Banjo

Non vorrei mi confondeste con qualcuno che, circa 55 anni fa, decise che fosse “Il momento delle decisioni irrevocabili”… Qui di irrevocabile c’è poco, ma sicuramente dovrete prendere un tot di decisioni: che suono volete dal vostro banjo, se volete privilegiare i bassi o gli acuti, la risposta, il sustain, action facile o action da gorilla, tutte caratteristiche spesso in contrasto fra di loro e quindi da avere ben chiare sin dall’inizio del lavoro di set-up più raffinato. E’ ben vero che uno strumento buona ha fondamentalmente il suono che gli danno le mani che lo toccano, ma si può comunque fare molto per cambiare questo suono per il meglio. Diamo alcune regole generali:

I) Per un suono acuto, brillante è opportuno usare materiali (parlo ovviamente di quelli su cui si può agire senza lavori drastici) i più leggeri possibile: pelle sottile e molto tesa, ponte sottile e possibilmente di legni molto duri, corde sottili, tailpiece pesante (e ci voleva l’eccezione!) e piuttosto basso sulla pelle, capotasto duro (avorio o madreperla), e una generale maggiore tensione di tutte le parti (nelle parole di Don Stover: “quel banjo era cosi tirato che sembrava pronto ad esplodere”).

L’opposto vale, naturalmente, per ottenere un suono pieno, rotondo, con una pelle non troppo sottile e piuttosto mollina, tailpiece leggero ma non troppo e non tirato in basso, capotasto di osso, ponte non tanto sottile (sempre di legni duri ovviamente, ma senza ‘trucchi’), o decisamente spesso se volete uccidere gli acuti, e infine una tensione minore di ogni componente (come dice Ron Block: “Al mio nuovo Rich & Taylor ho mollato tutto”).

La validità di queste regole naturalmente si potrà scontrare, solo apparentemente però, con determinati strumenti o determinate parti. Mi spiego: un banjo archtop potrà avere comunque un suono acuto anche con parti pesanti, e un ottimo flathead conserverà i propri bassi anche con un ponticello abbastanza sottile: tutto sta, come sempre, nel reciproco gioco delle varie componenti.

II) Le stesse caratteristiche (più o meno) che secondo le regole di cui sopra danno un suono acuto daranno anche un sustain ridotto e, spesso, una risposta più pronta al tocco della mano destra, mentre l’assetto da suono pieno darà spesso un sustain maggiore. Diversamente, però, quando assettate un banjo per un suono decisamente scuro dovrete mollare le varie parti fra di loro al punto che sicuramente il sustain risulterà ridotto. Ora, non so cosa voi pensiate del sustain in un banjo: per me è positivo un buon sustain quando non è ottenuto a discapito di una risposta più che esplosiva, e sempre se un sustain lungo viene effettivamente utilizzato dal banjoista. Chi suona solo velocissime scale in melodie ne potrà fare a meno, chi si diletta in assoli blues con corde tirate e accordi sostenuti non potrà rinunciarvi. Decisioni irrevocabili, eh?

Scendiamo più a fondo nei particolari, e vediamo di trovare il suono giusto per il nostro banjo e il nostro gusto, basandoci sugli ovvi modelli di sempre: i nostri ‘idoli’. Essendo io molto parziale, e avendo constatato che la maggioranza dei banjoisti da me incontrati la pensa più o meno come me, iniziamo dal tipico suono flathead, quello di Scruggs, Osborne, Crowe, Smith, Baucom, Mills, Vestal, Emerson etc etc etc.

Se lo sapete definire meglio di me vi faccio un regalo. Un buon flathead, pre-war o meno, dovrebbe avere un suono decisamente pieno, dove siano ben rappresentate tutte le frequenze a disposizione di un banjo, bassi pieni e sonori, medi decisi, acuti chiari che diventano più chiari su per il manico, risposta decisa e sustain ‘buono’.

Va da sé che legni diversi daranno suoni diversi (vedi la breve lezione sui legni di un paio di numeri fa), quindi un flathead di mogano avrà un suono più soffice di un suo simile di acero o di noce, ma a questo punto avrete già preso una decisione di fondo, immagino, se avete comprato un banjo di un determinato legno. O no? E non dimenticatevi, prego, le differenze date dalle mani, tanto per capire perché J.D. riesce ad ottenere acuti così chiari con un banjo di mogano, e Sonny ad avere un suono così soffice con un banjo di acero (peraltro marezzato).

Se avete già fatto il set-up di base seguendo le istruzioni sul numero precedente, può essere il momento di scendere nel fino. Andiamo per ordine.

1) Controlliamo la tensione della pelle: tentate di lasciarla “sul versante molle della tensione giusta”, per così dire: ciò significa, fondamentalmente, che lasciandola anche solo un’idea più molle di come si trova noterete perdita di sonorità su tutte le frequenze, bassi inclusi (i bassi devono essere pieni ma non mosci!). Spero abbiate su un ponticello decente, al minimo tipo Grover da 5/8″, non troppo sottile. Non è detto, in ogni caso, che un ponte sottile vi freghi sul suono pieno: secondo un certo numero di esperti il vero suono ‘bassy and growling’ da vecchio flathead si ottiene solo con una pelle molle e un ponte non spesso.

