“Vi sono delle volte che le finalità della vita si presentano in un tale intreccio, che la ragione e il buon senso ci debbono gridare di fermarci e di raccoglierle nuovamente, in un certo ordine, prima di poter andare oltre” scriveva Richard Wright e questa lucidità è il motivo per cui Ralph Ellison, autore del fondamentale Uomo Invisibile (Einaudi) aveva un’alta considerazione del suo lavoro, tanto da dedicargli l’intero saggio di Richard Wright’s Blues, che già nell’incipit chiariva che “ha usato la sua vita per sondare quali qualità di volontà, immaginazione e intelletto sono richieste a un negro del Sud per possedere il significato della sua vita negli Stati Uniti. Wright è uno scrittore importante, forse il più articolato tra gli afroamericani, e quello che ha da dire è molto perspicace”. Se nel suo approccio c’è “l’ammirazione e il rispetto delle cose e degli uomini immaginosi e fantastici”, quello che risalta, ancora oggi, è la determinazione nel ricostruire la condizione di un popolo nella sua estrema composizione fatta di sottomissione e paura e di negazione dei diritti elementari. La sua forza sta tutta nel portare in superficie le emozioni, scavando nelle psicologie dei personaggi, costretti a rifugiarsi in una dimensione spirituale, alternativa alla realtà, in cui il canto, dagli spiritual in avanti, ha una dimensione di assoluto rilievo.
Tutti i romanzi e i racconti di Richard Wright sono costellati da canzoni perché l’umanità ritratta è un volto sofferente, grondante di blues, ma con i tratti di una grande consapevolezza. A parte le citazioni esplicite, puntuali e continue delle canzoni popolari e tradizionali quali parti del patrimonio afroamericano è proprio il tono della scrittura a delineare l’atmosfera blues, intesa proprio nella trasposizione letteraria. Un lavoro di ricostruzione minuzioso, particolarmente attento alla condizione umana dei suoi protagonisti: Richard Wright non confonde la sofferenza con la rivendicazione (sacrosanta), ma è proprio nella sua narrazione che si percepisce, non soltanto il senso di un’ingiustizia lacerante, ma proprio la brutalità di un’oppressione che si nutre e si moltiplica attraverso la paura. Come scriveva in I Figli Dello Zio Tom (Einaudi), un romanzo punteggiato in continuazione dalle canzoni popolari, ovvero dai blues: “I negri che hanno vissuto al Sud sanno il terrore di venir colti da soli nelle strade della zona bianca dopo il tramonto del sole. È in una situazione semplice come questa che si può simboleggiare graficamente la condizione del negro d’America. I bianchi possono trovarsi per strada mentre tornano a casa e passare indisturbati. Ma il colore della pelle di un negro lo mette subito in vista, lo rende sospetto, lo trasforma in un bersaglio inerme”.
È una quotidianità di costante pericolo, di insicurezza, di dubbio che incastra i personaggi, così come gli uomini e le donne nella realtà, tra due estremi contrastanti, una percezione che in L’uomo Che Andò A Chicago una delle storie raccolte in Otto Uomini (Racconti) viene centellinata così: “Ogni momento della giornata viene dunque consumato in una guerra contro di sé, una parte sostanziosa delle sue energie spesa per mantenere il controllo delle proprie sregolate emozioni, emozioni che non ha mai desiderato, ma che non può fare a meno di avere. Tenuto a bada dall’odio per gli altri, preoccupato dai suoi stessi sentimenti, è poi continuamente in guerra contro la realtà. Diventa inefficiente, meno capace di vedere il mondo nella sua oggettività”.
