Nativo del favoleggiato Lone Star State, Michael Ballew è cresciuto in una di quelle gigantesche roulotte chiamate ‘trailer houses’ viaggiando da una città all’altra del Texas occidentale, a seguito del padre, impegnato nel campo dell’estrazione petrolifera.
Dopo venticinque anni (e venticinque città), sua madre non ne poteva più di essere continuamente ‘sradicata’ insieme ai suoi due figli con frequenza annuale ed agognava una sistemazione stabile.
Per questo motivo tutte le porte e le finestre furono sigillate per l’ultima volta con il nastro adesivo (per via della polvere che avrebbe altrimenti invaso l’interno durante il viaggio) e la famiglia Ballew si diresse tanto più a nord quanto si potesse andare, pur restando all’interno dei confini del Texas, approdando a Perryton, nella zona delle High Plains, dove Mr. Ballew Sr. fondò una ditta di perforazioni idrauliche.
All’età di dieci anni Michael aveva già una casa fissa ed una chitarra tutta sua; proveniendo da una famiglia con un certo retaggio musicale (la mamma suonava l’armonica ed il padre la chitarra), ben presto la vastità delle Grandi Pianure ed una vivida immaginazione iniziarono a creare le premesse del nostro troubadour texano e citando una sua azzeccata strofa: “Nothing like West Texas Skies – spurs imagination, puts stars in your eyes…”.
Fra i diciassette ed i ventun anni Michael gira tutti i palcoscenici (si fa per dire) dei bar entro una ragionevole distanza automobilistica da Perryton, fino a quando, alla perenne ricerca di nuovi posti dove suonare, punta la prua verso la scena musicale californiana degli anni ’60, rinunciando definitivamente a qualunque lavoro che non fosse pertinente all’ambito musicale.
A Los Angeles Michael divide la sua attività fra i ruoli di compositore e performer in vari gruppi di rock’n’roll (suo primo amore, insieme al country & western) e nel 1967 firma il suo primo contratto discografico con la sconosciutissima White Whale Records, per passare poi a lidi più qualificati quali Columbia, Warner Brothers, Pentagram ed EMI America.
Nonostante le indicazioni del suo management, non siamo in possesso di alcun documento fonografico relativo a questo periodo e – sempre stando alla sua discografia ufficiale ed al materiale discografico in nostro possesso – dubitiamo fortemente ne esista traccia alcuna a livello solistico, semmai qualcosa è stato mai davvero registrato.
All’inizio degli anni ’70 riuscire ad essere opening act per gente tipo Loggins & Messina, Country Joe & The Fish, Steppenwolf ed Eric Burdon & The Animals non era certo roba da poco, si cominciava a parlare di Michael nei giri giusti e qualcuno, giù ad Austin, aveva già inciso covers di pezzi suoi, ma il desiderio di riavvicinarsi alle sue radici musicali ed al natìo Texas era diventata esigenza oramai improcrastinabile, così nel 1976 Michael Ballew rifà i bagagli e torna in Texas, stabilendosi definitivamente ad Austin.
In quel periodo la capitale del Texas iniziava la sua scalata alla popolarità, fino a contendere la palma a Nashville, in termini di città fulcro della country-music, o quanto meno, di un certo tipo di country-music, il cosiddetto filone ‘outlaw’, facente capo ai due guru Willie Nelson e Waylon Jennings.
Michael comincia a bazzicare nei locali giusti e fa amicizia con nomi che diventeranno in seguito importanti, fra i quali Bob Moulds (con il quale Michael scriverà il suo pezzo più famoso, anche se non il migliore, Your Daddy Don’t Live In Heaven, He’s In Houston) e Bobby Earl Smith, cantautore, produttore, avvocato, bassista e molte altre cose ancora, tornato alla ribalta discografica di recente con il suo Rear View Mirror, dopo ben vent’anni di silenzio.
Nel 1979 Michael esordisce ufficialmente come solista con un album autoprodotto intitolato Side One e pubblicato dall’etichetta Phooey Records. Si tratta di undici brani, per lo più a firma dello stesso Michael, talvolta in coppia con la moglie Carole, affiancati da una cover di Bring It On Down To My House (Bob Wills), dove Michael suona la chitarra acustica in maniera eccellente e da una del pezzo di Bob McDill Love Me Tonight, nel quale la voce del nostro richiama vagamente quella di uno dei suoi idoli di sempre, Willie Nelson.
