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«Ci vorrebbe un amico…». Così cantava Lucio Battisti. E così è stato. C’è voluto un amico, Al Kooper, per ricollocare al suo posto chi era stato con troppa facilità dimenticato.

La recente pubblicazione da parte della Sony Music del boxset From His Head To His Heart To His Hands ci offre la gradita opportunità di parlare ancora una volta di Michael Bloomfield, uno dei chitarristi più talentuosi apparsi sulla scena musicale che ha lasciato un’eredità artistica e un’influenza che ha pochi eguali. Il cofanetto in oggetto è costituito da 3 CD che attraversano tutta la carriera di Mike, partendo addirittura dai suoi primi demo fino alla sua ultima esibizione a San Francisco; vi è inoltre un DVD che presenta il film documentario Sweet Blues, con il quale il regista Bob Sarles non solo offre il lato musicale di Bloomfield ma anche uno sguardo alla persona, unendo sia esibizioni dal vivo che interviste al chitarrista stesso e a chi ha lavorato con lui. Per la produzione e la compilazione del libretto allegato la Sony si è rivolta ad Al Kooper, probabilmente l’amico e il musicista che ha condiviso maggiormente le varie fasi della vita di Michael.

L’antologia esce proprio a 50 anni esatti dall’inizio dell’attività ‘ufficiale’ del chitarrista, che proprio nel 1964 fu invitato a New York dal celebre produttore John Hammond Sr. per incidere un demo tape di cinque brani: tre di questi sono qui inclusi, tracce dunque inedite che aprono l’antologia. I’m A Country Boy seguita da Judge, Judge sono eseguite con la chitarra acustica, avvalendosi solo del supporto del bassista Bill Lee e colpiscono più per la personalità della voce del ventenne Michael: per avere invece un assaggio del talento chitarristico c’è la successiva Hammond’s Rag, in cui le dita si muovono veloci sulla tastiera e il nostro dimostra di padroneggiare il fingerpicking senza difficoltà. Ma i primi passi di Bloomfield risalgono alla fine del decennio precedente quando, ancora adolescente, inizia a frequentare i blues club della zona sud della nativa Chicago per poi passare ad affiancare quegli stessi musicisti che prima ascoltava.

Michael nasce nel 1943 da una famiglia ebrea e, mostrando subito un carattere piuttosto determinato e anticonvenzionale, dai 13 anni si interessa decisamente alla musica, facendo capire che non avrebbe continuato l’attività familiare di produzione di attrezzature per la ristorazione; è la madre Dorothy (ex attrice e modella) che lo incoraggia nella sua passione facendogli prendere lezioni di chitarra. Pertanto il passo successivo avviene di conseguenza, cosicché Mike negli anni a seguire ha la possibilità di conoscere e suonare con alcuni bluesman neri fra cui Sleepy John Estes, Roosevelt Sykes, Yank Rachell, Big Joe Williams: di quest’ultimo si ricorda fra l’altro il libro che Bloomfield scrisse, Me And Big Joe oltre a una sua esibizione al contrabbasso durante un concerto di Williams al Festival dell’Università di Chicago nel 1964. L’ambito universitario avrà particolare importanza per il futuro artistico di Mike, in quanto in quel contesto aveva gravitato Paul Butterfield e in quegli anni erano studenti Elvin Bishop, Nick Gravenites e Mark Naftalin, nomi che ritroverà da lì a breve.

Nonostante gli venga proposta la firma di un contratto da parte della CBS, all’inizio la casa discografica decide di non pubblicare le tracce da lui registrate, alcune delle quali insieme all’armonicista Charlie Musselwhite. Non gli resta dunque che ritornare a suonare nei club attorno a Chicago e in una di queste occasioni viene avvicinato da Paul Rothchild, produttore della Paul Butterfield Blues Band: all’inizio doveva solo suonare la slide e il piano in qualche brano, ma in realtà questo sarà l’incontro che segnerà la svolta nella sua carriera. Il confronto e la ‘competizione’ interna fra Paul e Michael non farà altro che stimolare nuove idee e quindi il livello qualitativo della musica. In mezzo alle sedute di registrazione, Bloomfield verrà contemporaneamente coinvolto col tastierista Al Kooper nell’incisione di alcune tracce del celebre Highway 61 Revisited di Bob Dylan: proprio a metà giugno del 1965 Mike si presenta al Café Au Go-Go, presso il Greenwich Village di New York, dove suonava con la Paul Butterfield Blues Band per far loro ascoltare la traccia incisa quella mattina. Si tratta di Like A Rolling Stone, destinato a diventare il primo grande successo di Dylan; nel cofanetto ascoltiamo una versione strumentale, inedita, con la presenza di Dylan stesso, che ritroviamo anche nella successiva Tombstone Blues.

