Banjo

Immagino che alcuni di voi si chiedano se io abbia ‘davvero’ intenzione di continuare a rompere con dettagli di set-up che, lo ammetto, troverebbero migliore collocazione in un ambito più personalizzato, di set-up di singoli strumenti. No, tranquilli, i discorsi su questo numero saranno lievemente diversi, non proprio generici ma comunque decisamente universali. Saprete già che sono reduce da una due giorni di full immersion con Tom McKinney, che mi ha immensamente illuminato (ulteriormente) sulle piccole cose che funzionano enormemente, e mi ha finalmente riportato il caro vecchio banjo Old Funky (RB-3 di acero, fatto di parti molto miste Gibson e non, di età varia da anni ’30 ad anni ’80) a suonare come quando era ancora suo, prima cioè che lo ‘crocifiggessi’ (naturalmente per superare il maestro e ‘migliorare’ il set-up!) cambiando tone ring, pelle, ponte su ponte, etc etc…

Tom non me lo perdonerà mai, ma so di avere imparato ancora qualcosa da lui, anche attraverso una sana umiliazione. A proposito di Tom McKinney, spero proprio che non abbiate mancato l’articolo su di lui, peraltro troppo breve, apparso su Bluegrass Unlimited di novembre: è molto istruttivo, anche se parziale. Non perdetelo.

Vorrei affrontare un discorso che ritengo valido per tutti gli strumenti a corda, e che può discretamente cambiare l’impostazione del set-up, anche se non di molto: il suono che noi sentiamo ‘ideale’ quando suoniamo da soli a casa nostra (in cucina, con quella bella acustica naturale che ci rimanda tutte le frequenze) quasi sicuramente non sarà ideale su un palco, con un microfono davanti a tagliare frequenze e regalarci problemi. E ve ne parlo col cuore, dopo averci sbattuto la faccia in studio e sul palco, e dopo essermi dato dell’imbecille per quanto poco ci sarebbe voluto ad evitare problemi e frustrazioni… In due parole, il suono ‘bello’ in cucina, soffice ma deciso, con le giuste armoniche, tutte le frequenze pulite ed esaltate, e volume ovviamente sufficiente, sarà quasi sicuramente moscio, privo di botta, piatto e insoddisfacente davanti ad un SM-57 o che altro.

Il mio ‘Banjo Guru’, cioè sempre Tom, mi dice: “You need a hard, banging sound to cut through”, e mi da dimostrazione di quanto questa capacità di ‘tagliare’ sia importante. Le sue regole d’oro, sempre valide anche nel generico, sono in fondo tutte ciò che vi ho già detto in fatto di solidità delle parti e del contatto fra di loro (v. tutti i Mai Dire Set-Up fino ad oggi), ma ci sono in più altri ‘dettagli’ di cui vado a parlare.

Primo fra tutti la tensione della pelle, che secondo Tom deve essere come minimo a sol# (anche se alcuni banjo funzionano bene anche a tensioni inferiori). E non avete (e non avevo) idea delle mille tensioni diverse che si trovano fra un sol# ‘verso sol’, cioè ‘sul versante molle del sol#’ e un sol# ‘vero’, e di quanto diversi possano essere i suoni alle varie tensioni.

Personalmente sono stato perplesso in un primo momento, quando Tom mi ha rimesso tra le mani ‘Old Funky’ con la pelle tirata di fresco a sol# e un suono che, per i miei gusti pre-settembre ’95, era ‘troppo duro’: ho sofferto con fiducia per tre giorni, in attesa dell’assestamento, poi la luce mi ha colpito, ed ho capito che solo così un banjo può realmente ‘uscire’ in qualsiasi situazione, sparare fuori tutte le sue frequenze, metterti in grado di non faticare con la mano destra da ferraio a cui i possessori di flathead sono adusi, e in fondo consentirti di giocare con tutte le sue possibilità timbriche e di volume, tutte le tonalità e i colori del suono.

