Peter Rowan

Peter Rowan è un artista a cui ben si adatterebbe l’attributo di ‘ramblin”. Ma non tanto per il suo contiguo peregrinare di stato in stato, alla ricerca di echi e umori che gli svelassero le tante anime del suo ‘grande paesè, quanto per quella sua cosí caratteristica curiositá e febbre di conoscenza che lo hanno portato ad accumulare lungo gli anni svariate esperienze musicali e discese in sonoritá spesso parallele, altre volte divergenti, ma comunque sempre profondamente autentiche.
Rowan ha suonato con tutti. L’albero genealogico degli scambi, delle collaborazioni e dei gruppi a cui ha partecipato appare smisurato, all’interno di una carriera giá molto estesa, ma con molto terreno ancora da percorrere.
Dal grande amore per il bluegrass, questo degno figlio spirituale di Bill Monroe, ha setacciato ogni filo d’erba della musica americana, spaziando dal rockabilly al folk, dal blues al tex-mex, dall’hillbilly all’OTM, immergendosi nel bluegrass, lambendo territori affini al rock e a taluni aspetti della ‘country music’.

Personaggio sicuramente ipersensibile, ci ha regalato nel corso degli anni album memorabili in cui ha riversato la sua profonda passione per le radici.
Durante il recente e breve tour in Italia, dove l’ottimo Luigi Grechi ha aperto i concerti, la sua voce cosí tersa e ancora giovane, una straordinaria abilitá di ‘picker’ su chitarra e mandolino e il brivido dato dalle interpretazioni, hanno fornito l’immagine di un musicista entusiasmante, nel pieno della sua prolifica creativitá.
I dischi usciti recentemente, il fulgido Yonder con Jerry Douglas e l’impeccabile Bluegrass Boy erano state giá promettenti avvisaglie di ció che dal vivo i suoi non pochi sostenitori in Italia si sarebbero goduti.
Lo incontro, non senza emozione, in un felice prolungamento di serata per un’intervista che sognavo da tempo.

FC – Sei la persona piú accreditata per una domanda sul grande Bill Monroe. Immagino che cosa abbia rappresentato per te la sua scomparsa. Un lutto personale, credo. Dimmi qualcosa che salga dal tuo cuore. (Resta lungamente in silenzio, io e mio figlio Dylan ci lanciamo occhiate fra allarme e imbarazzo. Conteró durante lo sbobinamento ben 30 secondi di black-out. Ma da quel momento, in grande armonia, non si fermerá piú).
PR – C’è una sorta di potenza nella musica di Bill Monroe. Era quel tipo di uomo a cui dovevi stare accanto, presso il microfono, quasi a spingere il tuo corpo contro il suo. E se tu cercavi il tuo spazio vicino al microfono, quasi si opponeva, era quasi una lotta. Ora che io ho raggiunto l’etá che Monroe aveva quando io suonavo con lui, apprezzo completamente il suo stile e cerco di dargli continuitá.
FC – Come posso chiederti di Monroe e non domandarti di Jerry Garcia? Deve aver lasciato segni profondi nella tua anima…
PR – Mentre con Monroe si trattava sempre di creare un attrito da cui scaturisse il fuoco, con Garcia si creava uno spazio in cui il fuoco potesse bruciare. Garcia aveva un senso del respiro della musica che lasciava grandi spazi aperti. Cosí si creavano combinazioni riuscite come quelle che hanno dato vita a band del tipo Old And In The Way.
FC – Il percorso della tua carriera è inquieto, senza posa. Hai cambiato tanti gruppi, senza lasciarne, spiritualmente, nessuno. Qual’è la ragione di questo tuo girovagare continuo tra folk e country, fra bluegrass e tex-mex?
PR – E’ l’influenza del paese in cui vivo, l’America, che si esprime attraverso i generi musicali che io percorro. E’ questo che io cerco di riflettere; la qualitá armonica del bluegrass, l’eccitazione ritmica del rockabilly, l’elemento melodico del tex-mex, il romanticismo della canzone spagnola. Credo di aver cercato di alimentare la mia anima con tutti questi stimoli.

