dopo l’altro, adrenalinici, nervosi, carichi e coinvolgenti.
Andavano girando per locali notturni strapazzando gli avventori e suonandogliele di santa ragione già da oltre una dozzina di anni. Il loro habitat naturale era quello dei pub, fumosi e maleodoranti, dai quali la gente usciva a fine serata incapace di trovare la strada di casa. Un concerto rock blues con una band come quella dei Dr Feelgood organizzata in un teatro, tra tende, velluti e poltroncine poteva sembrare un’idea non troppo azzeccata, ma loro non lo vissero come un limite, l’approccio ci sembrò lo stesso che immaginavamo avessero quando suonavano nei pub d’oltre Manica. Vomitarono sul pubblico due ore di tesissimo blues e tiratissimo rock and roll, pescando nel repertorio degli anni ’70 del periodo d’oro (con Wilko Johnson, John B. Sparks e The Big Figure), canzoni come Roxette, She Does It Right e Back To The Night, incentrando lo show sui pezzi nuovi, più hard, venuti dopo la dipartita di Wilco Johnson, e una buona dose di classici del blues quali My Babe, Rock Me Baby e Dust My Broom.
Tornai a casa col vinile di Mad Man Blues autografato sotto braccio e nelle settimane successive non mi diedi pace fino a quando non misi le mani sui primi album usciti dal ’75. Ma anche sul quel live del ’76 intitolato Stupidity, che insieme al Live At The Marquee dei Nine Below Zero, testimonia con estremo realismo di che pasta fossero fatti quei gruppi inglesi di blues della seconda metà degli anni ’70. Band votate alla musica dei grandi padri del Chicago e Texas Blues, che proseguivano sulla strada tracciata da Alexis Korner, Yardbirds, Animals e John Mayall nel decennio precedente, ma che dovevano vedersela con una nuova schiera di giovani rabbiosi punk rocker.
Qualche tempo dopo tornarono da queste parti, si esibirono al Milano Blues Festival, una kermesse estiva che si consumò ai piedi dell’Arco della Pace per alcuni anni, una delle ultime occasioni concesse ai milanesi di ascoltare grande musica gratuitamente per volontà dell’amministrazione pubblica. Anche sul quel palco Lee Brilleaux e soci diedero il massimo, non si risparmiarono. Ricordo un Brilleaux posseduto dal diavolo, che consumava birre e sigarette senza sosta mentre cantava e si muoveva con un’energia da lasciare il pubblico incredulo.
Quando nell’aprile del ’94 venni a sapere della sua morte, accusai il colpo, la notizia credetemi mi fece incazzare. Aveva 41 anni.
Per un anno la band rimase ferma, poi un certo Pete Gage prese il suo posto. Sono ancora oggi parecchio attivi, fanno dischi e girano per l’Europa. Per quanto mi riguarda è una storia che si ferma al 7 aprile 1994.
Maurizio Faulisi, fonte Outsider, 2014