Fra i pezzi originali, vale la pena di segnalare alcune delle sue signature-songs, quali un’ingenua e cantautorale versione del suo piccolo classico Blue Water, la pomposa Ain’t No Future In Lovin’ You con Bobby Smith al basso, ma appesantita da uno stucchevole coro femminile, la lunga e gradevole Seminole County Jail, co-firmata dal solito Bobby Smith e gravata dalla presenza dei cori di cui sopra, pur in presenza di un pregevole lavoro all’elettrica solista dello stesso Michael.
Ancora da citare la conclusiva e spigliata Country Music, che narra della partenza dalla California di Michael, diretto in Texas via Nashville (la chiama ‘Johnny Cash-ville’). Bob Moulds prende parte alla registrazione al piano, mentre il titolare ben si destreggia alle chitarre acustiche ed elettriche in questo non certo pretenzioso esercizio di semplice country-rock in sintonia con i tempi. E’ significativo segnalare come tutti e quattro i brani saranno poi ripresi – e registrati ex-novo – nel primo album su CD di Michael a ben tredici anni di distanza.
Ancora Picture Song si eleva dalla media del disco per quell’andamento quasi da crooner, con un sax intrigante (Paul Ostermeyer) abbinato ad un pianoforte complice (ancora Bob Moulds): pop song di un certo livello, ma abbastanza ‘fuori-tema’ in questo contesto.
Brown Eyes è una rilassata country ballad, mentre Very Last Song è un romantico esercizio a quattro mani firmato da Michael e Carole Ballew.
Nel complesso il disco non solleva certo polveroni di pubblico o critica e la ridotta circolazione (500 copie stampate in tutto, ci dice lo stesso Michael) non aiuta certo il decollo di questo esordiente texano, che però non molla.
Nel 1992 Michael Ballew pubblica il suo secondo album (c’è il CD adesso) per l’etichetta texana Texas Musik ed è l’indie europea per eccellenza a dargli fiducia in termini di distribuzione nel vecchio continente, probabilmente grazie anche all’amicizia che lega Jurgen Koop (Germanico trapiantato in Texas con agganci giusti, leggi Clay Blaker) al boss della Bear Family Records, Richard Weize. Fatto sta che a distanza di oltre un decennio ci troviamo fra le mani un signor disco intitolato I Love Texas.
Il titolo da solo rappresenta un’esca irresistibile per qualunque appassionato della musica texana ed il contenuto è di quelli che non si dimenticano. Per questo come-back Michael ha avuto il tempo di preparare tutti i dettagli con la massima cura: gli studi di registrazione (Austin, Los Angeles e Nashville), i tecnici (fra i quali Spencer Starnes, ancora adesso alla produzione del suo nuovissimo album) ed i session-men.
Le chitarre sono nelle mani dei rodati Chris Leutzinger e Brent Rowan, oltre a Mitch Watkins, già alla corte della cantautrice franco-texana Christine Albert. Le steel guitars sono sapientemente affidate a Tom Brumley (Buckaroos di Buck Owens), Jimmy Day (decano dei pedal steelers Texani), Paul Franklin (californiano dell’epopea d’oro del country-rock) e Jim Richmond (fido pard del primo LP). Al basso rivive Fred Scott (compagno di gavetta con Jim Richmond) insieme a Spencer Starney. Alla batteria si riaffaccia Rick Dryden dal passato remoto e Rex Ludwick, batterista in seconda del gruppo di Willie Nelson. Il fiddle passa da Hoot Hester a Buddy Spicher e questo sarebbe già più che sufficiente a convincere chiunque della validità del contenuto, ma arrivano anche le tastiere di Bunky Keels e Bob Moulds, insieme alle performances vocali di Don Francisco (batterista in forza alla compagine di rock californiano Big Wha-Koo) e Chris O’Connell (Asleep at the Wheel).