FC – Mi interessa molto la tua esperienza con i Seatrain. I dischi realizzati con questa formazione sono considerati importanti, nonostante il relativo successo ottenuto. Qual’è la ragione dello scioglimento precoce? Quali erano le divergenze con Richard Greene?
PR – Il primo disco per la Capitol Records (Seatrain 1971, n.d.r.) fu un successo prodotto da George Martin ed anche Marblehead Messenger ebbe una discreta fortuna, sufficiente per soddisfare le esigenze del mercato per i tempi. Ciononostante, c’erano della pressioni per vendere di piú, forse a causa dei successi precedenti.
Era un ragionamento ridicolo. Trovavo pesante la ‘routine’ del gruppo, non avevo spazio per esprimere il bluegrass. Per me era un’esigenza forte. Il mio songwriting non era utilizzato in modo creativo.
Le personalitá all’interno della band erano molto diverse. C’erano Richard Greene, con il quale suono tuttora, al fiddle, il batterista Larry Atamanuik che ha suonato con Hammylou Harris, Andrew Kulberg che era un pó il leader del gruppo e che ora si occupa di pubblicitá e produzione musicale. Sta scrivendo un concerto. Ma c’erano differenti approcci alla musica. Quello con cui sono rimasto piú vicino è Richard Greene. Ma io e lui suoniamo ancora il bluegrass. Non c’era un’idea centrale e unitaria nei Seatrain. Eravamo come elementi atomici, selvaggi, che hanno finito per esplodere.

FC – Hai dedicato un pezzo al bandito Joaquim Murieta. Ricordo uno splendido spettacolo teatrale tratto dal testo di Pablo Neruda: ‘Splendore e morte di Joaquim Murieta’…Che cosa ti attraeva della cultura messicana?
PR – Quando andai per la prima volta in Messico scoprii la storia di Murieta che era finito in California. Mi piace scrivere canzoni su fatti storici, su avvenimenti veri. Per cui ero molto eccitato da Murieta come personaggio e volevo mantenere in vita la sua memoria. Grazie, per il testo di Neruda che mi hai regalato.
FC – Come definiresti il bluegrass? Cosa è stato per te questo tipo di musica?
PR – Penso che, in ultima analisi, il bluegrass sia un modo di sentire, molto piú che uno stile. La musica che io suono è ‘sentire’ il bluegrass. Ma parlando in senso strettamente musicale, intendendolo come uno stile, il bluegrass, nel senso classico, è fiddle, mandolino, banjo, chitarra e basso e un certo tipo di canzoni emotive. Il bluegrass è anche un blues, un albero con tanti rami. In questo momento sono molto interessato al bluegrass classico. Con i Muleskinner cercavamo un bluegrass divertente, progressivo. Mentre con gli Old And In The Way era bluegrass tradizionale. Nei miei dischi per la Sugar Hill c’è del bluegrass classico, pezzi di Monroe, ‘traditionals’. Ritengo che il mio ultimo Bluegrass Boy sia nella linea della tradizione.