E l’idea di un suono ‘troppo duro’ scompare dopo pochi giorni, non temete, mentre vi accorgete che ora potete anche ottenere suoni ‘soffici’ che però finalmente arrivano ovunque. Il segreto è di non superare mai determinate tensioni e non ‘strangolare’ il suono dello strumento, lasciandolo in grado di risuonare liberamente ma con quel tot di tensione che ‘spinge’ tutte le note, da basse ad acutissime. Tutti i discorsi fatti sul ponticello lo scorso numero sono ovviamente validi, compresa la regoletta ‘Ponticello spesso con pelle sottile/più tesa; ponte sottile con pelle più spessa/più molle’.

Tom sceglie il ponte anche sulla base delle fibre del legno (discorso lungo, difficile e a tratti molto controverso: ne parleremo), e di solito preferisce ponti da 5/8″, anche se su alcuni banjo monta ponti da 21/ 32″, appena più alti del 5/8″. I solchi delle corde a ponte e capotasto, come già detto altrove, devono essere angolati verso l’alto, per portare il punto più alto della corda dove questa lascia il solco. Tutte cose che ormai dovreste avere chiare, no? Tiremm innanz.

Occorre ora parlare di una parte fondamentale, che può cambiare radicalmente il suono di una banjo: il tailpiece, o cordiera che dir si voglia. I vecchi banjo del secolo scorso, di solito, avevano una semplice cordiera di osso, metallo o avorio che si limitava a dare attacco alle corde, senza aggiungere tensione. Il ‘No-knot’ ne è un classico esempio, e va benissimo per un banjo open-back con quel bel suono ‘plunky’, volume medio e sustain breve, che ogni suonatore di clawhammer ricerca.

Tutto diverso se suoniamo bluegrass: qui il tailpiece deve aggiungere tensione alle corde, per aumentare volume e risposta, e di conseguenza non può essere un semplice mezzo di attacco delle corde. Nel corso degli anni diversi costruttori si sono cimentati nella progettazione di ‘tension tailpieces’ in grado di dare il giusto suono a banjos che dovevano ‘tagliare’ attraverso grosse string band o gruppi swing, proiettare il suono in vasti auditorium, o giungere all’unico vecchio microfono RCA sul palco di Bean Blossom.

Al giorno d’oggi i tailpiece che hanno uso comune nel bluegrass sono pochini: il Grover Presto, il Kershner Unique, il Gibson (Grover) Clamshell, e volendo il Waverly (stile pre-war o meno) e i cosiddetti ‘finger tailpiece’ con regolazione separata su ogni corda. Presto, Kershner e ‘clamshell’ la fanno da padroni, quindi non temete: non avrete da impazzire per la scelta.

Le mie (e non solo mie) preferenze vanno al Grover Presto, che ha la lunghezza ed il peso giusti per il mio suono ideale. Anche il Kershner è valido (chiedetelo a Tom Adams), ma è piuttosto pesante e trovo che sia un pó tanto critico nella regolazione. Idem per il modello ideato da Stelling, che è in fondo una variazione del Kershner, ma con mille possibilità di regolazione in tutte le direzioni, e per il Price, che ha il vantaggio di non deviare lateralmente le corde (facendole così premere sul ponte solo in direzione della pelle) ma è comunque pesantino (ripeto: gusti miei. Bill Keith e altri banjoisti molto seri adorano il Price, perché a loro parere fa rendere al massimo il ponticello). Il Grover Presto è leggero (e infatti è anche fragilino e richiede di non essere maltrattato), spesso non è regolabile, e consente di dare quel giusto di tensione che non faccia muovere il ponte, senza soffocare il suono. La sua regolazione non è critica, ma come ogni altra cosa nel set-up non è la stessa per tutti. Il parere del mio Banjo Guru è che il Grover Presto debba essere lasciato inizialmente senza tensione, con le corde accordate (a La=440 Hz), quindi debba essere tirato verso il basso usando il vitone (quello che si avvita solo togliendo il resonator, parallelo ai ganci di tensione della pelle), fino ad appoggiarlo molto leggermente al tension hoop, ma senza forzare.

