E’ pioggia porca quando arriviamo allo Smeraldo, alle 15 circa, ma si sa che in questi casi l’eccitazione per il grosso evento supera qualsiasi disagio fisico. O no? Abbiamo le nostre conferenze stampa, più o meno private, programmate, e una molto solerte signorina ci guida a un tavolo, sedie e piccolo impianto mentre la band di Trisha Yearwood fa un sound check rilassato e molto seriamente nei tempi programmati. Siamo solo noi di Country Store (Faulisi, Manciotti e Ferretti), più Raffaele Galli del Buscadero. Alcuni hanno domande preparate, altri improvvisano…
Rodney Crowell imposta la conversazione su tono quasi intimo e distanze ridotte (non si sente una mazza), spiegando che il tour, per quel che lo riguarda, è stato pensato come reunion della Hot Band originale a distanza di vent’anni (commovente), ma in realtà non è proprio la Hot Band originale (…quasi commovente… ) perché metà elementi sono sì stati nel gruppo ma in tempi diversi. Non ce ne potrebbe fregare di meno, perché in ogni caso sapere di vedere da lì a poco Albert Lee, Glen D. Hardin, Michael Rhoades, Vince Santoro e Steve Fishell, in compagnia dello stesso Crowell e ovviamente di Emmylou Harris sarebbe già abbastanza per orgasmare.
Se sei un countrettaro normale, è chiaro… Spiega che la sua strada attualmente è molto lontana da quella di 20 anni fa, la sua musica è diversa, anche se come sempre è il frutto della sintesi di tutte le influenze a cui nel corso degli anni è stata soggetta: molto rock, rockabilly anni ’50, country di tutti i tipi, folk, personali elucubrazioni ed elaborazioni.
A Faulisi che gli attribuisce un tentativo di ingresso nel mercato pop con l’album Life Is Messy risponde che no, non è stato un tentativo conscio e commerciale in quel senso come molti hanno pensato, che la sua musica dipende più dalla sua vita che non da scelte al tavolino, e in quel periodo la sua vita comprendeva un divorzio, l’essere ‘ragazzo padre’, l’avere bruciato ponti anche musicali con l’ex-moglie Rosanne Cash, in sintesi tutto ciò che può rendere la vita un casino (titolo del tutto esplicativo, quindi).
Concorda con Manciotti sul fatto che la country music oggi goda di un notevole successo commerciale, come attestano i 51 milioni di album venduti da Garth Brooks e il continuo fiorire di nuovi nomi, ma ricorda che ‘less is more’, che quantità non significa necessariamente qualità, e che la country music in realtà negli States continua in gran parte ad essere considerata musica da classe medio-bassa, quindi molto snobbata da grosse fette di pubblico, ma che in ogni caso come in passato il pubblico della country music continua ad essere fatto di appassionati, fedeli al genere e stabili nel sostegno ad esso.
Non sa dire quale sia il futuro del genere, ma sicuramente sa che la definizione ‘New American Music’ data al tour non può portare nessun vantaggio: “Cosa c’è di sbagliato a definirla country and rock’n’roll music? Country and rock’n’roll music, la fusione dei due generi, significa Elvis, Chuck Berry, Everly Brothers, e quello che Emmylou ed io suoniamo. New American Music è solo un titolo stupido per un tour, che potrebbe applicarsi a chiunque e serve solo a confondere ulteriormente le idee”.
E la sua stessa musica, d’altra parte, è poco incasellabile: c’è rock, country, ballate tristi da folksinger, honky tonk, rock’n’roll stile Jerry Lee Lewis e altro, senza eccessiva progettazione commerciale perché questo genere di musica ha successo commerciale solo, sembra, per caso e ogni tanto. Le sue influenze maggiori, dice, sono state Bob Dylan, John Lennon, Hank Williams, Merle Haggard, Buck Owens, Big Joe Turner e Chuck Berry, oltre naturalmente a suo padre, con cui iniziò a suonare da ragazzino, e il suo prossimo album (Jewel Of The South, co-prodotto con Tony Brown) uscirà in giugno e sarà un album di country-rock sullo stile del suo primo.
Pare che stia per andarsene quando il Manciotti tira la freccia del Parto, e gli chiede di commentare una frase che recita “La musica country è la musica che ascolta chi ama la musica country”, che poi vuol dire che un produttore potrebbe vendere come country qualcosa che country non è, se sa di rivolgersi ad un pubblico affezionato. Meditazione. Poi Rodney dice che in realtà ‘country’ ha sempre significato musica che racconta qualcosa, che evoca immagini, che ricrea di volta in volta la tradizione di ‘storytelling’ irlandese o scozzese nelle montagne Appalachians, un genere unico fra musiche che non sono interessate a ‘raccontare’ ma piuttosto di volta in volta a fotografare o commentare o svolgere tesi (grunge, rap etc).
