Ai tempi della peste di Firenze, madonna Fiammetta e i suoi amici, allegra brigata, si erano ritirati in una villa fuori porta per sfuggire all’epidemia e raccontarsi novelle. Ma erano personaggi fittizi, creati solo per la cornice del Decamerone. Le schiere di songwriters che, per tre settimane scelgono come ritiro l’isoletta di Martha’s Vineyard, non troppo lontana dalla brulicante Boston, si riuniscono per suonare insieme, creare nuove storie, melodie e forse per sfuggire, almeno un po’, a pestilenze lontane da quelle boccaccesche, anche virtuali, ma non meno devastanti.
E’ Christine Lavin la vulcanica organizzatrice di questo cenacolo che ha rilanciato la canzone d’autore e ha permesso a talenti nascosti di poter finalmente emergere. La Philo è invece un’etichetta sagace e lungimirante che ha pensato di salvaguardare questo patrimonio raccogliendolo in luminose raccolte, a partire da quel When October Goes del 1991, che tanto favorevolmente aveva colpito. Poi sono arrivate le altre antologie come Big Times In A Small Town (1993), magnifica testimonianza del primo raduno a Vineyard Haven, On A Winter Night (1994), la recente doppia raccolta Follow That Road, senza contare i due volumi Buy Me, Bring Me, Take Me: Don’t Mess My Hair!!! Life According To Four Bitchin’ Babes.
“We are stardust, we are golden….” cantava Joni Mitchell molti anni fa e mi sembra di riconoscere quel popolo meraviglioso negli artisti che animano quelle incisioni. In questo senso, fuori dal tempo, se esserne fuori significa non accettare le regole bieche di questo fine secolo e cercare l’uomo anche attraverso la musica, la poesia in musica, uno degli strumenti più alti che Dio ha affidato agli uomini per completare un disegno d’amore.
Questi artisti non saranno mai stelle. Essi ne hanno certamente consapevolezza e vivono lontano da facili guadagni, paghi della loro passione e della comunicazione schietta e genuina che hanno con i propri simili.
Parlarne, scegliere, non è facile tanta è la qualità che luccica nelle loro songs. Gli esclusi valgono i citati e spero che un giorno mi capiti l’occasione di poter parlare diffusamente di tutti. Chissà!
Comincio da un amico, James Mee. “Non sono mai stato molto lontano dal Vermont” mi scrive quando gli chiedo di portare le sue delicate canzoni come Big Times In A Small Town, qui in Italia. Risposta eloquente. James ha realizzato tre dischi, verdi e romantici come la sua terra.
Ho scoperto Richard Shindell con la prima raccolta. La sua Are You Happy Now? precedeva di poco Sparrows Point, forse uno dei dischi più clamorosamente rappresentativi del songwriting dell’ultimo decennio. Il mistico Dick ha appena proposto Blue Divide, degna seconda opera che conferma il suo profondo carisma. Parlando di lui, penso a Pierce Pettis, cuore traboccante d’amore e uomo dalla scintillante Ovation. Chi l’ha conosciuto non è rimasto affascinato solo dalle sue fresche ballate.
John Gorka ci ha visitato di recente, confermandosi un crooner con un mondo interiore immenso. I suoi cinque dischi sono pagine di squisita fattura. Al punto che non se ne potrebbe consigliare uno migliore degli altri.
Strumentista d’eccezione, presente in un paio di queste raccolte è il prodigioso Frank Christian, con i rivoli di suoni che promanano dalle sue incredibili corde accordate in DAGGAD. Una festa per l’udito.
Anche Al Petteway, il cui termine di paragone potrebbero essere nomi come Pierre Bensusan o Leo Kottke, è un virtuoso sulla chitarra acustica. All’erta. Il suo disco arriverà insieme alla prossima primavera.
Ben conosciuto agli appassionati è il dolce David Wilcox. Ottimi i suoi tre dischi di cui How Did You Find Me Here resta vetta ineguagliata. Qualcuno dovrebbe preoccuparsi di portarlo in Italia.
Da tempo beniamino del pubblico più sentimentale è Rod MacDonald, voce morbida e songs che accarezzano il cuore. Il suo recente The Man On The Ledge ci ha portato anche una splendida cover di Auschwitz di Francesco Guccini.
Bill Morrisey ha un raggio d’azione illimitato e spazia dal blues alle ‘stories’ con magnetica suggestione. Sei dischi all’attivo, compreso quello in società con Greg Brown: merce rara.
Cliff Eberhardt ha realizzato un eccellente album d’esordio. La sua seconda prova mi convince meno. Il duetto con Richie Havens in The Long Road da When October Goes fa tremare vene e polsi. Un feeling come il suo può portarlo in alto.