FC – Qual’è stata la scintilla che ha fatto innamorare te, americano di Boston, della musica tradizionale del Sud?
PR – Quando ero bambino ascoltavo quella musica alla radio e mi piaceva. Notai subito la differenza fra la ‘pop music’ e il primo rock and roll. Esso parlava di un ragazzo che incontra una ragazza, mentre la musica country riguardava un ragazzo e una ragazza che si lasciano, l’altra faccia, capisci? Sono cresciuto a Boston dopo la II Guerra Mondiale. C’erano molti marinai del Sud che vivevano in questa cittá. E un grande fermento nella scena musicale.
C’era la radio, le esibizioni ‘live’ e quando fui un ‘teenager’ scoprii una band, i Lilly Brothers che ascoltai in un club di Boston, l’Hillbilly Ranch. Io gironzolavo da quelle parti. La mia prima band suonava rock, rockabilly: i Cupids. Suonavamo nello stile di Buddy Holly. Ma pur partendo dal rock ero piú stimolato dal bluegrass. Negli anni ’60 si stavano scoprendo le chitarre acustiche. Quelle bellissime, enormi Martin…
FC – In una vecchia intervista a riguardo degli Earth Opera, ho letto che parli di maschere, di Commedia dell’Arte. Pulcinella Sail Away, Dance Of Pulcinella… Io sono un appassionato di queste cose. Perchè ti interessa questo argomento?
PR – La prima volta che venni in Italia feci un’esperienza a Napoli. Andai al Museo di S.Martino, in cima ad una collina e vidi molti cartelloni natalizi nelle sale e ci passai una giornata intera. Alla fine di quel giorno scesi le scale verso Napoli e vidi le stesse persone ritratte nei cartelloni camminare per le strade della cittá. Mi incuriosii, volli saperne di piú e cosí arrivai alla Commedia dell’Arte e ai ‘tipi’ che l’avevano ispirata. Le strade di Napoli sono piene di personaggi. Fui colpito dalle maschere. In un concerto che diedi con Tex Logan, suonavo il mandolino e indossavo una maschera di Pulcinella. Volevo incarnare lo spirito dell’improvvisazione e le buffonerie della Commedia dell’Arte. Conosco un libro intitolato ‘Il mondo di Arlecchino’, pubblicato dalla Dover Press ed è l’unico libro che possiedo sull’argomento. Sono anche interessato a Goldoni.

FC – Attenzione, peró. Goldoni ha ‘ucciso’ la Commedia dell’Arte.
PR – Non lo sapevo. Sono stato a Venezia a visitare la sua casa.
FC – Goldoni ha ingentilito le maschere, le ha svuotate della loro rusticitá.
PR – Sono affascinato anche dalle maschere giapponesi, dal teatro ‘no’. Ho usato maschere nelle mie esibizioni, molte volte. Peró negli ultimi anni sia per esigenze di produzione che mie, mi concentro sulla musica. Suonare mascherati è qualcosa di pauroso, perchè si vedono le espressioni senza essere visti e ció tende a spersonalizzare. In un certo momento, la maschera è stato un mezzo di trasformazione delle mie idee. C’è un parallelo fra un certo travestimento, il bluegrass e la Commedia dell’Arte. C’è una buffoneria in comune. In quello spirito, le cose diventano paurose e divertenti nello stesso tempo. Ho assistito ad un unico spettacolo sulle maschere, a Venezia.
FC – Parlami dal tuo punto di vista degli Indiani d’America, un tema fondamentale nella tua opera. Quali riflessioni e insegnamenti trai dalla loro cultura?
PR – Il sentimento che esprimono gli Indiani lo vedi nelle riserve, nelle campagne d’America. Ma c’è del romanticismo intorno a questo argomento, sulla purezza degli Indiani. La perdita di questo valore ha danneggiato la cultura americana. Le loro storie sono molto commoventi, il loro spirito è ormai come uno spettro, un’ombra di cui la gente ha nostalgia. Recentemente mi sono un pó staccato da queste cose e vorrei prossimamente tornare nelle terre degli Indiani. Seguivo le danze rituali in giugno. Era una occasione per stare in stretto contatto con essi e le loro tradizioni.
FC – Cosa pensi del lavoro di Carlos Nakai, di John Trudell e Robbie Robertson?
PR – Mi piacciono. Particolarmente il lavoro di Robertson. Apprezzo l’uso delle sequenze di sintetizzatori per mescolare le voci dei canti indiani con il rock. L’opera di Trudell è potente, con Carlos Nakai spero di poter registrare qualche cosa insieme quanto prima.

