Chicago, all’inizio del ventesimo secolo, non un posto tranquillo. Milton Mesirow, figlio di immigrati russi, impara a suonare il clarinetto nella banda del riformatorio. E’ l’inizio perfetto di ‘una tipica storia americana, ma capovolta’, una metamorfosi che parte dal nome trasformato in Mezz Mezzrow, più adatto a mimetizzarsi nelle battaglie quotidiane di quartiere in quartiere.

Crescere in pubblico a Chicago, voleva dire scoprire ben presto le leggi della street life, e saper cogliere in fretta che «c’era qualcosa nell’aria che sapeva di grandi imprese; i marciapiedi erano sempre fitti di gente: grandi giocatori, gangster vestiti all’ultima moda, spille incrostate di diamanti alla cravatta, gallinelle, di cui tutta la città parlava, che scodinzolavano tranquille su e giù per la strada. I poliziotti giravano nelle vicinanze su grosse Cadillac irte di fucili. Tutto poteva capitare in quelle strade, e di solito capitava».

Le memorie di Mezz Mezzrow recuperate in Questo E’ Il Blues (Red Star Press, 280 pagine, 19 euro) riportano, con una lingua gergale, colorita, spesso ironica e drammatica, la testimonianza genuina di un protagonista che è sempre stato borderline, tra la musica e il lato sbagliato della strada, una condizione non improbabile visto che «nel 1926 la danza di San Vito, punteggiata dal ritmo dei mitra, si diffuse per tutto il paese. Dal tramonto all’alba non si fece che suonare il jazz, bere whisky di contrabbando e abbandonarsi alla pazzia».

Non senza una certa classe, Mezz Mezzrow era ambivalente: smerciava marijuana e suonava, attività che non era considerata molto più legale perché «in quegli anni, la nostra musica e i suonatori di jazz erano disprezzati dai cittadini per bene: ci guardavano come rospi usciti di sotto una pietra per fare qualche porcheria. Nessuna aveva la minima idea di che cosa volessimo fare del jazz».

La prima voce che gli fa scoprire che la musica produceva «un orgasmo mentale» è Alberta Hunter quando canta He May Be Your Man, But He Comes To See Me Sometime. La cronaca di Mezz Mezzrow è puro stupore, visto che «per poco non crollava il locale. Alberta si fermava ad ogni tavolo per cantare un refrain: ripeteva la canzone dieci o quindi volte e sempre con una leggera variazione».

L’ingorgo di emozioni è ancora più evidente quanto sente Bessie Smith cantare Young Woman Blues. L’incanto è immediato, repentino, senza appello e Mezz Mezzrow  si  convince che deve avviarsi «anima e corpo, verso il mondo di Bessie Smith».

L’omaggio è un crescendo di fuochi d’artificio, perché:

1) «era una vera donna, tutte le donne del mondo riunite in una persona sola»;

2) «possedeva così sonore vibrazioni e i suoi toni squillavano così chiari, pieni e sonori, che si sarebbe potuto sentire il suo canto a qualche isolato di distanza»;

3) «ogni nota che quella donna gemeva, faceva vibrare tutte le corde del mio sistema nervoso. Ogni parola che cantava rispondeva ad una mia domanda inespressa. Ciò che più mi colpiva in quei dischi erano la modulazione e la divisione delle parole, per adattarle al disegno musicale; le parole venivano pronunciate in funzione della musica»;

4) «il suo stile era così personale, che nessuno riuscì mai ad imitarlo. Il modo con cui faceva sgorgare la sua ricca musica era un perfetto esempio di improvvisazione: l’accompagnamento non intralciava mai, perché essa lo creava ogni volta, in modo da adattarlo al pathos della storia che narrava e interpretava. Quando era necessario, sapeva deformare e creare l’accompagnamento, pronunciava le vocali della lunghezza giusta, lasciava cadere le consonanti che davano noia, poggiava con l’enfasi esatta su ogni sillaba, per farvi sentire con la massima precisione ciò che voleva dire. Ogni sua canzone era un dramma, rivissuto con estrema intensità; ogni sua canzone sempre il suo dramma personale».

Nonostante gli impegni e le crescenti distrazioni, Mezz Mezzrow è un osservatore acuto e un testimone credibile: è lì dove comprende che nelle componenti fondamentali di quella musica le circostanze valgono più delle formalità, l’espressione è più importante della conoscenza, e l’essenza è nello spirito, non nella conquista.

Sono «i blues, i veri blues, i blues che uno sente dalla punta dei capelli alle dita dei piedi» i motivi che lo spingono a sopportare una vita di stenti e di espedienti, raccontati con estremo candore, come il ricordo dei musicisti pagati con le anatre trovate nelle ghiacciaie (quello che restava di un locale dove avevano suonato) e la convivenza forzata con i gangster, con i quali finire cadavere in un fosso non era un’ipotesi così remota.

La lotta per la sopravvivenza in quello che Mezz Mezzrow chiama «un mondo equivoco» non gli impedisce di celebrare la sua profonda ammirazione per quei jazzisti che inventavano senza sosta e si lasciavano trascinare da un senso di libertà assoluto.

Un paio, su tutti. Bix Beiderbecke è tra i primi a condurlo nei meandri dell’improvvisazione, quando il jazz era ancora ‘hot’, e il suo ritratto sembra una fotografia d’epoca, solo un po’ ingiallita: «Bix suonava una cornetta che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso affare inargentato, che sembrava fosse stato raccolto proprio in quel momento dalla spazzatura. Mentre suonava, s’era piantato davanti a me, perché noi eravamo i due strumenti di spalla, e le esalazioni di whisky che mi soffiò sul naso per poco non mi fecero svenire; ed anche la musica che usciva dal suo strumento sembrava sotto spirito».