Questo è sì un momento critico: ho visto alcuni Presto schiantati in due da banjoisti che continuavano ad avvitare senza rendersi conto che il tailpiece appoggiava già al tension hoop, ma da una parte sola! Usate eventualmente un foglio di carta sottile per controllare la distanza: se può scorrere fra tailpiece e tension hoop avete ancora spazio, e un piccolo tocco alla vite completerà il lavoro. A questo punto riaccordate il banjo (che sarà finito almeno 1/2 tono sopra il giusto), e se volete date una piccola avvitata alla vitina laterale, quella che fa abbassare la parte anteriore del tailpiece, verso il ponte: a mio gusto questa avvitata dovrebbe solo lenire ad evitare che la vitina si molli con le vibrazioni e venga perduta nel pieno della birreria Pedavena di Chissadove (BN), ma in alcuni rari casi un aumento di tensione a questo livello si potrà tradurre in botta extra.

Come sempre, ad un primo ascolto il suono vi sembrerà ‘troppo duro’, ma anche in questo caso il mio consiglio e lo stesso: abbiate pazienza, e sarete premiati dopo l’assestamento. So che molti non la pensano così, e ho visto tanti banjo con il tailpiece librato a mezz’aria: la mia idea è che il loro suono sia splendido in cucina, e troppo molle sul palco. Ho avuto conferma recente di questa regola lavorando sul Deering GDL di Marco Giacomasso (ex-Dino Barbè): sono pronto a giurare che mai prima d’ora quel banjo ha avuto una simile botta sulla quarta corda, e un suono così da Kalashnikov pur con tutte le fini armoniche del tone ring Deering. Udire per credere.

Trovandomi a lavorare con altri tailpiece adotterei gli stessi criteri di base: massimo abbassamento al loro attacco sul tone ring o sulla flangia, e tendenzialmente poca tensione verso il ponte, per evitare di ostacolarne le vibrazioni.

Secondo Earl Scruggs i tailpiece molto lunghi (come gli Ode, dice lui, o anche gli Stelling regolati tutti avanti, dico io) rischiano di soffocare il suono. Osservate il Kershner montato sul Gold Star di Tom Adams: la parte verso il ponte è decisamente in salita. Farei lo stesso anche con i più leggeri Price, ma darei invece un minimo di tensione al corto e leggero Clamshell (che trovate di serie sui Gibson RB-250) e a tutti i Waverly, che per loro struttura partono molto alti sul tension hoop.

Non bisogna comunque dimenticare che l’unico giudice serio è sempre l’orecchio, che vi dirà se le vostre modifiche, piccole o grandi, hanno effetto positivo o negativo sul suono in tutte le sue componenti: risposta, profondità, volume, chiarezza e così via. Anche qui non basatevi sulle foto del banjo del vostro idolo o sui consigli dell’ultimo americano da voi conosciuto: un buon set-up richiede profonda conoscenza dello strumento, esperienza, errori fatti ragionati e maturati, e soprattutto apertura mentale e tanta pazienza. E tempo. E follia?….

