Abbiamo preso in prestito il titolo di un album degli Staple Singers per parlare di due artiste quasi coetanee, dalla personalità distinta, eppure per certi versi accostabile, emersa ancora più nettamente e per entrambe, con il secondo disco solista. Crediamo sia un amore comune quello per Pops Staples e famiglia, tanto che un loro brano è centrale nel disco della Giddens e Valerie June ha scritto per Mavis Livin’ On A High Note. Tra l’altro i loro dischi sono usciti per due grosse etichette, Nonesuch/Warner per Giddens e Concord/Universal per June, senza che questo ne abbia alterato la singolarità, anzi se possibile hanno guadagnato dalla collaborazione con due produttori meno noti rispetto a T Bone Burnett e Dan Auerbach, rispettivamente al timone per i loro dischi precedenti.
Cominciamo da Rhiannon Giddens, che per incidere Freedom Highway (Nonesuch 558805) è andata in Louisiana, collaborando col multistrumentista e produttore Dirk Powell, a suo agio con varie sfaccettature della musica tradizionale americana, (già collaboratore di Joan Baez, Irma Thomas, Eric Bibb, Eric Clapton). Questi ha cucito attorno alla mirabile voce della Giddens, talentuosa polistrumentista a sua volta, una strumentazione mirata, parca, fatta soprattutto di strumenti a corda (banjo, chitarre, violino, cello) ma con qualche incursione di una sezione fiati. Rispetto al disco precedente, improntato sulle cover, questa volta nove brani portano la sua firma.
Rhiannon si rivela autrice dallo sguardo profondo e limpido, le sue composizioni affondano le loro radici nel passato, ai tempi della schiavitù, della guerra civile e della vita nelle piantagioni. Sono canzoni che hanno un senso della storia e sembrano essere già parte di una tradizione secolare, come se fossero già lì, da qualche parte, pronte per essere recuperate da lei. La cosa è particolarmente evidente su Julie, una canzone che già eseguiva coi Carolina Chocolate Drops, ispirata alla lettura di un libro dello storico Andrew Ward, The Slaves War, sulla guerra civile vista dagli schiavi.
La canzone diventa un dialogo tra schiava e la padrona condiscendente, che le ha venduto i figli, la voce di Rhiannon abita questa storia, piena di gravitas e dignità e fa lo stesso con l’accorato spiritual We Could Fly. Basterebbero questi due episodi per iscrivere la Giddens nella linea di figure come Odetta o Nina Simone, delle quali ha già interpretato brani nell’album prodotto da Burnett, ma qui appunto compie un passo in più. Fa i conti con la coscienza sociale e storica del suo paese, anche con il pezzo più ‘moderno’, Better Get It Right The First Time, sarebbe stato perfetto come colonna sonora nell’intenso documentario 13th, di Ava DuVernay, sulle carceri americane; qui funzionano benissimo i fiati ed anche gli inserti rap (Justin Harrington), denuncia la violenza subita da tanti ragazzi afroamericani.
Lei è sempre stata vicina a certi temi, ricordiamo il bellissimo filmato rintracciabile in rete Cry No More realizzato un paio d’anni fa dopo il massacro in una chiesa di Charleston, South Carolina, e il fatto che ha suonato, per presentare il disco, nel carcere di Sing Sing. Anche quando riprende Mississippi John Hurt, The Angels Laid Him Away, la dolente Birmingham Sunday (scritta Richard Fariña su un altro massacro in una chiesa di Birmingham nel 1963 e già del repertorio di Joan Baez) trova una chiave personale ed empatica. Hey Bébé e The Love We Almost Had alleggeriscono i toni, con l’apporto di un trombettista e soprattutto la prima con un influsso creolo, nata, racconta lei stessa, dall’ascolto di Amédé Ardoin. La cover di Freedom Highway chiude un disco ispirato, coinvolgente, la conferma di come la musica sappia ancora ricordarci storie di ieri e di oggi, senza voltare lo sguardo dall’altra parte e, cosa non meno rilevante, senza eliminare l’orizzonte della speranza.
Sono passati quasi quattro anni da Pushing Against The Stone (Il Blues n. 124) e Valerie June si è affermata del tutto. Questo nuovo The Order Of Time (Concord 37712), registrato per la maggior parte in uno studio nelle campagne del Vermont, con la collaborazione di Matt Marinelli, produttore e multistrumentista (ora fa parte anche della sua touring band), conosciuto quando lui lavorava come road manager per Norah Jones. Marinelli ha saputo entrare in sintonia con la June e rivestire le canzoni di Valerie dell’abito giusto, più omogeneo rispetto al disco precedente, pur mantenendo un equilibrio tra brani intimisti e altri trascinanti.
La musica della June sa sfuggire a categorie prefissate, I Got Soul, afferma nell’ultimo brano, anche se “potrei cantarvi una canzone country o blues” ed in effetti la sua musica ha in sé elementi folk in senso lato, combinati con una propensione soul accentuata dall’uso dei fiati, almeno in qualche brano. Il disco è una riflessione sullo scorrere del tempo, ben simboleggiato, crediamo, dalla sezione di un tronco d’albero, fotografato all’interno del CD. Le canzoni, composte in un arco temporale piuttosto ampio, parlano di caducità, ricordi, addii, amore e dolore, porte che si aprono o si chiudono. Una dimensione più intima rispetto a quella generale, eppure le due cose sono intrecciate e complementari e la sintesi musicale che Valerie opera è essa stessa parte di un processo storico.
Quel che la distingue ancor di più è la sua voce così identificabile, del tutto fuori dai canoni, ora acidula, stridente, ora invece capace di tracciare linee melodiche aeree. Il richiamo più immediato, almeno per i pezzi in cui l’influenza blues è prossima, ad esempio If And o soprattutto la successiva Man Done Wrong, una delle cose più belle del disco, ci sembra alla grande Jessie Mae Hemphill. La seconda parte del disco vira su ballate, Slip Slide On By, soul sensibile con bell’arrangiamento di fiati o una tranquilla canzone d’amore come With You. I suoi fratelli e il padre, scomparso lo scorso novembre e che Valerie ha ricordato in un accorato articolo comparso sul New York Times, compaiono come coristi in qualche brano, come l’uptempo contagioso Shakedown.
La supportano anche l’amica Norah Jones (di cui Valerie ha aperto diversi concerti) e alcuni musicisti della sua cerchia, il tastierista Pete Remm e il batterista Dan Rieser. Citiamo ancora Astral Plane, con le sue atmosfere sospese, in leggero crescendo, almeno nel titolo non può non ricordare il Van Morrison di Astral Weeks, un artista che le si potrebbe accostare per la ricchezza degli influssi e per la ricerca di senso, incessante e quasi spirituale attraverso la musica. The Order Of Time conferma Valerie June come artista complessa e dalle molte anime, spigolosa o dolce, sembra aver qui trovato una dimensione più aderente a sé stessa. Non ci resta che sperare che la loro fitta agenda di concerti le porti, prima o poi, dalle nostre parti.
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 139, 2017