L’altro estremo è Louis Armstrong che «era un genio, e avrebbe saputo creare della grande musica anche avendo a sua disposizione solamente un’asse da lavandaia e un pettine». Mezz Mezzrow lo ricorda inseguito dai rimpianti perché ormai stava perdendo quel poco di disciplina e di consapevolezza necessari a resistere a quei livelli, dato che «quella è gente che sa vivere».

La moltitudine di musicisti convocati nelle sue vivide ed entusiaste frequentazioni è un elenco variopinto che comprende, tra gli altri, Scott Joplin, Jelly Roll Morton, Jimmie Lunceford, Gene Krupa, Ma Rainey, Guy Lombardo, Jack Teagarden, Fats Waller, Count Basie, Benny Carter, Tommy Dorsey, Fletcher Anderson, ovvero «niente stile Chicago o stile Dixieland, niente swing o jump o Debussy o Ravel, ma jazz: primitivo, solido, ben ritmato e bene intrecciato».

Per quanto uno di loro, parte della gang, Mezz Mezzrow sembra restarsene in disparte, molto umile, ad apprezzare quello che definisce «un geyser di emozioni in ebollizione, che spalanca tutte le finestre e permette ai nostri istinti, alle nostre idee, ai nostri sentimenti di sgorgare liberamente».

Sono anche tempi che corrono veloci, tra una guerra e l’altra, e ben presto volti, luoghi e occasioni spariscono: «Il 1927 e il 1928 furono gli ultimi anni fortunati del vero jazz, gli ultimi in cui un solista, dotato di vera ispirazione, potesse ancora abbandonarsi alla sua vena e conquistare il pubblico, che lo ascoltava a bocca aperta. Ma quel periodo stava per concludersi, per diventare un capitolo nella storia del jazz, anzi la favola di un’età mitica».

In effetti è proprio così, e da lì Mezz Mezzrow racconta quello che la storiografia ufficiale tralascia, nasconde o minimizza, la vita nei bassifondi, e si muove nelle giungle urbane con disinvoltura. Oltre a Chicago, s’inoltrerà nelle notti di Detroit, New York e New Orleans, per poi cercare fortuna verso Parigi dove è arrivato su una nave in compagnia di un assassino.

Gli aspetti picareschi di Questo E’ Il Blues non tolgono nulla alla validità del racconto che si conclude come e dove era cominciato: in una cella. Tornato ad Harlem, nel 1940 viene arrestato di nuovo e condotto in carcere, dove riesce a convincere le guardie a essere trasferito tra gli afroamericani. Un bel tipo, si sarà capito.

Non dovrà soffrire molto, ma scopre, ancora, che la musica è l’ultima spiaggia perché «il mondo esterno, era rozzo, brutale volgare e l’unica cosa che potesse salvarlo era il jazz». Una volta scontata la pena, coadiuvato dal giornalista Bernard Wolfe, Mezz Mezzrow pubblicherà nel 1946 Questo E’ Il Blues (ovvero Really The Blues, come recita il titolo originale preso da una composizione di Sidney Bechet) che rimane una perla grezza, di passione e di istinto «una celebrazione della vita, respirare, piegare i muscoli, sbattere le palpebre, leccarsi le labbra, malgrado tutto il male che il mondo può farvi».

Con tutti i suoi limiti, il diario di Mezz Mezzrow resta una cronaca (cruda) spontanea, ma molto veritiera perché così era rimasta la musica. Coraggiosa, intrepida, selvaggia, fin dall’inizio, «la loro musica, a volte, usciva incerta, si confondeva, si protendeva in troppe direzioni e ogni nota stava quasi per scoppiare, tanto era piena di idee. Ma la loro direzione era giusta, lo spirito che li animava sincero e vigoroso» .

E’ anche una parata di fantasmi con molti risvolti leggendari, ma ha ragioni da vendere Mezz Mezzrow quando dice: «La musica che abbiamo suonato assieme non è mai stata scritta sulla carta. E’ sgorgata tutta da nostro entusiasmo, dal nostro vivo senso di amicizia, proprio come la musica nata quaranta o cinquant’anni fa a New Orleans, e sempre nuova. E questo è il tipo di musica che continueremo a incidere sui nostri dischi, finché riusciremo a respirare, o finché il nostro vecchio cuore non si stancherà di battere».

Quell’antica saggezza permea i suoi ultimi anni (è morto nel 1972, a Parigi dove è sepolto al Père Lachaise, tra gli artisti), almeno quanto il sorriso sornione con cui diceva: «Ci saranno dei giorni in cui avete fame, degli altri in cui tutto vi va male, e tutti vi calpestano, ma non importa quanto sia dura la lotta, vivere è una meraviglia, fratello mio. Dovevo ricevere calci e pugni e riceverne in abbondanza prima di poter capire quella verità così semplice».

Ci sono almeno due aneddoti memorabili ed esemplari che possono aiutare. In un episodio, Mezz Mezzrow ricorda Dear Old Girl che risuona, spettrale, nei corridoi del carcere mentre un condannato a morte si avvia al suo destino. In un altro, che pare già la scena di un film, Jane, una ‘ragazza’ a cui deve molto, batte il ritmo alla finestra per salutarlo. In entrambi i casi, il tempo è jazz, la sostanza è blues.

Marco Denti, fonte Il Blues n. 138, 2017

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