Parliamo un pò di ponticelli, per tentare di chiarire quanto vi ho propinato su 5/8″, 21/32″ etc.. Un tempo esistevano ponti di due sole altezze: 5/8 di pollice (15,87 mm), considerati più o meno standard, e 1/2 pollice (12.7 mm) per chi voleva action da pappamolle. I ponticelli da 5/8″ erano standard nel senso che su questa altezza veniva assettato l’angolo manico-cassa, da cui in pratica derivava la pressione esercitata dalle corde sulla pelle, e con essa la tensione globale del banjo, la facilità per le mani etc etc etc. Tutti i grandi banjoisti del passato (e anche del presente), da Scruggs a Stanley a Osborne a Crowe, hanno in pratica ‘trovato il loro suono’ con ponticelli da 5/8″. Verso la fine degli anni ’70 un certo Snuffy Smith, allora da Springdale, Arkansas, giunse alla conclusione di anni e anni di studio sulla struttura e la funzione del ponticello, utilizzando anche l’esperienza dei liutai classici, e sperimentando con concetti e soluzioni da secoli canonici sugli strumenti ad arco, ma del tutto rivoluzionali sul più ‘modesto’ banjo. Le conclusioni dei suoi studi, in poche parole ed omettendo i ‘segreti’, furono che:

1) ponticelli più alti del solito 5/8″ aumentano risposta e volume in qualsiasi banjo, incrementando la pressione che le corde esercitano sulla pelle;

2) l’aumentata risposta fa sì che il ponticello possa essere lasciato più spesso del solito, guadagnando in frequenze basse a sustain senza che il suono ne risulti confuso;

3) la regola ‘ponte più alto = risposta e volume accresciuti’ è valida fino ad un certo punto, dato che esiste un confine oltre il quale l’eccessiva pressione sulla pelle soffoca il suono;

4) un ponticello tagliato in modo che la sua faccia verso il tailpiece sia perpendicolare alla pelle (come i ponticelli dei violini) è meno suscettibile ad inclinarsi verso il manico fino a cadere, e tende più facilmente ad aderire alla pelle in modo corretto, consentendo così una migliore trasmissione del suono;

5) la scelta della ‘vena’ del legno è assolutamente essenziale, cosa questa quasi ovvia in liuteria tradizionale ma misconosciuta dai grossi produttori di ponticelli. La regolarità delle fibre, il loro orientamento parallelo fra di loro e possibilmente anche alla superficie della pelle, e la spaziatura delle fibre sono tutti fattori determinanti il tipo di suono che ogni singolo ponticello potrà dare, quindi vanno valutati con attenzione.

6) parimenti essenziali per la produzione del suono sono la forma del ponticello e la sua massa, specialmente considerando l’altezza della striscia di ebano (che secondo Snuffy deve essere ridotta, molto inferiore a quella dei classici Grover) e il suo rapporto con l’altezza dell’acero al di sotto dell’ebano, cioè con quella che alcuni definiscono l’altezza degli ‘archi’ compresi tra le gambe del ponte. Se è vero che una striscia di ebano alta conferisce robustezza al ponte e ne riduce la possibilità di ‘imbarcarsi’ col tempo, è anche vero che tale altezza di ebano tenderà a irrigidire il suono, mentre una striscia troppo sottile darà un suono altrettanto debole. Così gli ‘archi alti’ (poco acero sotto all’ebano) daranno un suono più aperto, un pò nasale, e al limite estremo senza corpo, mentre gli ‘archi bassi’ (molto acero sotto all’ebano) daranno un suono più corposo, ma in molti casi anche meno definito.

Queste alcune regole generali stabilite, correttamente, da Snuffy Smith. Che cosa ne consegue? Innanzitutto che per avere un ponticello veramente buono si deve ‘sprecare’ una grande quantità di legno (acero o altro), essendo costretti a badare all’orientamento delle fibre: scordatevi, quindi, che un qualsiasi produttore di ponticelli ‘industriali’ possa buttare soldi in favore della qualità. Troverete certamente un ponte Grover o Saga o Pipicchio con la giusta vena ed il giusto orientamento, ma sarà 1 su 1000, ben che vada. E tutto ciò, in sintesi, significa spendere un pò di più.

Poi ne consegue che il ponticello ‘giusto’ per noi sarà quello che combinerà in modo ‘giusto’ altezza, spessore, spaziatura delle fibre e loro orientamento, altezza degli archi e (ovviamente, come è valido di base per tutti i ponticelli) anche qualità e stagionatura del legno. Complicato? Sì, e parecchio, anche perché tipo e stagionatura del legno sono terribilmente importanti, e significano anche notevole aumento del costo del legno (considerato quanto se ne butta via), e gli altri fattori sono sì validi, ma con infinite eccezioni.