Il mese dopo ci sarà uno degli eventi destinati a lasciare un segno indelebile nella storia della musica: è il 25 luglio quando Bob si presenta al Newport Folk Festival accompagnato da un gruppo, di cui fanno parte Bloomfield e Paul Butterfield. E’ il momento della famosa svolta elettrica, in cui di fatto Dylan prende le distanze dal folk (dopo che nelle due edizioni precedenti era stato uno dei protagonisti assoluti del Festival) per orientarsi verso sonorità decisamente più orientate al blues, se non al rock’n’roll. A posteriori sarà proprio il grande cantautore che darà credito a Bloomfield per il suo apporto chiave in questa transizione, sottolineando le sue straordinarie doti chitarristiche e dirà testualmente: «la persona che mi è sempre mancata, e che credo sarebbe ancora tra noi se fosse rimasto con me, è effettivamente Mike Bloomfield. Conosceva tutti gli stili, poteva suonare qualsiasi cosa incredibilmente bene, aveva una passione e un feeling straordinari».

Nel giro di due anni intensissimi, Bloomfield viene riconosciuto come uno dei chitarristi più dotati e talentuosi e la conferma avviene con il secondo disco della Butterfield Blues Band, East West, il cui famoso brano omonimo (una mini suite strumentale di 13 minuti) resterà fra gli episodi più significativi della musica degli anni ‘60: sia questo che Born In Chicago e Blues With a Feeling non mancano nella raccolta in oggetto, una scelta che ci sembra decisamente rappresentativa. Proprio nell’esecuzione di East West (il cui primo titolo era The Raga, che in effetti dà un’idea dello stile del brano), per accentuare gli effetti scenici dal vivo, capitava di vedere Bloomfield suonare la chitarra dietro al collo e sputando contemporaneamente fiamme di fuoco dalla bocca, un trucco scenico che ripeterà più volte.
Anche se la sua popolarità cresce costantemente una serie di fattori portano Mike a lasciare il gruppo: nell’ottobre 1966 la Butterfield Blues Band vola in Inghilterra per un mese di concerti e continua nei mesi successivi con un’intensa attività dal vivo, non particolarmente gradita al chitarrista, che per altro soffriva di insonnia. Mark Naftalin ricorda che Bloomfield lasciò la formazione nel febbraio dell’anno successivo, dopo che fecero addirittura tre concerti in un giorno; ma se quella fu forse la goccia che fece traboccare il vaso, ci furono indubbiamente anche altri fattori, fra cui certamente la consapevolezza delle proprie qualità e la voglia di essere leader indiscusso e suonare le proprie canzoni.