Il CD in questione dura oltre sessantacinque minuti e contiene ben ventidue pezzi per la delizia dei nostri palati. Il periodo artistico va dal 1978 al 1992, coprendo così tutto quanto di valido Michael ha scritto a partire dal suo esordio. Brani quali The Music Is Sweet, The Greatest Texas Song (grandissima), Glenda Pearl, I Love Texas, Rodeo Cool, Hot Spot, Cheatin’, Take It Slow, My Family o Crazy Dreams rappresentano tante piccole sfaccettature (qualcuno li chiama anche ‘luoghi comuni’, ma vorrei evitare implicazioni negativistiche) della quotidiana vita in Texas, compresi gli stereotipi che hanno contribuito a definirla e ad identificarne i precisi caratteri. Discorso a parte per un paio di brani: Dark Side Of The Dancefloor è uno scintillante shuffle che ha contribuito in modo determinante a far conoscere la brava Candee Land, mentre l’orecchiabile Your Daddy Don’t Live In Heaven, He’s In Houston è il brano più famoso a firma di Michael e narra dell’amara verità di una madre che è costretta a rivelare al figlio ancora bambino che suo padre non è morto, ma li ha abbandonati, se ne è andato e vive ora a Houston.
Il disco ottiene un ottimo livello di interesse anche in Europa e Michael inizia una serie di tour nel vecchio continente (al momento in cui scriviamo siamo a quota quattordici) che contribuiranno significativamente a stringere i rapporti col suo pubblico d’oltre oceano. Il sound è incredibilmente maturato ed altrettanto la voce: siamo di fronte ad un prodotto tosto, con un interprete sicuro di sé e dei suoi mezzi. Le tematiche sono texane fino all’osso e l’amore per la musica country è addirittura palpabile (ascoltate The Greatest Texas Song oppure I Love Texas e ve ne renderete conto); il disco è convincente e vincente e ce n’è abbastanza per lasciarsi conquistare da questo simpatico e barbuto cowboy con un sorriso davvero accattivante.
A distanza di circa un anno è la volta dell’etichetta Texas Musik (di Jurgen Koop) a pubblicare Yesterday’s Wind. Il CD rappresenta il logico prosieguo del filone al quale apparteneva il disco precedente, magari un pizzico più rock in un episodio ben preciso, Dial In Country, ma essenzialmente legato alla tradizione, alternando ballate romantiche, come la conclusiva Pleasure Ain’t Worth The Pain, What I Didn’t Know Then oppure Still Waters, ad episodi molto ‘old-fashioned’ quali la sussurrata My Friend pervasa da un’atmosfera soffusa ottenuta grazie ad un pianoforte complice, ad una languida pedal steel guitar e ad una batteria ‘spazzolata’ ad arte.
Il filone country la fa comunque da padrone, sull’onda di songs quali Songs On The Radio, l’evocativa Where Are The Rangers, la swingata e roccata All Alone In San Antone (quasi una concessione di southern-rock che sarebbe piaciuto al Charlie Daniels di The South’s Gonna Do It Again), la semi-caraibica I Can’t Do That, l’esercizio honky-tonk di I Love To Ride od il pretesto quasi-cajun di Damned Ol’ Beer. C’è anche posto per un improbabile, ma lucido country-blues nelle note di Heavy On The Blues ed è davvero molto per uno che è praticamente un ‘Signor Nessuno’ (ma ancora per poco, credetemi).
L’attività concertistica in Texas ed in Europa occupa molto tempo a Michael Ballew, che continua comunque a scrivere ed a portare alta la bandiera del cantautorato texano dovunque egli trovi un pubblico disposto ad ascoltarlo, a condividere le sue storie ed i suoi sogni.
Frequentatore abituale del concerto ribattezzato ‘4th of July Picnic’, organizzato ogni anno da Willie Nelson, Michael entra in contatto con grossi nomi ed arriva ad aprire gli shows dello stesso Willie, oltre che dei vari Asleep At The Wheel, Michael Murphey, Alan Jackson, Jerry Jeff Walker, Johnny Gimble, Ray Price, Johnny Bush, solo per citarne alcuni.
Grazie dunque ad una crescente credibilità artistica, nel 1995 Michael pubblica il terzo disco You Better Hold On, ancora per la Texask Musik, (in Europa sarà distribuito dalla Bear Family). L’entourage che lo coadiuva in sala di incisione si è ridotto numericamente, ma il livello resta eccellente: Buddy Emmons (steel guitar extraordinaire, ha suonato con quasi tutti nel mondo della country music, compresi i Texas Playboys di Bob Wills), Gene Chrisman e Jerry Kroon (batteria) e Buddy Spicher (fiddler veterano delle sale di registrazione Nashvilliane) sono fra i nomi più significativi della partita.