Certo ha ragione Manciotti nel dire che la musica country più di altri generi musicali assorbe dalle fonti più diverse, ma per Crowell anche questo va ricondotto al solito problema, ai soliti cliché: il pubblico della musica country è fatto di cittadini di seconda classe, ignoranti, stupidi, hillbillies ecc, ecc. Continuamente la musica country deve giustificare la propria esistenza, quando in campo musicale nessuno l’ha mai dovuto fare, Prince, grungisti o chi altri, usare fiumi di parole per far accettare la propria semplicità e bellezza.
Gli cito una frase di Joan Baez, che afferma che quasi solo nella country music ormai la voce bella e una melodia bella hanno importanza, e lui riconosce che la produzione, nei dischi country, è costantemente tesa a mettere in risalto la voce, laddove nel pop o nel rock spesso voce o tastiera sono sullo stesso piano. Country music significa una voce che canta una canzone, in primo pano, poi viene la produzione, sottomessa però alla canzone. “The song first”.
Marty Stuart è molto soddisfatto del tour fino a quel momento (siamo alle ultime battute), Manciotti chiede anche a lui se pensa che ora che la country music ha successo commerciale stia iniziando la battaglia per preservarne le vere radici. “‘E’ come quando Pilato, crocifisso Cristo, disse che era tutto finito, e qualcuno gli disse che no, tutto stava appena iniziando! Ci sono artisti oggi nella country music che hanno successo, e non sanno nemmeno da dove venga la country music, e penso che gente come me, Emmylou Harris, Travis Tritt, Dwight Yoakam, Alison Krauss, Ricky Skaggs, Alan Jackson, Randy Travis, tutti tradizionalisti nel profondo, abbiamo la responsabilità di conservare la fedeltà alle radici e far sapere a tutti che è in mani sicure.
Per questo la mia musica è Hillbilly Rock, ma quando ho iniziato a fare dischi qualcuno, non sapendo come definire un genere così diverso da quanto si sentiva in giro, lo iniziò a definire Rockabilly, e a Nashville quando chiami qualcosa Rockabilly è come dargli il bacio della morte, forse perchè negli anni ’50 Elvis spaventò tutti a morte, mettendo praticamente la country music fuori mercato! Per questo sono fuggito da quella definizione al più presto, e ho pensato che il termine Hillbilly potesse andarmi bene, se andava bene a Hank Williams!”.
Certamente è sempre legato al mondo bluegrass, ha presentato parte degli Awards all’IBMA World of Bluegrass nel ’94, e la sua band preferita è la Nashville Bluegrass Band, con il violino di Stuart Duncan, la voce di Alan O’Bryant, e Roland White che gli ha fatto da padre nei primi anni della sua carriera a Nashville. E pensa che alcuni cantanti bluegrass possano avere buone possibilità come cantanti country, in particolare Harley Allen e Charlie Sizemore.
E’ anche d’accordo sul fatto che nella transizione da bluegrass a country sia commerciaimente meglio non evidenziare troppo la propria origine bluegrass, come avevano fatto lui e molti altri, da Ricky Skaggs a Keith Whitley, ma poi: “Guarda cosa ti trovi? Musica priva di radici e lontana dalla tua anima, e io devo suonare una musica che sento dentro!
Il bluegrass è musica con una forte anima, Bill Monroe continua a suonare a 80 e passa anni, e c’è gente che ha avuto hits molto più grandi dei suoi ma è ormai dimenticata da anni. Se sai suonare il bluegrass sai suonare tutto, e inoltre il bluegrass ti avvicina alle radici della country music, rockabilly, blues, rock ecc, il cuore e l’anima della musica, e se perdi questi ti trovi con un mucchio di dischi commerciali che puoi cacciare via. I DJ ragionano diversamente, ma il segreto è trovare una canzone che funzioni per loro e per quello che senti dentro.
E’ una sorta di cerchio: se inizi col bluegrass, prima o poi ci ritorni, e io sono sul punto di progettare di registrare un disco interamente bluegrass. E molte canzoni per i giovani sono del tutto nuove: High On A Mountain, ad esempio, per me era un pezzo nuovo, non sapevo che risalisse agli anni ’40 e a Ola Belle Reed, e così con Doing My Time di Flatt & Scruggs, che mi ha fatto risalire a Jimmy Skinner che ne era l’autore, aprendo nuovi mondi. Per i giovani quasi tutto è novità “.