Fra i nomi meno conosciuti presenti in queste raccolte, mi ha impressionato Robin Batteau, cantante e violinista, un geniaccio che ha messo insieme già molti albums.
Soffici troubadours come Hugh Blumenfeld e Greg Greenway sono da poco sulla scena musicale, ma incantano con i loro accordi cristallini.
Se si cerca qualcosa di più eccentrico, magari con un occhio di riguardo per il cabaret, conviene accostarsi a John Forster, pianista e umoristico mattatore o a David Roth.
Dal doppio CD Follow That Road hanno lasciato buona immagine di sé i nuovi Tom Prasada-Rao che dedicano la loro Ashes Of Love a Mitch Snyder, tragico simbolo dell’idea non-violenta.
Ellis Paul, voce da perdente che provoca tremiti, Red Grammer melodico e soffuso come una luce declinante. Non mancano i vecchi leoni come Tom Paxton o Dave Van Ronk, quasi a testimoniare che l’età anagrafica è un dettaglio marginale quando la giovinezza è una condizione dello spirito. Forever Young, il profetico vaticinio da Hibbing non esaurisce il suo mandato.
Ceteris omissis, nessuno me ne voglia, non posso colonizzare la rivista, mi sono riservato l’ultima parte di questa lunga tirata per le esponenti del sesso femminile che così splendidamente infiammano questi dischi della Philo. Oltre alle conclamate nuove ladies, le cui biografie hanno riempito le pagine delle riviste specializzate in questi ultimi anni, mi si creda, esiste un sottobosco di talenti femminili davvero sorprendente. Ragazze che hanno diviso la loro passione con le banalità e le durezze del quotidiano, magari alternando modesti impieghi a tenaci applicazioni al canto e agli strumenti.
Non solo voci angeliche o imitatrici delle stars più note, ma personalità di grande spicco e musiciste di rara perizia. Sono perdutamente innamorato di ognuna di esse.
Di Kristina Olsen chi legge queste pagine conosce molto. La sua chitarra suonata come uno slider del Delta ben si accompagna con la profondità della sua voce e del suo sguardo. Non è gran fatica appoggiarla sul cuore. E Cheeryl Wheeler, soave signora dei campi di stelle, le sue ballate lasciano ferite che non vogliono essere rimarginate. Il suo ultimo disco, Driving Home possiede l’incantamento e la serenità di una primavera botticelliana.
Megon McDonough sa toccare ogni sensibilità con un canto limpidissimo e melodie di commovente richiamo. Patty Larkin ha il dono di un canto lieve come nuvole. Voce e chitarra ne attraversano l’impalpabile consistenza come sogni. Ascoltarsi come controprova Island Of Time o Winter Wind. Chi potrà resistervi?
Molto convincente pure Sally Fingerett, una leggiadra silfide che ha già proposto tre dischi. Anne Hills ha composto una song così accattivante che Dave Van Ronk ha chiesto potesse diventare il titolo della raccolta Follow That Road.
Le canzoni della garbata Julie Ouin, pianista provetta, sono state registrate da Nanci Griffith e Judy Collins.
Barbara Kessler sta per debuttare con il suo primo CD che si annuncia come gemma di non comune reperibilità. Il suo duetto con Jonathan Edwards, nome da non perdere d’occhio, Deep Country vale l’oro che mostra.
Luci su Diane Ziegler, una stellina che non mancheremo di seguire, sullo swing di Susan Werner, o l’ironia di Jonatha Brooke che dà la voce ai sogni di un cane in Dog Dreams.
La virtù chitarristica non è solo una prerogativa maschile. Hilary Field è infatti un’eccellente strumentista, autrice dell’album Music Of Spain & Latin America premiato a suo tempo come album classico dell’anno. L’ascolto della sua chitarra classica è un piacere da centellinare.
E infine Christine, ormai da tanti anni sulla scena con il suo repertorio leggero, così poliedrico e convincente. Le dobbiamo molto.
L’apporto femminile in questa serie di collection è determinante, talmente significativo da lasciare un’impronta indelebile nel cuore di ognuno.
Queste serate del Wintertide Cottehouse di cui deve esistere un materiale di registrazioni sterminato, esercitano un’attrazione fatale. Sarebbe il coronamento di un magico sogno vivere in quel clima e assistere ad esibizioni e improvvisazioni. Una vacanza meravigliosa, fra le accordature aperte dei songwriters e il suono della risacca, il canto dell’oceano che si frange sull’East coast.
Dedico questo articolo a Tom Intondi, presente con Heart On The Run nell’ultima raccolta… Tom ci ha lasciato prematuramente perché un male crudele l’ha strappato alla vita. Noi crediamo che per le sue struggenti composizioni non avrà dovuto bussare alle porte del Paradiso. “Follow that road, Tom!”.
Francesco Caltagirone, fonte Out Of Time n. 7, 1994