Insieme all’amico tastierista Barry Goldberg, Mike inizia a reclutare l’allora batterista di Wilson Pickett, quel Buddy Miles che suonerà poi con Hendrix, Mc Laughlin, Santana: a loro si uniscono Nick Gravenites, chitarrista ritmico che condividerà con Miles le parti cantate, e il bassista Harvey Brooks (già con Miles Davis e Bob Dylan). Il gruppo si completa infine con la sezione fiati di Marcus Doubleday alla tromba e Peter Strazza al sax: nascono gli Electric Flag. Vengono chiamati dal regista Roger Corman per realizzare la colonna sonora del film The Trip, interpretato da Peter Fonda e Dennis Hopper, con la sceneggiatura di un giovane Jack Nicholson (sarà distribuito in Italia dieci anni più tardi col titolo Il Serpente Di Fuoco). Ma il loro trampolino di lancio avviene il 17 giugno 1967 al Monterey Pop Festival in una esibizione storica: il pubblico era impazzito, fra di loro Al Kooper racconta che l’eccitazione era alle stelle, Buddy Miles era alle lacrime.
Tuttavia l’instabilità di tutti e di Bloomfield in particolare, anche a causa dell’abuso collettivo di droghe, non permetterà di capitalizzare questo momento magico: ci vorranno più di sei mesi per realizzare il tanto atteso disco d’esordio, A Long Time Coming che, pur essendo riconosciuto come una pietra miliare, non riesce a convogliare tutta l’energia che la band sapeva esprimere dal vivo e che diversi bootleg avevano già catturato. La loro capacità di coniugare il blues con sonorità jazz, rock, soul sarà di ispirazione a molte altre formazioni, Blood, Sweat & Tears dell’amico Al Kooper e Chicago in primis, che esordiranno discograficamente poco dopo di loro; Bloomfield e Goldberg sono i principali autori e ispiratori del sound del gruppo, tuttavia entrambi abbandonano gli Electric Flag a metà del 1968. Ancora una volta l’inquietudine di Michael ha il sopravvento su di lui, e l’illusione di curare la costante insonnia con l’eroina non porterà ovviamente ad alcun risultato, lasciando quindi in tutti il rammarico di qualche cosa che “sarebbe potuta essere” ma non si è compiuta pienamente. Ci fa quindi piacere ascoltare in questa raccolta cinque brani degli Electic Flag, fra cui un paio di inediti.

Il secondo CD incluso nel cofanetto raccoglie quasi tutte tracce dal vivo, ma inizia con tre brani tratti dal celebre disco Super Session, voluto da Al Kooper: l’album rappresenterà purtroppo l’ultimo vertice artistico per Bloomfield, ma è incredibile pensare alla sua genesi. Kooper aveva appena lasciato i Blood, Sweat & Tears dopo il loro primo disco e aveva telefonato a Mike invitandolo per una jam session: Al aveva prenotato due giorni in uno studio di registrazione, chiamando Barry Goldberg, Harvey Brooks e il batterista Eddie Hoh. Il quintetto entra in sala la sera del 28 maggio e registra una serie di escursioni strumentali, prevalentemente nei territori del blues, per tutta la notte: a causa della solita insonnia Bloomfield non si presenta il giorno dopo e così Kooper (per altro sofferente dello stesso problema) chiama in tutta fretta Stephen Stills, incidendo una serie di brani, prevalentemente cover; più tardi avrebbe poi aggiunto una sezione fiati e un mese dopo il lavoro era pronto per essere dato alle stampe. L’album saprà catturare uno spirito di improvvisazione e una libertà espressiva che raramente si ritroverà su vinile; avrà un grande successo e, a dire di Kooper, offre una delle esecuzioni più ispirate e consistenti di tutta la carriera di Bloomfield.

Sarà infatti il disco di Michael che venderà di più, quello che lo consacra nell’olimpo dei chitarristi proprio perché le registrazioni testimoniano il suo stile estremamente fluido, la tecnica precisa, attenta ai dettagli ma nello stesso tempo eccellente nell’improvvisazione. Purtroppo resterà nuovamente un episodio discontinuo: tra il 26 e il 28 settembre i due amici suonano ancora insieme per tre serate al Fillmore West e da quei concerti sarà tratto il doppio The Live Adventures of Mike Bloomfield And Al Kooper. Nonostante qualche difetto di registrazione e di produzione, l’album non fa che confermare l’eccellente fraseggio del chitarrista e le sue doti interpretative, che in questa occasione lo vedono al suo debutto anche come cantante; il nostro cofanetto include quattro brani, fra cui un inedito in cui troviamo Carlos Santana, in una delle sue prime incisioni live. A seguire altre tracce provenienti da un altro concerto, stavolta al Fillmore East e con musicisti differenti: nel 2003 uscirà postumo The Lost Concert Tapes 12/13/68

Quell’episodio segna però il momento in cui Mike si renderà meno visibile al grande pubblico: nel 1969 pubblica il suo disco solista It’s Not Killing Me, piuttosto anonimo per non dire mediocre, nonostante la presenza di numerosi compagni di vecchia data. La delusione è resa ancora più forte perché la sua chitarra è messa in secondo piano, ma tutto ciò è indiscutibilmente legato alla sua costante tossicodipendenza. Sarà lui stesso che racconterà di come improvvisamente smise di suonare la chitarra; addirittura la madre chiede l’aiuto di B.B. King che cerca di ridare motivazioni a Michael, così come fanno Carlos Santana e altri musicisti. Probabilmente il sostegno di queste persone lo induce a riprendere in mano lo strumento, anche se il suo carattere schivo e i problemi già citati lo terranno sempre un passo indietro dai riflettori del music business; tant’è vero che negli anni ‘70 lavora più come session man, pur incidendo ancora molto come solista, anche se per piccole etichette discografiche.