Si parla poi dell’importanza che TV e video hanno avuto per la sua camera: Marty pensa che sia stata notevole, ed è felice di averne convinto la propria etichetta, riluttante dapprima a investirvi dollaroni. L’ottimo impatto visuale della band, e l’essere esposti ad un pubblico di 75 milioni di spettatori hanno dato ragione a Marty, che ritiene la televisione naturale per lui anche se considera i video più importanti commercialmente perché più rivolti ad un pubblico selezionato.
Marty è rilassato, parla del suo primo disco, dell’impatto negativo/stravolto ottenuto presentandosi a Nashville con un look nuovo ma vecchio (capelli lunghi, giacche di Nudie o alla Porter Wagoner, canzoni molto rock e molto country) nel momento in cui George Strait e gli altri ‘cowboys’ [sue parole] andavano per la maggiore: sapeva di avere i numeri, e in fondo lo sapevano anche i dirigenti delle case discografiche, ma era un pó in anticipo sui tempi. Facile ma infruttuoso il contratto con la Columbia, difficile quello con la MCA, proprio per il tipo di proposta musicale, pericolosamente innovativa nel suo tradizionalismo, e forse proprio per questo necessaria a colmare un vuoto di mercato. Le sue collezioni di giacche (più di 300) e di chitarre (da urlo), e bye ‘Marny’.
Trisha è diversa, piuttosto formale (la sua conferenza stampa non è ‘privata’, ed è fatta tramite l’impianto e un interprete che vabbè…). Dice che la scena country al femminile oggi sta crescendo molto, ed è portatrice di proposte diverse da quelle più monotone degli innumerevoli ‘hat acts’ con Stetson e camicia a righe, le canzoni country al femminile solitamente si rivolgono ad un pubblico più ampio e toccano argomenti di interesse comune ad ambedue i sessi, quindi hanno anche maggior potenziale commerciale.
Lo stesso New American Music Tour è nato per mostrare un panorama ampio della moderna country music, che è diversa da quella di un tempo, ovviamente, e più sfaccettata.
Il genere di country music di Trisha Yearwood, d’altra parte, non può essere classificato molto agevolmente, ed è chiaro, dice, che l’essere cresciuta in una famiglia con interessi musicali diversissimi, l’avere ascoltato artisti diversi come Linda Ronstadt o gli Eagles, e l’avere lavorato come session singer per demos o album altrui ha avuto come ovvio e inevitabile effetto un ampliamento delle possibilitá tecniche ed espressive della sua già notevole voce, oltre che una personalissima duttilità nell’adattarsi a canzoni che spesso di country hanno pochino.
Michele Anselmi (L’Unità) chiede se esista la possibilità per la country music di perdere la connotazione (peraltro falsa) di musica regressiva o francamente reazionaria che un insieme di circostanze le ha regalato una ventina di anni fa in Europa e in particolare in Italia, e aprirsi a pubblici più ampi: Trisha gli risponde solo in parte, ponendo l’accento sull’importanza che anche negli States hanno avuto i concerti (suoi, di Garth Brooks e di molti altri), per conquistare una nuova audience, e si dichiara convinta che un aumento dei concerti di artisti country americani in Europa porterebbe vantaggi a tutto il business della country music.
Dice poi che anche per lei il rispetto della tradizione è fondamentale per conservare l’integrità della musica country, e aggiunge che pur con l’aiuto del proprio produttore, Garth Fundis, i pezzi vengono in fondo scelti da lei, che non potrebbe mai cantare un pezzo in cui non credesse, anche se valido commercialmente. E ciao Trisha.
Nella successiva conferenza stampa pubblica di Marty Stuart ben poco viene aggiunto a quanto già detto. Stuart ribadisce che sebbene sia costretto, con la sua Band, a suonare ad alti volumi e con una sana dose di rock nella strumentazione e negli arrangiamenti, tuttavia il genere di country music che preferisce è il classico ‘voce più strumenti acustici’ in un ambiente piccolo. Anche perché il rispetto per la tradizione è spesso oggi la più forte motivazione, per un giovane artista, a suonare la musica dei maestri del genere: Bill Monroe, George Jones, Merle Haggard, Buck Owens, Ray Price, tutti coloro che hanno realmente costruito la country music negli anni passati ricevono finalmente un giusto riconoscimento da parte di chi oggi, in fondo, fonda il proprio successo sul loro lavoro nel passato.
Giusto riconoscimento, peraltro sempre molto evidente nell’atteggiamento quotidiano e nelle attività pubbliche di Marty, e doveroso per un artista che ha potuto decollare nella country music in giovane età proprio grazie alla ‘scuola’ e al quotidiano aiuto di questi grandi del passato.
