Così i Poco sopravvivono e il marchio a ferro di cavallo continua ad esistere. Abbandonato il progetto di una Cotton & Young Band, scartata l’ipotesi di trasformarsi in Po (sì, come il nostro massimo fiume, che avrebbe significato un modo simbolico di accettare il dimezzamento dell’organico del complesso), Paul Cotton e Rusty Young provano a dimostrare di essere in grado di assorbire le partenze di Timothy Schmidt, andato a cercar gloria (e quattrini) cogli Eagles e del batterista George Gramtham che si è unito (non si sa ancora quanto stabilmente) a tre degli originali Byrds: McGuinn, Clark & Hillman.
Ci sono riusciti? La risposta ad onor del vero non dovrebbe essere positiva ma preferisco tenere una porta aperta e considerare una prova almeno sufficiente che non ci può certo rassicurare sul futuro del gruppo ma che è in grado di offrirci almeno diversi momenti pienamente godibili. Allora bene hanno fatto i due superstiti ad osare, anche a costo di esporsi a delle critiche più severe, facendo rimandare (speriamo non cancellare, perché potrebbe risultare interessante) Last Round Up, quel doppio LP più volte annunciato, che avrebbe però avuto chiaramente il sapore del congedo. Così a distanza di quasi due anni da Indian Summer abbiamo questo Legend che si propone di risalire la china.
Il sound del disco rimane di chiara marca Poco. Le voci corali continuano ad essere una caratteristica essenziale. I due nuovi, il bassista Charlie Harrison proveniente dai Thunderbyrd di Roger McGuinn e il batterista Steve Chapman sconosciuto, sono per ora soltanto strumentisti pur validi ed efficaci (e che si fanno sentire…). Il primo è anche harmony vocalist per la precisione… Lo sforzo compositivo maggiore è di Rusty Young che scrive e canta sei brani su nove. Ma forse quest’impegno si rivela troppo gravoso per lui, che dovendo distribuire in maniera oltremodo diffusa le sue energie finisce col perdersi trascurando la sua steel guitar. Delle sue canzoni infatti tre sono piuttosto valide, una così così, mentre due lasciano decisamente a desiderare.
Tra le prime: Legend che dà il titolo all’album, un rock slanciato e picchiato proposto dal gruppo in forma smagliante quasi all’altezza delle sue cose migliori. Crazy Love bellissima, prevalentemente acustica, potenziale seguito di Keep On Trying (il singolo di maggior successo del gruppo) con quell’incantevole coro del ritornello a più voci; Spellbound dolce e leggera, con una chitarra acustica che disegna candidi accordi di sapore orientale che rendono il brano melodioso e rilassante; The Last Goodbye avvolta in un’atmosfera un po’ rarefatta con organo e basso in evidenza non riesce però a dire tutto quello che potrebbe… E sia Little Darlin, moderato rock sul filo del disimpegno che Loves Comes, Loves Goes, scontata canzone d’amore che sa di cose già fatte, quest’ultima pur bene eseguita e con un vivace guizzo di sax, non sono affatto convincenti.
Paul Cotton che si conferma chitarra solista sempre preziosa e puntuale, è più misurato e presenta solo tre pezzi. Le sue composizioni non sono però ahimè sempre all’altezza delle sue capacità, pur essendo di discreto livello. La più riuscita è Heart Of The Heart, decisa, corposa, fluida, puro stile Poco al meglio, con steel, sax e synthethizer. Poi viene Boomerang, rock molto ritmato con notevole lavoro chitarristico-solista. Barbados si muove con un certo fascino, ma viene bruciata da un coro calato dall’alto e fuori posto. Rispetto ad Indian Summer, tenuto soprattutto conto delle vicissitudini e dei problemi successivi, non si può negare che ci sia un certo progresso.
A questi Poco sarebbe utile adesso un incoraggiamento, magari la scelta di un solido brano altrui da interpretare con quella freschezza e capacità di cui certo sanno, per Rusty in particolare un richiamo alle origini, un invito a non dimenticare quanto come strumentista ci si aspetta ancora da lui. Speriamo allora che la critica non dia troppo addosso a questo Legend, gettando definitivamente nello sconforto e nel caos le sorti di un gruppo che è stato tra i più considerati nel suo campo d’azione musicale.
Ed ora una scheda sommaria relativa alla loro intera produzione discografica.
Pickin’ Up The Pieces (Epic, 1969)
Per molti, tra i più sottovalutati ma importanti album della storia della musica rock, è sicuramente un debutto molto interessante. Si rivela un disco assai innovativo che si concede ampia libertà. Infatti etichettarlo semplicemente come uno dei primi lavori country rock non è sufficiente, dal momento che si prova a creare una sorta di nuovo e composito sound, che si discosta dai canoni tipici della musica C & W. Elemento di trade union resta la steel guitar che mostra quanto ampi siano gli spazi entro cui il gruppo intende muoversi. Rusty Young riesce anche a dimostrare che il suo strumento può suonare indifferentemente ora come una chitarra, ora come un organo, ora persino come un sintetizzatore. Di là delle intenzioni però il disco non viene compreso dal pubblico che si mostra impreparato a recepirlo, probabilmente perché non sufficientemente orecchiabile. Alcuni suoi brani comunque diventeranno classiche esibizioni on stage, come Pickin Up The Pieces, Consequently So Long, lo strumentale Gran Junction, Just In Case It Happens Yes Indeed.