Il terzo CD del box set, intitolato Last Licks, offre un’altra serie di registrazioni live, e fra queste ve ne sono subito un paio che saltano all’occhio: Can’t Lose What You Ain’t Never Had lo vede a fianco del grande Muddy Waters, un’icona che il giovane Mike ebbe modo di conoscere già nel 1959. Risale a quell’epoca la sua prima jam session con Muddy, in un’occasione che vede salire sul palco fra gli altri Charlie Musselwhite, Paul Butterfield, Bishop, Gravenites e Goldberg, quasi un anticipo del destino. Il legame fra i due fu molto solido, nel libretto compare una foto di Mike a casa di Muddy, con la sua nipotina; Bloomfield era molto affezionato ai bambini, «forse perché in qualche modo lui stesso lo era», racconta Al Kooper. Il brano in questione è tratto dall’album Fathers And Sons di Waters, dove sono pure presenti Paul Butterfield, Donald ‘Duck’ Dunn, Sam Lay, Buddy Miles e Otis Spann. Sempre nel ’69 Janis Joplin pubblica il suo primo disco come solista, avvalendosi della collaborazione di diversi musicisti: Bloomfield compare in tre brani, fra cui One Good Man qui proposto, che sicuramente rappresenta uno degli episodi più significativi per il riuscito connubio tra il fraseggio del chitarrista e la voce della cantante texana.

Come accennato, le collaborazioni di Mike si faranno abbastanza frequenti negli anni a venire: dopo aver suonato in alcuni lavori dei Mother Earth, Moby Grape, del duo Brewer & Shipley, negli anni ’70 continua a lavorare in studio per diversi musicisti, fra cui James Cotton, Dr. John, Woody Herman, spaziando anche in altri territori oltre al blues. Oltre a questi ricordiamo naturalmente Barry Goldberg e Nick Gravenites; in particolare con quest’ultimo ascoltiamo nell’antologia tre tracce, che lo ricordano nei suoi momenti migliori. Il seguito della sua carriera è frequentemente messo in secondo piano, probabilmente più per l’intensità con cui sono stati vissuti i suoi sixties, ma non vanno tuttavia dimenticati alcuni episodi certamente significativi.
Michael suona attorno all’area di San Francisco e talvolta compare in concerto come Bloomfield And Friends, formazione che solitamente vede i compagni di vecchia data Naftalin e Gravenites. Nel 1974 partecipa alla reunion degli Electric Flag, da cui uscirà il discreto The Band Kept Playing: ancora una volta la sensazione è di un grande potenziale inespresso, alcuni ottimi brani ma un lavoro globalmente carente di energia e creatività. Subito dopo con il cantautore Ray Kennedy e Barry Goldberg forma i KGB, considerati all’epoca un ‘supergruppo’, anche per la presenza della sezione ritmica di Carmine Appice e Rick Grech: la formazione ha però vita breve poiché dopo la pubblicazione dell’omonimo album Mike e Rick se ne vanno, non avendo in realtà mai creduto al progetto.