Si parte subito alla grande con l’incalzante ballata western Blue To The Bone, stupendo schizzo epico giocato sui toni drammatici della voce, della pedal steel e di uno sporadico fiddle: epica.
La caraibica Livin’ In Limbo avrebbe fatto la gioia di Jimmy Buffett e si rivela davvero divertente, gradevole e solare.
Di ben altra portata è invece la rilassata ed introspettiva Nothin’ On Me, classica ballata con la bandiera texana stampata ben in vista. Un altro grosso centro per Michael.
Praticamente in qualunque disco di country texano è logico aspettarsi l’omaggio al western-swing e Michael non manca l’appuntamento grazie a Texas Gal, fruibile episodio gradevolmente swingato ed immediatamente memorizzabile ed a Boot Scootin’, ballabile fotografia dei sabato sera tanto cari ai texani d.o.c. (e non solo…).
Una bella sorpresa è rappresentata dal ripescaggio del classico di Michael Blue Water in una versione rilassata ed ariosa, con piacevoli divagazioni acustiche molto ‘laid-back’ ed un buon lavoro alle background vocals di Joyce Hawthorne e dello stesso Michael.
Your Memory Is Better Than Mine si concretizza in una solida ballata country, contrappuntata dal fiddle e dalla steel guitar, con riferimenti vocali al grande Johnny Bush, ‘The Country Caruso’ che ultimamente sta godendo di una rinnovata giovinezza artistica.
Descrizione che ben si adatta anche ad Hill Country Wine, ballata cadenzata che vedrei bene in mano al vecchio Jerry Jeff Walker.
Altrettanto gradevole ed accattivante si rivela il title-track You Better Hold On, frizzante performance a cavallo fra l’old-time ed il country più tradizionale, con una guizzante steel guitar ed un’altrettanto incontenibile chitarra acustica solista.
Una puntatina in territorio honky-tonk non fa mai male in un disco texano ed è la volta di For The Honey, con intro roccato e sviluppo ad alto tasso etilico ed emozionale.
Chiudono il CD un paio di pezzi lenti, sullo stile della ballata romantica più tipica e classica, ben eseguiti da Michael Ballew con consumato mestiere.
Alla fine del 1996 Michael Ballew ricomincia a prendere in considerazione l’idea, stimolante per ogni artista, di registrare un album dal vivo, grazie anche alle continue richieste dei fans europei e statunitensi di avere una testimonianza delle sue famose live performances acustiche.
L’occasione si concretizza la sera del 25 Gennaio 1997, in occasione del concerto di Michael alla celebre Gruene Hall, tempio del country e del cantautorato texano per eccellenza (famoso il live omonimo di Jerry Jeff Walker con tanto di cameo appearance di Willie Nelson). Il risultato non brilla certo per la fantasia del titolo, ma Live At Gruene Hall è un disco imperdibile.
Il disco è la fedele riproduzione dell’esibizione di un Michael assolutamente unplugged, con il bassista Bill Colbert quale unico aiuto strumentale. Diciotto tracce per un totale di ben quasi settanta minuti: la sensazione che si riceve, chiudendo gli occhi ed adattandosi ben bene le cuffie sulle orecchie per escludere il resto del mondo, è quella classica di essere presenti al concerto in carne ed ossa ed il risultato è notevole.
Dal primo album, quello in forma di LP, Michael riprende la sua Blue Water, che viene ribattezzata, per l’occasione Texas Blue Water, mentre dal primo CD vengono riprese Hot Spot (per l’occasione appare anche Rusty Wier come co-autore, oltre a Micheal e Bob Moulds), The Music Is Sweet, The Dark Side Of The Dance Floor e la conclusiva I Love Texas, con tanto di inserto della strumentale Under The Double Eagle e di altre perline della tradizione.
Yesterday’s Wind è l’album più ‘saccheggiato’ con ben sei brani (Damned Ol’ Beer, I Can’t Do That, I Love To Ride, Top Of The World, Heavy On The Blues e Where Are The Rangers) tratti dal suo contenuto originale. Solo Texas Gal proviene da You Better Hold On, ma ci sono ben sei inediti, cinque dei quali sono originali (il sesto è il classico di Merle Travis Sixteen Tons).