Ad esempio, un orientamento delle fibre parallelo alla pelle è solitamente il preferito da Snuffy, ma molti (me compreso) preferiscono invece una vena un pò in salila nel verso da tailpiece a manico, come tale parallela alle corde nei loro solchi (e ovviamente ho trovato ponticelli incredibili con la vena in senso opposto!).

La spaziatura delle fibre dovrebbe seguire la regola ‘fibre più rade = frequenze basse/medio-basse esaltate ma risposta ridotta, e fibre più fitte = migliore risposta ma esaltazione degli acuti a discapito dei bassi’, ma anche qui non c’è religione, dato che in alcuni casi è vero l’opposto (attualmente su Blondie ho un ponte Wadsworth con vena fittissima, e dovreste sentire i bassi che Blondie tira fuori). Che fare? Semplice: come sempre occorre provare e riprovare. Decidete se preferite privilegiare volume e risposta oppure timbro, quindi decidete se volete un ponte da 5/8″ o il più alto 11/16″, o addirittura un ponte da 3/4″, poi decidete se preferite un suono più o meno aperto (altezza degli archi), e se volete un suono più o meno soffice (spaziatura della vena), quindi ordinatevi un certo numero di ponticelli di qualità, siano essi Snuffy Smith o Wadsworth o quello che volete voi, e provateli, provateli a lungo senza modificarli.

So che vi sto invitando a cacciare un pò di lira, ma temo che sia l’unico modo in cui potrete arrivare al suono che desiderate voi. Alcune scelte saranno obbligale, purtroppo o per fortuna: se il vostro banjo ha una risposta di base deboluccia vi toccherà forse usare un ponte da 11/16″, o addirittura se l’angolo manico/cassa è troppo deciso dovrete usare un 3/4″ (come tocca fare a Sonny Osborne: quello sfigato si è trovato un Granada con un manico angolatissimo, ed è costretto ad usare ponti alti! Che poverino, vero?).

Se al contrario il vostro banjo ha già una bella botta potrete sfruttare il ‘calore’ di suono che un ponte da 5/8″ ha in misura molto maggiore rispetto a ponti più alti. Va da sé che l’altezza delle corde è essenziale nella scelta del ponte: non potrete usare ponti da 11/16″ o più se l’action diventerà troppo alta, costringendovi a lavorare di coordinator rods per abbassarla e perdendoci così in suono, e non potrete usare un ponte da 5/8″ se le corde saranno così basse da sbattere (alcuni costruttori moderni assettano il manico per ponti da 11/16″, quindi questo può succedere). Per queste ragioni alcuni ‘pontisti’, Snuffy in testa, producono ponticelli anche nelle ‘mezze taglie’, tipo 21/32″, consentendo a chiunque di trovare il giusto compromesso fra action, volume e timbro.

Il tipo di timbro di base del vostro banjo, infine, condizionerà la vostra scelta di ‘archi alti’ o ‘archi bassi’, ma qui è solo questione di gusti: l’importante è che il suono prodotto sia in ogni caso ‘hard & banging’, se volete dare ascolto alla mia esperienza e a quella di Tom, J.D., Earl e altri; forse Sonny e un paio di altri possono essere sicuri di trovare un impianto di amplificazione sempre in grado di fare uscire bene tutte le varie nuances timbriche del loro strumento, ma noi esseri umani faremo bene a non fidarci, e a metterci sempre in condizione di essere sentiti bene anche con l’impianto tipico da birreria, con pochi microfoni malfunzionanti e casse dal suono confuso.
E fidatevi! Se non di me, almeno di Tom McKinney: Totò direbbe che set-up men si nasce, e lui lo nacque.

Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 31, 1996

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