E ancora ritorniamo a lui, sommergendogli la vita con le nostre richieste. Vogliamo ascoltarlo cantare le canzoni che l’abbiamo sentito cantare in una cabina d’ascolto di un negozio di dischi nell’autunno del 1963…. Il ritmo è un po’ beatnik un po’ poesia per questa nuova storia illustrata di Bob Dylan, l’uomo chiamato pseudonimo. Il volume è più un elegante libro fotografico che una verbosa biografia, più esercizio catartico che narrativa distaccata. Un piccolo nodo di ricordi e di gratitudine dolce-amara che non sorvola sui lati più spiacevoli dell’uomo e dello pseudonimo: donne usate e gettate, amicizie stritolate, cambi di marcia e di pelle. Ecc. ecc. ecc.
L’autore è Richard Williams, giornalista inglese quarantacinquenne con un passato a Melody Maker e al Times e un presente come direttore dell’inserto domenicale di uno dei maggiori quotidiani inglesi, l’Independent. Uno stile diretto, asciutto ma non privo di tenero pathos. Ma anche una divertita lucidità. Prima ancora di gettarsi sulle tracce di Bob, Williams si preoccupa subito di distinguere tra, da una parte la concretezza della storia rigorosamente ricercata e documentata, fatta di ritagli di ricordi e di squarci di canzoni, e dall’altra, invece, l’illusione dell’intimità totale. … questa è la storia di Bob Dylan; ma non è la sua vita. La premessa è un buon salvacondotto contro ogni tentativo di oleografico stordimento e pretesa chiaroveggenza.
E per chi non l’avesse ancora capito, la citazione d’apertura è definitiva: It’s always lonely where I am, Bob Dylan 1965. In The North Country è il primo capitolo, con un sottotitolo da didascalia fotografica: Una chitarra turchese, una motocicletta e una ragazza chiamata Echo.
E’ una carrellata di tasselli concreti di leggenda votati a testimoniare l’esistenza di una vita precedente allo pseudonimo. E come in un vecchio telefilm in bianco e nero di Perry Mason, la storia inizia con un dettaglio: il certificato di nascita di Robert Allen Zimmerman, arrivato sul pianeta Terra alle 9 di sera del 24 maggio 1941, sabato, a Duluth, Minnesota, figlio di Abraham e Beatrice.
Poi il panorama si allarga e si passa anche agli esterni, con le foto di casa Zimmerman, a Duluth e a Hibbing, in quella casa con la stanza che il giovane Bob aveva tappezzato di fotografie di James Dean.
Ci sono gli idoli dylaniani dell’adolescenza, James Dean, Elvis Presley e Little Richards. Ci sono anche le sue foto scolastiche. Viso paffuto, occhio azzurro e capello ribelle, imbrigliato in un ciuffo già scompigliato. Le fughe cominciano presto. Lontano dal solido background borghese della famiglia Zimmerman e delle sue strade del Minnesota. Fino ad approdare all’università di Minneapolis 1960, un caffè chiamato ‘la cipolla rossa’ nel quartiere bohémien di Dinkytown e la sua prima canzone, un blues, One-Eyed Jacks.
Addio alla laurea, addio al primo amore d’arte, Bob Dillon. Benvenuto a Bob Dylan e all’incontro con Bound For Glory, l’autobiografia di Woody Guthrie che, come in un film di Frank Capra, gli cambierà la vita. Si mette in viaggio e comincia ad allontanarsi da Minneapolis: Chicago, il Wisconsin e infine, verso la fine di gennaio del 1961, New York, … mentre una fitta coltre di neve ricopriva le strade, durante l’inverno più freddo da 60 anni a quella parte, una macchina attraversò il ponte George Washington verso Manhattan e si accostò al marciapiede. La porta si aprì. Bob Dylan, anni 20, era arrivato a New York.
Lo stile di Richard Williams è quello del giornalista investigativo che non dimentica le emozioni. Dall’arrivo a NY City in avanti, la storia è in accelerazione continua, almeno per i prossimi dieci anni. Nel giro di ventiquattr’ore ha già suonato al Cafè Wha?, è stato a trovare Guthrie all’ospedale e può scrivere ai suoi amici di Dinkytown: Ho conosciuto Woody … ho conosciuto Woody e l’ho incontrato, e l’ho visto, e ho cantato per lui. Ho conosciuto Woody – goddamn. Dylan.
E noi, goddamn, continuiamo a leggere avidamente questo riassunto di una parabola ultratrentennale. Anche se siamo fra quelli che, nel gennaio del 1961, non eravamo ancora nati.
Marina Ganzerli, fonte Hi, Folks! n. 56, 1992