Nel frattempo e per tutti gli anni ’70 pubblica alcuni album come solista, prevalentemente focalizzati su un blues tradizionale e sempre per etichette minori: alcune tracce sono riproposte nel cofanetto, tratte in particolare da I’m With You Always, il suo terzo lavoro registrato dal vivo al McCabe’s Guitar Shop di Santa Monica il primo gennaio del 1977. Mike sembra appagato dalla sua condizione musicale, che alterna attività in studio, fra cui un album divulgativo per il periodico Guitar Player dove presenta i vari stili blues, e concerti nei vari club attorno alla San Francisco Bay Area: negli ultimi anni è spesso con la King Perkoff Band, che di frequente presentava come Michael Bloomfield And Friends. Merita infine una menzione pure il suo ultimo disco solista, quel Living In The Fast Lane che, riascoltandolo ancora oggi, lasciava presumere una risalita della china: c’è grande freschezza compositiva e comunicativa, Mike attraversa i numerosi generi che l’hanno formato e fatto crescere musicalmente, dal soul al funky, dal gospel al jazz e al ragtime, sempre uniti dal blues. Sembrerebbe quasi di intravedere un tentativo o un desiderio di riafferrare il passato glorioso, confermato anche dalla presenza di Mark Naftalin e Bob Jones (Butterfield Blues Band) e Roger Troy (Electric Flag) fra i numerosi musicisti di cui si avvale nei 10 brani.

Nell’estate di quello stesso 1980 Mike tiene una serie di concerti in Italia con il chitarrista classico Woody Harris e la violoncellista Maggie Edmondson, ma ci piace soprattutto ricordare l’incontro con la Treves Blues Band, da cui ne scaturirà lo splendido Live registrato al Palasport di Torino. Il 15 novembre lo si vede ritornare al fianco di Bob Dylan, durante un suo concerto al Warfield Theater di San Francisco, suonando naturalmente quella Like A Rolling Stone che avevano registrato insieme 15 anni prima, oltre a The Groom’s Still Waiting At The Altar che ritroviamo nel cofanetto.
Bob nutriva per lui una profonda amicizia, che risaliva appunto all’epoca di Highway 61 Revisited, quando entrambi erano poco che oltre ventenni e fra l’altro il libretto allegato racconta dell’intenso incontro fra i due: fu proprio Bob che chiese alla cantautrice Maria Muldaur di andare da Mike, visto che loro vivevano nella stessa città. Entrambi furono felicissimi di ritrovarsi e quando Dylan gli disse: «Sono al Warfield, dovresti venire a suonare con noi», Bloomfield rispose subito affermativamente. Prima di congedarsi Mike andò a prendere la Bibbia di sua nonna, per regalarla all’amico, dicendogli: «dovresti averla, ne puoi fare un uso migliore di quanto ne possa fare io».
Tuttavia la speranza che in molti era sorta di rivedere il connubio fra Bob e Mike era destinata a infrangersi nella notte del 15 febbraio 1981, quando il demone dell’eroina che non aveva mai abbandonato il chitarrista scrive la parola fine con un’overdose letale: è il tragico epilogo che lo accomuna a troppi altri musicisti. Negli anni a venire il suo nome ritornerà frequentemente, non solo in registrazioni pubblicate postume ma anche nelle parole di tanti artisti che lo indicano come una delle loro influenze primarie: a differenza di molti chitarristi dell’epoca Bloomfield usa raramente distorsioni, feedback o altri effetti, preferendo un suono pulito, al massimo accentuato con un buon riverbero e dal vibrato. I suoi strumenti preferiti erano principalmente Fender Telecaster, ma anche una Mustang, e Gibson Les Paul, con l’utilizzo del Fender Twin Reverb come amplificatore.

La possibilità quindi di ripercorrere la vita e la carriera di Michael Bloomfield ci viene offerta dall’interessante DVD che completa il cofanetto: Sweet Blues è un film documentario che si avvale di vecchie registrazioni, esibizioni live, interviste e testimonianze raccolte nel mondo musicale che ha gravitato attorno a lui. Oltre al già citato Bob Dylan, nel film trovano spazio oltre venti musicisti che raccontano il loro Bloomfield, da Santana che rimase folgorato quando vide Mike per la prima volta e decise che anche quella sarebbe stata la sua strada, a Eric Clapton che dice «Mike Bloomfield is music on two legs»; senza tralasciare John Hammond, Charlie Musselwhite, Bob Weir, David Freiberg, Jorma Kaukonen, Jack Casady, Jimmy Vivino, Mark Naftalin, Nick Gravenites.
Segno di una stima reale, sincera. D’altronde, come ebbe a dire Al Kooper, Mike non è stato un altro ragazzo bianco, ma qualcuno che sapeva veramente che cosa è davvero il blues.

Luca Zaninello, fonte Il Blues n. 126, 2014

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