Una lezione di folk nord-americano. Così in sintesi potrebbe essere descritta l’esibizione di Mike Seeger al Ponderosa.
Una lezione nata sui prati, con l’aiuto e la compagnia occasionale di musicisti dilettanti, con improvvisati ballerini di clogging. Culminata sul palco, un’ora indimenticabile per coloro che troppi anni fa in questo piccolo grande uomo trovarono una guida sicura lungo la strada della musica tradizionale e popolare a stelle e a strisce. Continuata poi in cento ed uno capannelli spontanei, sui sedili di un camper, dentro una tenda canadese, in mezzo ad un’umidità che entrava nelle ossa. Esattamente come la musica e le parole, banjo e hollering, scacciapensieri e shout, pan-pipes, autoharp ed il milione di sorrisi regalati da un ‘rambler’ newyorkese di illustre casato, ex infermiere, innamorato del suono grezzo e maledettamente naturale di zufoli e lamelle vibranti.
Il violino costantemente imbracciato, Mike sembrava aver esaurito tutte le risorse, musicali e fisiche, prima della sua esibizione ufficiale, e invece ha tenuto incollati a sé gli occhi e gli orecchi dell’intero uditorio. Senza trucchi, senza trovate e giochi furbescamente programmati, solo improvvisando un repertorio con corde, canne di legno, fiato, voce e piedi (scalzi, secondo un’antichissima consuetudine degli ‘artisti’ popolari, già al secondo brano) nel più americanizzato dei mestieri artigianali, quello dell’entertainer.
In 60 minuti Mike Seeger ha passato in rassegna tutte le sue registrazioni sul campo (nessuna trascurabile ed alcune importantissime, basti pensare a Dock Boggs e a Sam McGee), tutti i musicisti da lui avvicinati, riscoperti o resuscitati dai solchi dei 78 giri (Henry Thomas e Frank Hutchison, per citare un paio di nomi), tutti gli strumenti, dal più ricco e complicato al più povero, che hanno scritto la storia del folklore musicale del suo Paese.
E a ciascun brano, ad ogni passaggio, ad ogni nota si riconosceva, scopertamente o tra le righe, la sua impronta, il suo feeling, quella sua caratteristica di interprete urbano di materiale rurale che suona così falsa ed ipocrita a parole ma che in realtà diventa il solo tramite possibile tra culture agli antipodi.
Quanti prima o dopo di lui hanno teso la mano (nuda, aperta, senza nascondere banconote) al musicista tradizionale? E quanti altri sono riusciti a gettare un ponte attraverso le innumerevoli ‘paludi silenziose’ americane?
Una lezione di folk tenuta con disarmante semplicità, bandite le citazioni ‘ex cathedra’, ricordando con un attimo di commozione sia Roscoe Holcomb che Muddy Waters, accomunati fraternamente sul manico di un banjo incolore.
Una grande festa, alla fine, con la partecipazione dei musicisti nostrani a far da corona: un invito ad uno, due, tre violini, banjos, chitarre. Gold Watch & Chain e Freight Train, qui come già nella terra del Sol Levante a cantare una This Land Is Your Land bilingue: la tanto agognata internazionalità della musica popolare.
Una lezione di folk come una lezione di vita. E quando mai è finita?
Pierangelo Valenti, fonte Hi, Folks! n. 3, 1983