Di Moran Lee ‘Dock’ Boggs (1898-1971) già si è scritto in precedenza. Incise in una stanza d’albergo dodici matrici, nel 1927 a New York per la Brunswick e nel 1929 a Chicago per la Lonesome Ace, una delle primissime etichette indipendenti americane, per poi ritornare nell’oblio. Venne riscoperto e registrato estensivamente sul campo negli anni Sessanta da Mike Seeger diventando una delle figure chiave dell’old time music revival.
Sappiamo che il banjoista virginiano, minatore e sindacalista ante litteram, non ha inventato nulla, ma ha avuto una grande intuizione: l’aver capito che la bellezza intrinseca, la poesia e la semplicità delle ballate, importate o native, con o senza accompagnamento strumentale, potevano essere non solo preservate intatte ma perfino accentuate se sposate alla forza evocativa ruvida, essenziale ed immediata del blues delle origini.
Le blues ballads di Boggs, quasi tutte costruite su un unico accordo dominante con trascurabili variazioni, rivelano due precisi punti di partenza: il repertorio raccolto dal canto occasionale della madre e delle sorelle e l’amicizia stretta col vicinato di colore, soprattutto con due chitarristi, tali Go Lightening e Jim White. La sintesi di ambedue queste espressioni musicali, il collage di frammenti di brani tradizionali bianchi e l’uso di accordature modali particolarissime, attraverso le quali il banjo sembra imitare la chitarra blues, hanno dato origine a Down South Blues, Sugar Baby, Pretty Polly, al capolavoro assoluto di Country Blues (rielaborazione originale di Hustlin’ Gambler che trasuda blues da tutti i pori), vero e proprio manifesto sonoro di uno stile.
Pierangelo Valenti, fonte Suono, 2012