Il concerto
“We’re a honky tonk band, we play loud” ci ha detto Marty Stuart, e capiamo che non mente fin dalle prime note: il volume è decisamente da concerto rock, purtroppo con sacrificio delle dinamiche e della finezza di toni (mia opinione, naturalmente, ma tenete presente che sono ‘cresciuto’ a concerti dei Rolling Stones, Emerson Lake & Palmer e fracassoni del genere quindi ho le orecchie abituate). Possiamo quindi serenamente scordarci dinamiche da CD, ma sicuramente Marty in apertura è una carta vincente, e ha il pubblico che gli mangia dalla mano in un paio di minuti.
Alterna i migliori pezzi dei suoi album con un repertorio classicamente rockabilly (Don’t Be Cruel) e con un paio di pezzi solo di chitarra acustica, sì, bluegrass. Numerosi i ‘linedancers’, in gran parte americani, trattenuti a fatica da un servizio d’ordine ferreo. D’altra parte lo stesso Marty invita a ballare, quindi il casino è legittimo, ed è sicuramente meno fastidioso della limitazione delle foto (con rigoroso divieto di flash) ai primi tre pezzi di ogni set, anche per i fotografi seduti !
In questo ambiente c’è chi è serio, e c’è chi fa il serio… Marty fa spettacolo, svolazza sul palco con la sua giacchetta ricamata multicolore e le sue incredibili chitarre, e la band (tutti solidi professionisti) lo sostiene al meglio. Confesso di essermi un pò dispiaciuto quando il ragazzo ha dovuto cedere il palco a Trisha Yearwood, ma forse è solo un mio problema di ‘Elvis nostalgia’…
Trisha è sicuramente grande, la sua voce è qualcosa di unico nella country music, i suoi pezzi sono di rara finezza e di gusto ineccepibile (chi pensa a balle di paglia, muli, Deliverance e banjo a stecca può rivedere un paio di idee… ma è forse solo vero che il termine ‘country’ sta stretto a Trisha), e la sua band (con due signorine bionde e brave a fiddle, tastiere e chitarre) è una macchina multicolore. Trisha, sinceramente, non si sa molto muovere sul palco, nel senso che va continuamente avanti e indietro, con minimi movimenti di testa e braccia, ma è la sua voce che cattura l’attenzione, particolarmente quando la band si dispone stile ‘unplugged’ e rende ‘acustici’ (ancorché anni ’90) un pó di ‘vecchi ‘ successi della Yearwood, fra cui, l’avete certo indovinato, She’s In Love With The Boy.
A distanza di un mese e mezzo, forse qualcosa della magia del momento si è già persa nel mio ricordo, ma la country music ‘da camera’ di Trisha Yearwood è in grado di affascinare anche l’ascoltatore più esigente, se naturalmente è di mente aperta. La ragazza è forse freddina dal vivo, in netto contrasto col calore della sua voce inimitabile, ma probabilmente anche questo fa parte del personaggio raffinato e ‘urbano’, con il vestito pantalone da sera nero…
Emmylou infine, con la band che vi ho già presentato. Pochi, ne sono convinto, possono essere stati freddi di fronte all’arrivo sul palco di personaggi che hanno contribuito a creare la country music come la intendiamo oggi. Emmylou mi emoziona, mi commuove, mi ipnotizza, mi conferma che non posso fare a meno di amare la sua musica e la sua incredibile personalità, anche se i troppi decibel fanno capire poco delle frasi di chitarra di Albert Lee, confondono la ritmica della Gibson ‘Everly Brothers’ di Rodney Crowell, e ben poco fanno sentire del piano di Glen D. Hardin.
Lei, in ogni caso, è una regina, e riesce a rinnovare con freschezza la magia di pezzi ascoltati un milione di volte, da Poncho And Lefty a Leavin’ Louisiana In The Broad Daylight, a Luxury Liner, a Wheels, al più nuovo Prayer In Open D. Ad ogni membro della band viene dato spazio e risalto, il ritmo del concerto è ben dosato, e lei è lei, che altro si può dire?
Forse vi creerà un problema sociale non da poco il dissentire dal Prof. Alberto Tonti, opinionista che tutta l’editoria mondiale ci invidia, o (Dio vi perdoni!) mettervi in contrasto con quel mostro sacro della musica contemporanea e grande scalatore di classifiche che è Eungenio (si scrive così) Finardi [ma perché l’extraterrestre non gli ha dato ascolto?..N.d.A], ma credo possiate non vergognarvi troppo se, trovandovi allo Smeraldo quella sera, vi sarete trovati con un’idea di pelle d’oca dietro al collo per uno qualsiasi dei cori della Hot Band o degli assoli di Albert Lee.
Comunque lo si sa: chi ama la musica country è sicuramente molto stupido, con tre narici e senza denti, e suona il banjo seduto su una balla di paglia mentre suo cugino tenta di sodomizzare uno degli amici di Burt Reynolds…no? Noo?…
Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 29, 1995