Tecnicamente parlando, la migliore trasmissione del suono data da un ponte non tanto spesso (quindi non in grado di assorbire suono per la troppa inerzia) viene accoppiata con la discreta esaltazione delle frequenze basse data da una pelle molle. Se però volete il maggiore sustain dato da un ponte spesso (maggiore inerzia = risposta più lenta ma vibrazioni più durature), dovrete dare una piccola tiratina alla pelle (occhio, non tanto!). Col tempo saprete esattamente quanto tirare la pelle per i piccoli aggiustamenti che periodicamente saranno necessari, ma per il momento dovrete lavorare di tentativi. Con calma, una modifica per volta, e concedendo al banjo il tempo per assestarsi sulle nuove regolazioni.

Dice Butch Robins (su Masters Of The 5-string Banjo, libro ovviamente indispensabile) che la sua ‘session di tiraggio pelle’ col grande Tom McKinney durò 8ore, al termine delle quali sapeva esattamente che tensione dovesse mantenere la pelle del suo RB-4 nei secoli a venire. Se ci ha messo 8 ore Big Tom, ‘Mr. Set-up’ in persona, potrete immaginare quanto ci metteremo noi sfigatelli… Mai demordere, comunque.

2) Decidiamo che calibro di corde usare, dato che da questo dipenderanno altre regolazioni tipo spessore del ponte, tensione del tailpiece etc. Sapete che oggi le corde per banjo sono disponibili in tutti i calibri, da ragnatela a King Kong: dovete però ricordare che solo una calibratura esisteva negli anni ’20, quando alla Gibson ponevano le basi tecniche per i banjo che ci avrebbero ossessionato 70 anni dopo! Questa calibratura era, oggi diremmo, più o meno light, ossia attorno ai soliti (da 1a a 5a corda e ovviamente in pollici) .009, .011, .013, .020 e .009 o circa… Con queste tensioni sono stati progettati gli immortali flathead e archtop, e di questo, credo, dovremmo tenere conto. Ma è una mia opinione, quindi fate come volete.

Ricordate comunque le regole generali valide per tutte le corde in ogni strumento:

a) corde più spesse hanno tensioni maggiori, quindi maggiore volume (con fatica maggiore naturalmente), sustain più ridotto, e oscillazioni meno ampie sulla tastiera (e quindi possibilità di action più bassa); timbricamente sono privilegiate le frequenze più basse, o meglio ridotte quelle più acute (suono più rotondo), e il suono sarà più ‘contenuto’.

b) corde più sottili possono o devono avere action un pò più alta, avendo tensione minore e più ampie oscillazioni, hanno un pò meno volume e sustain più prolungato; dal punto di vista timbrico il suono sarà più brillante, un pò meno pieno ma spesso più in grado di ‘tagliare’ fra altri strumenti, e di solito sembrerà più ‘libero’ e aperto.

Per tutto ciò, se volete un suono più pieno potrete utilizzare corde più spesse, mentre per un suono più brillante avrete a disposizione le corde leggere. Già, mi dice qualcuno, ma allora perché Crowe, Scruggs e altri amanti del suono pieno usano corde leggerine? E qui dobbiamo tornare al discorso iniziale: se un banjo è stato progettato per corde leggere (come direbbe Gilberto Govi: quelle che non ce n’erano altre) tutte le sue tensioni saranno studiate per corde leggere. Per questo, con un pò di avvedutezza, potremo avere un flathead ruggente sui bassi e squillante sugli acuti con corde sottiline, con fatica ridotta per la mano sinistra. Se in ogni caso amate un suono meno sostenuto, più ‘choppy’ e pianistico (stile Bela Fleck, o anche Trischka di certi periodi), o se il vostro banjo ha veramente già troppo sustain e eccessiva brillantezza, allora potrete provare corde più spesse.

Ovviamente molto conta anche la ‘pesantezza’ della vostra mano destra, che potrà distruggere corde light in pochi secondi o al contrario non essere in grado di muovere corde spesse… E inoltre non dimenticate che la facilità a rompersi delle corde non è necessariamente legata al calibro delle stesse, quanto piuttosto, ancora una volta, al vostro tocco.

Scendiamo sul pratico? Okay: il mio consiglio è di provare inizialmente calibri leggeri ma non troppo, vedere come butta e quindi sperimentare in appesantimento o alleggerimento. Il mio set preferito a questo scopo è .010, .011, .013, .020 (fasciata), .010, il preferito di Alan O’ Bryant e molti altri. Se un set così vi da troppi acuti potete anche provare col vecchio set di Sonny Osborne: .011, .011, .013, .020, .011. Una calibratura di media tensione che trovate facilmente, senza dovere ordinare corde singole, è anche la solita .010, .012, .014, .022, .010, ma a mio gusto (mio gusto) è già troppo tosto.