The Whiskey’s Fine, scritta da Michael e da Bill Colbert, è un perfetto viatico per il performer di turno per invitare il pubblico ad entrare nel locale dove si sta esibendo, mentre I Can’t Drive Home è una sorta di acoustic boogie abbastanza canonico.
Restando in tema di inediti, ecco I’m Leavin’ These Honky-Tonks For Good, cadenzata drinkin’ song in tema con il filone tanto caro agli honky-tonkers, Moe Bandy su tutti.
The Old Cowboy si basa su di un fatto realmente accaduto a Michael relativamente ad un incontro avvenuto nell’affollato aeroporto di Odessa, TX, dove un vecchio cowboy, con tanto di gambe arcuate, inciampò e finì a terra. Nessuno si diede la pena di aiutarlo, non così Michael, che lo aiutò a rialzarsi e lo ritrovò seduto di fianco a lui in aereo: dalla loro conversazione e dai ricordi del vecchio nacque la canzone.
Cowboy And The Preacher è una pensosa ballata, rigorosamente acustica, eseguita con voce particolarmente meditativa da Michael, come peraltro il resto delle soffuse songs che si alternano ai momenti più briosi nel corso dello show in questione.
Pur mostrando con evidenza i limiti del contesto ‘unplugged’, il CD è particolarmente interessante, in quanto mostra con il massimo realismo e la massima fedeltà il livello tecnico ed artistico di un personaggio vero e sincero nei confronti del suo pubblico e della sua musica. In qualità di ciliegina sulla torta, possiamo aggiungere che il booklet che accompagna il CD contiene i testi dei brani (finalmente) e diverse belle foto a colori.
Se da un lato è vero che il CD seguente di Michael Ballew intitolato Daddy Don’t Live In Heaven è datato anno 2000 e viene pubblicato e distribuito dalla solita Bear Family, dall’altro lato è altrettanto vero che le registrazioni risalgono al 1980. In quell’anno Michael fece un viaggio a Los Angeles per proporre al suo amico John English (collaboratore del produttore Val Garay, famoso per il successo di Kim Carnes Bette Davis’ Eyes) alcuni demos di suoi brani, fra i quali Daddy Don’t Live In Heaven. John suggerì di incrementare il numero di songs per raggiungere materiale sufficiente per un album e tentare così la carta del contratto con qualche major.
La cosa funzionò e la Liberty Records mise Michael sotto contratto, pubblicando la canzone come primo singolo e inviando John a Nashville per trovare altro materiale da fare interpretare a Michael Ballew, visto che non più di sei brani erano ritenuti papabili per l’album.
Nel frattempo anche Pretending Fool aveva bissato il successo di Daddy, pur senza alcun supporto promozionale dalla Liberty. Oh No era stata anche proposta nientemeno che dall’agente di Lionel Ritchie, che aveva offerto a Michael di registrarla in quanto l’autore non era interessato in prima persona ad interpretarla. In seguito Lionel Ritchie ci avrebbe ripensato e l’avrebbe ripescata e trasformata nell’enorme successo che conosciamo.
Contemporaneamente alla pubblicazione di Daddy, Kenny Rogers aveva fatto causa alla Liberty per tredici milioni di dollari e l’aveva vinta, mettendo virtualmente in crisi le casse della major, che si era vista costretta a concentrare le risorse restanti sugli artisti consolidati, dando così il ben servito a circa venticinque nomi di più recente acquisizione, fra i quali quello del nostro texano. L’album, già praticamente pronto, non vedrà la luce fino al 2000, quando la Bear Family deciderà di pubblicarlo nella sua veste originale. Lo stesso Michael chiarisce subito che “…non si tratta di un album di country music. I musicisti che hanno registrato con me queste canzoni erano praticamente la back-up band di Kim Carnes (Todd Sharp, Josh Leo, Ernie Corello, Sherman Hayes, Brian Garofalo, Jan Uvina, Craig Krampf, Steve Goldstein e Maureen McDoonald) e non ne sapevano assolutamente niente di country music, ma bisognava lasciarli stare per quanto riguardava il rock. Una buona rock band che suonava country music: la formula suona familiare…”.