FC – Quali sono le origini della tua famiglia?
PR – Rowan è un termine gallese-irlandese. Mia madre era di origine inglese e mio padre gallese-irlandese.
FC – E’ stato recentemente ristampato in cd Old And In The Way. Cosa ricordi di quell’esperienza a San Francisco dopo ventitre anni?
PR – Mi ricordo di quanto sia stato divertente concentrare tanta energia in un’unica direzione. Garcia era felice in quell’epoca! E quando Garcia era felice, tutto il mondo era felice. Come il sole!
FC – Awake Me In The New World è un altro disco molto poetico, dove esibisci tutta la tua vena romantica. Quali sono le tue aspirazioni nel folk?
PR – Amo conoscere le radici, il celtic-bluegrass, la musica spagnola. Le mie aspirazioni di folksinger sono diverse da quelle che si hanno con una band. Per me si tratta di stare completamente solo e di trasmettere l’emozione di una canzone all’ascoltatore.
FC – Il mio disco preferito, tra i tuoi, è lo splendido Dust Bowl Children. Una pagina di vibrante e commovente folk. Il tuo omaggio agli indiani Hopi, il ‘popolo pacifico’, è una gemma acustica. Parlami della realizzazione di questo album.
PR – Ho scritto parte del materiale viaggiando in Europa durante i primi anni ’80. Era stato il mio primo tentativo di lavoro solistico. Altri pezzi li realizzai a Nashville dall’84 all’88. Era la prima volta che incidevo senza accompagnamento.
FC – Cosa pensi di Peter Ostroushko, un mandolinista che da molti anni apprezzo particolarmente?
PR – Peter è grande, un grande musicista. Molto interessante.

FC – Mi è piaciuto molto il tuo duetto con Tish Hinojosa Solo Tus Ojos nell’album di Tish Frontejas
PR – Ho cominciato a registrarla quando ero in Messico, suonando al matrimonio del comandante di una nave. Era molto toccante. L’ho cantata con Tish alla cerimonia e poi è diventata una canzone.
FC – Hai frequentato molto l’Italia. Hai inciso dischi qui. Cosa pensi del nostro paese?
PR – Amo molto l’Italia e non vedo l’ora di fare un altro tour. Piú degli anni passati. Mi accorgo che c’è un grande progresso tecnologico, specialmente al Nord. Mi colpisce la gentilezza delle persone. E la terra è cosí antica… Quando resto a lungo in un luogo mi piace di percepire qualcosa di antico. Ed è proprio quest’etá della terra a farmi sentire piú profondamente il senso della musica. le cittá sono troppo affollate. Puoi guardare i negozi, prendere un cappuccino, ma il traffico e l’inquinamento sono peggiorati.
In un’intervista mi domandarono perchè io cantassi il ‘country’, quando tutti si concentravano sulla vita nella cittá. Io credo di esprimere il valore della terra. Non è tanto il cantare ‘country music’, quanto la campagna come valore, come luogo. E’ un valore duraturo che voglio mettere nella mia musica. Questo lo puoi trovare nel bluegrass, nel blues. Venire qui, in Italia, è stata una fonte di ispirazione.

FC – Nel recente album con Jerry Douglas, il suono mi è sembrato davvero intenso, ricco di sonoritá suggestive. Avete ascoltato vecchi 78 giri? C’è uno spirito antico in questo disco…
PR – 78 giri, Edison Cylinders, dalla collezione di Norman Blake e Richard Spoltwood. Vecchie arie dal 1915 al 1920. Questa è l’epoca in cui ci sono le piú vecchie testimonianze di musica registrata.
FC – Hai in mente la pubblicazione di un box che comprenda i vari aspetti della tua musica o di un ‘live’?
PR – Ci sto pensando.
FC – Sei religioso?
PR – Che cosa vuol dire religioso?… sto seguendo un percorso buddhista. Ma la cena è pronta… Questo è un argomento molto importante…
FC – Hai un sogno musicale?
PR – Si, ce l’ho. Ne ho molti. Ma non so esprimerli. La cena è pronta… (inspirando il profumo che arriva dalla cucina).

Francesco Caltagirone, fonte Country Store n. 37, 1997

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