Snuffy Smith ha studiato, con l’accordatore stroboscopico, un set di intonazione perfetta, che non è niente male e facile per le mani (lo vende, e sono corde GHS): .0105, .012, .013, .020, .0105. Per nessun motivo andrei, personalmente, su corde più pesanti dell’attuale ‘Sonny Osborne set’: .011, .012, .013, .022, .011.

I patiti di Bela Fleck però useranno sicuramente uno .014 sulla 3a corda (con le altre come nel set Osborne), mentre i Trischkiani avranno uno .011 su 1a, 2a e 5a corda, .014 sulla 3° e .022 sulla 4a.

Poi c’è Pete Wernick che va ancora più sul grosso con uno .024 sulla 4a corda, e non parliamo di Little Roy Lewis…

Sul versante leggero (il mio preferito da molti anni, anche se nel mio passato ho usato veramente di tutto) inviterei a provare il set di J.D.Crowe: .0095, .011, .012, .020, .0095. E’ equilibratissimo, facile sotto le dita, e in grado di darvi tutta la pienezza che potrete desiderare. Il set di Scruggs ‘light’ venduto dalla Gibson è simile, con uno .010 come 2° e .013 come 3°, ed è OK. Se poi sentite il suono ‘enorme’ di un Kenny Ingram vi chiederete perché non usino tutti il classico calibro light (v. prima), ma d’altra parte con lo stesso set Don Reno otteneva un suono del tutto opposto. L’importante è sperimentare a lungo, ed evitare di basarci sulle scelte dei nostri idoli… Costa? Sì, ma rende!

3) Giochiamo col ponticello: se vogliamo un suono brillante mettiamoci lì con un foglio di cartavetro sottile (fissato con colla o meglio biadesivo ad una superficie perfettamente liscia e piana), e assottigliamo lentamente il nostro ponticello, se possibile lavorando più sulla sommità (versante ebano) che sui piedini (molta superficie di contatto con la pelle è consigliabile), provando frequentemente a vedere cosa succede al suono reinstallandolo e ascoltando con attenzione. Rovinerete molti ponticelli in questo modo, con la classica ‘botta di troppo’, ma alla fine avrete imparato qualcosa.

Alcuni costruttori (Snuffy Smith) o venditori (Curtis McPeake) di ponti di alta-qualità saranno peraltro disponibili a procurarvi il vostro ‘ponticello ideale’ se gli descrivete banjo, set-up attuale e suono preferito, ma non è sbagliato buttare via un pò di soldi facendo esperimenti e quindi, spesso, imparando qualcosa: la ‘pappa pronta’ è comoda, magari meno costosa, ma vi fa maturare poco!

Personalmente (messaggio promozionale) fornisco ai miei ‘clienti’ 3 o 4 ponti da provare, per scegliere a ragion veduta e pagare solo quello/i trattenuto/i. Anche questo è un modo per fare confronti e quindi imparare. Per nessuna ragione, è il caso di ripeterlo, varrà la pena di lavorare su ponticelli di qualità inferiore: il mio consiglio è di iniziare con ponti Grover alti 5/8″ di discreto spessore (in vita mia ne avrò ‘lavorati’ almeno una cinquantina…), passando poi, in tempi abbastanza brevi, a cose più serie tipo Wadsworth o Snuffy Smith.

Dove acquistarli? Che domande! Ma da me (nuovo messaggio promozionale), naturalmente! O da Curtis McPeake, o dai molti venditori ‘mail order’ americani. I prezzi vanno dai pochi dollari (2 o 3, credo) dei Grover ai 20 $ o più dei Wadsworth e Smith: come sempre in questo campo la qualità si paga (“you get what you pay for”), anche se a volte non è proprio fondamentale pagare più di tanto.

Vale la regola che il vostro banjo avrà al suo meglio il suono della sua componente peggiore, quindi conviene sempre usare parti di qualità elevata, anche perché potrà accadervi di trovare, dopo numerosi tentativi e cospicue spese, il vostro ponticello ideale: da quel momento in poi, cari miei, potrete risparmiarvi ulteriori ‘sprechi’ per ponticelli!

Mi fermo qui: se notate ho parlato solo di ponticelli da 5/8 di pollice, e voi ben sapete che ce ne sono anche di più alti, e genericamente di ‘pelle’ quando voi sapete che ne esistono di diversi tipi e spessori. Alla prossima puntata l’analisi di questi dettagli, molto fondamentali, e di altri fattori del caro amato suono del banjo. E’ lunga, lo so, ma siamo o non siamo dei banjoisti seri? Stacco l’audio prima della vostra risposta… Ma colgo l’occasione per scusarmi, sempre che ve ne siate accorti, del mio lessico più spesso dialettale-velistico che da liutaio, con termini tipo ‘lasco’ o ‘tosto’, ma immagino non ve ne cali un gran che. Dormirò sereno, in attesa del vostro perdono. Bye.

Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 30, 1995

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