Poco (Epic, 1970)
Un passo indietro rispetto al primo LP nonostante l’ingresso di Timothy Schmidt, che si sta ancora musicalmente formando. Le idee del gruppo sono un po’ confuse, c’è un po’ di disorientamento dopo la fredda accoglienza riservata al primo LP. Viene fatta una nuova versione di Nobody’s Fool, inciso il primo pezzo altrui, un lamento country di Dallas Frazier, occupata la seconda facciata quasi interamente da El Tonto De Nadie Regresa, un brano d’orientamento latino che si perde in eccessivi fraseggi funky (cosa che ha spinto qualcuno a metterli per l’occasione a confronto con Santana…). Molto bello il brano You Better Think Twice di Jim Messina, fresco e guizzante, anche primo singolo ad avventurarsi su e giù per le charts.
Deliverin (Epic, 1971)
Splendido album live tra i primi e i più belli pubblicati nel suo genere. Riuscitissima lezione su come si possa entusiasmare il pubblico con serietà e classe senza fare ricorso a fronzoli o artifizi scenici. Il gruppo sprizza sul palco un ritrovato ottimismo e sicurezza, muovendosi davvero nel suo insieme nonostante Richie ne sia il mattatore. Il lavoro degli strumenti, sui quali fa ovviamente spicco la steel guitar, è perfetto, limpido, avvincente. Ben cinque brani inediti più due, Kind Woman e Child’s Claims To Fame, di provenienza dal repertorio dei Buffalo Springfield. Un album gioioso e lieto, più che raccomandabile. Straordinaria l’esecuzione di Grand Junction, riuscitissima e indovinata la miscellanea di Hard Luck (Schmidt), a Child’s Claims To Fame e Pickin Up The Pieces. Assai venduto.
From The Inside (Epic, 1971)
La perdita di Jim Messina è meno drammatica del previsto. Il gruppo gli trova un validissimo sostituto in Paul Cotton, musicista già molto vicino alla musica dei Poco. Questi, che si rivelerà autore piuttosto prolifico, porta con sé un brano del suo vecchio gruppo (gli Illinois Speed Press) intitolato Bad Weather, che resterà uno dei loro pezzi migliori in assoluto grazie al suo fascinoso gioco chitarristico. From The Inside è un buon album, presenta diversi brani assai interessanti, come From The Inside appunto di Timothy Schmidt e You Are The One e What If I Should Say I Love You di Richie. Un LP di transizione, ma soprattutto un chiaro segnale di cose ancor più importanti da venire.
A Good Feeling To Know (Epic, 1973)
I Poco continuano a ricevere elogi ed attestati di stima; ne sono soddisfatti e lusingati ma non del tutto appagati. Tentano così di allargare la schiera dei propri ammiratori realizzando un album un po’ più appetibile, con un hit record sound, che non vuoi dire commerciale nel senso deteriore dato a questa parola. Ecco allora un disco (eccellente) più rock, più elettrico, più pieno, con brani più lunghi e più ricchi strumentalmente, con una sonorità in evidente trasformazione. Alcuni brani sono fantastici Ride The Country di Paul, Restrain di Timothy e il brano che dà il titolo all’album di Richie sono veri e propri gioielli. È inciso anche un vecchio brano di Stills apparso sui primo LP dei Buffalo Springfield, Go And Say Goodbye, più svelto e sensibile.
Crazy Eyes (Epic, 1973)
Il masterpiece costruito attorno ad una vecchia canzone di Richie (’69) dedicata a Gram Parsons (Crazy Eyes appunto) della quale con la raffinata regia di Bob Ezrin e Alan McMillan viene fatta un’incredibile e lunghissima versione assolutamente fantastica: orchestra e gruppo si fondono in un unico roteare esplosivo di suoni, colori, immagini. Banjo e steel guitar fanno le cose più pazzesche. Bellissima poi l’interpretazione di Magnolia di J.J. Cale con un grande sax come quella di Brass Buttons di Gram Parsons e di tutti gli altri pezzi originali. C’è in questo album il miglior lavoro vocale e strumentale fatto in assoluto dal gruppo. Il disco più eclettico, in un certo senso più raffinato e intellettuale il cui messaggio però ancora una volta non viene compreso ad ampio livello.