Oltre ai brani citati ritroviamo cose note (Songs On The Radio, Seminole Jail, Blue Water e Ain’t No Future oltre ad una cover country-rock del classico di Tom Jans Lovin’ Arms) ed altre meno conosciute (Lonely Heart a firma Paul Overstreet, You’re Out Of My Sight, di Steve Goldstein, Robert Getter e Guy Peritore e Here Comes The Heartache che altro non sono che pop con un trasparente travestimento country).
Nell’economia della discografia di Michael Ballew questo prodotto ha una valenza puramente collezionistica e documentaristica, ma guardatevi bene dall’accostarvi ad esso come primo approccio al nostro texano, sareste immediatamente ed irrimediabilmente fuorviati rispetto al ‘vero’ Michael Ballew: siete avvertiti.
Il 2001 si rivela essere un anno molto importante nella carriera di Michael Ballew: il sodalizio fra la Soul Of The Heart Productions di Michael Ballew e Susan Longley trova un partner fondamentale nell’inglese Tony Byworth, promo-man in Gran Bretagna per stars del calibro di Garth Brooks e George Strait. Questo binomio significa moltissimo in termini di potenziale commerciale in Europa per Michael che saggiamente sfrutta l’opportunità di realizzare il nuovo album (sulla falsariga dei bei tempi, sia chiaro) riassumendo il contenuto della sua carriera ad oggi, con una sorta di compilation riveduta e corretta del Michael Ballew come è arrivato al presente.
Rodeo Cool esce per la succitata Soul Of The Heart Productions verso la metà del 2001 e dura poco meno di un’ora. Nei diciotto brani che lo compongono Michael inserisce i punti di forza del suo repertorio, solo uno dei quali non porta la sua firma: Tears All Over Town, tradizionale country ballad scritta da Bob Moulds e Gordon Eatherly e registrata oltre dieci anni fa, ma mai pubblicata prima, che molto deve allo script di Hank Williams Sr.
Di queste diciotto tracce solo la suddetta Tears e la conclusiva Higher Standard Of Leaving risultano inedite rispetto alla precedente produzione, ma vi si inseriscono senza alcuna difficoltà per omogeneità di contenuti e di forma.
I rimanenti sedici brani sono tratti dai precedenti albums di Michael, ma tutti sono stati rimasterizzati per ottenere il miglior risultato possibile, anche dal punto di vista tecnico. Prodotto dallo stesso Michael insieme ai vecchi e fidati pards Jurgen Koop e Spencer Starnes, Rodeo Cool ben evidenzia i vari aspetti della espressione artistica del nostro: on the honky-tonk side (che rappresenta la parte predominante) fanno bella mostra di sé brani quali I Love To Ride, Rodeo Cool, Damned Ol’ Beer, Boot Scootin’, Glenda Pearl dedicata alla madre in occasione della sua scomparsa, Texas Gal, All Alone In San Antone, Dark Side Of The Dance Floor, Cheatin’ e The Music Is Sweet, mentre sul fronte delle ballate romantiche vale la pena di ricordare Top Of The World, Nothin’ On Me But You, Tiny Fingers, Tiny Toes e la deliziosa Your Memory Is Better Than Mine.
Dulcis in fundo, due episodi solari e disimpegnati, come le caraibiche Living In Limbo e I Can’t Do That Anymore: puro divertimento, ma di alto livello.
Un’altra tessera del mosaico iniziato nel lontano 1979 è andata al suo posto ed il risultato è estremamente incoraggiante, per la sincerità e la coerenza che Michael dimostra nel portare avanti il suo lavoro.
Non un cedimento alle lusinghe effimere rappresentate da qualche concessione ad un sound più commerciale e più ‘radio friendly’: non gliene può fregare di meno e noi siamo tutti con lui!
Michael Ballew – Discografia solista
Side One – Phooey 91X45 – LP 1979
I Love Texas – Texas Musik TM921 – CD – 1992 (distr. europea: Bear family Rec. BCD 15669)
Yesterday’s Wind – Texas Musik TM922 – CD – 1993
You Better Hold On – Bear Family BCD 15896 AH – CD – 1995
Live At Gruene Hall – Bear Family BCD 16167 AH – CD – 1997
Daddy Don’t Live In Heaven – Bear Family BCD 16409 AH – CD – 2000
Rodeo Cool – Soul Of The Heart Prod. – CD – 2001
Dino Della Casa, fonte Country Store n. 59, 2001