Seven (Epic, 1974)
Perduto anche Richie, i Poco proseguono in quattro dimostrando di poterlo fare a buon diritto e con facilità. Questo album diviene così la prova del raggiungimento da parte loro della loro piena maturità musicale ed artistica, pur senza chi era un po’ considerato la guida e l’ispiratore principale. Nonostante non sia considerato tra i più importanti dischi del gruppo, è un lavoro affascinante, un aperto collage. Paul non sbaglia un brano, Angel, Faith In The Family, Drivin’ Wheel sono eccellenti nella loro diversità. Skatin di Timothy è molto bella. Rusty presenta quella che si può ritenere il primo bluegrass, Rocky Mountain Breakdown. Da non sottovalutare. È con questo LP che appare per la prima volta il ferro di cavallo.
Cantamos (Epic, 1974)
Presentato con una deliziosa copertina che si apre a finestra su di un’immagine casalinga del gruppo in un momento di prova, è un album pieno di vita e vitalità. C’è un’accentuata apertura verso il bluegrass, naturalmente visto in una personale ottica Poco. Qualcuno dice anche che è tra i più semplici e genuini loro LP. Rusty, che per ora continua a non cantare, si fa protagonista di interventi sempre più elaborati e vari. Spiccano tra i brani la sua Sagebrush Serenade, squisita performance, Whatever Happened To Your Smile di Timothy e One Horse Blue di Paul, fantastico rock elettrico. È la prime volta che il gruppo produce se stesso.
The Very Best Of Poco (Epic, 1975)
Doppia raccolta antologica della Epic comprendente diciotto pezzi. La scelta del materiale, che non è neppure presentato cronologicamente ma alla rinfusa, è piuttosto discutibile. Pickin Up The Pieces dal primo LP; You Better Think Twice dal secondo; C’ Mon, A Man Like Me, la medley Just In Case It Happens Yes Indeed, Grand Junction, Consequently So Long, da Deliverin; Bad Weather, Railroad Days, Just For Me And You da From The Inside; A Good Feelin To Know, Sweet Lovin, And Settlin Down, da A Good Feeling To Know; Fools Gold, A Right Along da Crazy Eyes; Faith In The Families, Rocky Mountain Breakdown da Seven; Another Time Around da Cantamos.
Head Hover Heels (Abc, 1975)
Il cambio di casa discografica giova moltissimo al gruppo che incide un album che risulterà il più venduto, insieme con un singolo, Keep On Trying la canzone d’apertura, che sfiorerà un vero e proprio successo commerciale. Head Over Heels non è nulla di trascendentale, né di straordinario, semplicemente un LP riuscito, registrato con entusiasmo, ben prodotto, persino molto orecchiabile. Oltre a Keep On Trying di Timothy, bellissimo pezzo acustico-corale, da segnalare Dallas di Faghen e Becker, con incredibili arpeggi di steel guitar, che pure avrebbe avuto tutti i numeri per essere un altro successo, Us con Rusty finalmente come vocalist, Down In The Quarter di Paul avvolta in una strana armonia orchestrale.
Live (Epic, 1976)
Un album postumo della Epic già pronto da diverso tempo (novembre 1974). Non ha ovviamente il fascino del precedente Deliverin ma è ugualmente ottimo. È il nuovo volto del gruppo nella formazione a quattro, senza più pezzi di Richie, tranne A Good Feeling To Know cantata da Timothy, e con prevalente materiale di Cotton e Young. Pur non essendoci nessuna novità, i pezzi interpretati sono proprio i più rappresentativi. Side A: Medley: Blue Water, Fools Gold, Rocky Mountain Breakdown, Bad Weather, Ride The Country. Side B: Angel, High And Dry, Restrain, A Good Feeling To Know.
Rose Of Cimarron (Abc, 1976)
In apparenza il più caldo album del gruppo, stando almeno alle impressioni che suscita la splendida copertina, e alla strizzatina d’occhio rivolta ad un certo sound di lingua spagnola, non mantiene le promesse. Troppo bello il pezzo iniziale di Rusty che titola l’album nei confronti del resto. Solo Too Many Nights Too Long di Paul può essere posto allo stesso livello. Gli altri, pur arrangiati, interpretati ed eseguiti con la solita classe, sono distanti. Ecco la ragione per cui questo disco lascia qualche perplessità, al di là di un giudizio comunque positivo. Rose Of Cimarron (la canzone) è un piccolo capolavoro, e può essere accostata in un certo senso a Crazy Eyes per via del riuscito sforzo di arrangiamento anche orchestrale che l’accompagna sul finale. Molto piacevole anche Starin At The Sky, brano semi acustico di Timothy.
Indian Summer (Abc, 1977)
Una preoccupante scivolata che denuncia un momento di scarsa ispirazione del gruppo. Eccessiva ripetitività di schemi musicali, scarsezza di spunti in qualche modo capaci di vivacizzare l’ascoltatore, ormai sterile perfezione esecutiva. Per di più assenza di un pezzo guida in grado almeno di fagocitare su di sé l’attenzione generale e Rusty Young che propone un pezzo che suona disco-music. Si salvano poche cose, tra queste: Livin In The Band di Paul restrospettiva, e Find Out In Time di Timothy, che si cimenta per la prima volta all’armonica.
ABC 1099 (Country Rock, 1978)
Raffaele Galli, fonte Mucchio Selvaggio n. 15, 1979