C’è una canzone all’inizio di Paura (Bompiani) ovvero Native Son, quando la madre del protagonista, Bigger, canta: “La vita è una ferrovia sui monti con un macchinista coraggioso procuriamo che il viaggio sia fortunato dalla culla alla bara”. L’augurio contenuto nei versi è in contrasto con l’effettiva situazione di Bigger che “passava i suoi giorni cercando di reprimere o dare sfogo a dei potenti impulsi in un mondo di cui aveva paura”, ammettendo che: “Per metà del tempo io mi sento come se fossi fuori dal mondo e guardassi attraverso una fessura della staccionata”. Più di tutto è quella sensazione organica di terrore a imprigionarlo, salvo quando “c’erano dei rari momenti in cui si impossessava di lui un sentimento e un desiderio di solidarietà con gli altri negri. Allora sognava di fare una resistenza contro quella forza bianca, ma tale sogno svaniva quando guardava gli altri negri che gli stavano vicini. Benché fosse nero come loro, sentiva che c’era troppa differenza fra lui e loro per consentire un vincolo comune e una vita comune. Questo poteva accadere solo quando si sentisse minacciato di morte; solo nella paura e nella vergogna, quando fosse con le spalle al muro poteva accadere una cosa simile. Mai, però avrebbe potuto cancellare le differenze che esistevano fra loro in vista di una qualche speranza”. La constatazione ultima è che Bigger “viveva, ma viveva nel solo modo nel quale egli sapeva concepire la vita, nel solo modo in cui noi lo abbiamo costretto a vivere”.
Questa certezza è una costante nei personaggi di Richard Wright, come dice a sua volta il protagonista di Ho Bruciato La Notte (Mondadori): “Non crediate che io sia un caso unico o rarissimo. Siamo tanti. Ho vissuto solo ma so che siamo dappertutto. L’uomo sta tornando alla terra. Ha dormito a lungo, avvolto in un sogno, ma si va destando e si trova in un incubo ad occhi aperti. La gente dei miti scompare e stanno sorgendo gli uomini veri; gli ultimi. Qualcuno deve preparare per loro la strada. Siamo già qui, se gli altri hanno il coraggio di vederci”. Le canzoni seguono pagina per pagina anche I Figli Dello Zio Tom, a cominciare dall’epigrafe: “È vero ciò che dicono di Dixie? Che là il sole non tramonta mai? Fioriscono magnolie davanti ad ogni porta? La gente mangia prugne, finché non cade morta? È vero ciò che dicono di Swanee? Che è sublime sognare là fra i rami? C’è chi ride e chi ama come dicono i canti? Se è vero allora andiamo là tutti quanti”. Nel contrasto tra gli inni (“Poserò scudo e spada e le piume sulla riva del fiume mai più farò la guerra mai più”) e la protervia di certi ritornelli, in particolare quello che dice: “Impiccheremo i negri a un melo acerbo”, la frattura diventa evidente.
Questo il clima (non dimentichiamolo) ed è il motivo per cui il ‘ragazzo negro’ sostiene che “il significato dell’esistenza si acquista soltanto quando si lotta per strappare un significato al dolore senza senso”. È proprio lì che Richard Wright mette in rilievo il dilemma che emerge nel corso di Ragazzo Negro: “Un giorno o l’altro sarei stato scaraventato in una situazione in cui avrei detto la parola sbagliata all’uomo bianco sbagliato e mi sarei trovato in un guaio. E volevo evitare i guai soprattutto perché temevo che se mai mi fossi trovato ad aver un contrasto coi bianchi avrei spifferato parole che sarebbero state la mia sentenza di morte. Il tempo non era dalla mia parte, e bisognava che facessi qualche mossa. Spesso, trovandomi in imbarazzo, rimpiangevo di non essere come quegli allegri, pigri, spensierati ragazzi negri dei rumorosi guardaroba dell’albergo, senz’alcun assillante problema da risolvere. Molte volte mi sentivo stanco di quel segreto fardello che portavo, e mi tardava disfarmene, sia con l’azione, sia con la rassegnazione. Ma non ero fatto per rassegnarmi, ed avevo una scelta limitata nelle azioni, e le temevo tutte”.
La natura del linguaggio e la trasposizione letteraria prendono forma con la fuga, quell’inevitabile diaspora raccontata poi nel dettaglio da Isabel Wilkerson in Al Calore Di Soli Lontani (il Saggiatore), ma Richard Wright lascia spiegare al protagonista di Ragazzo Negro la spinta a partire: “Lasciavo il Sud per lanciarmi nell’ignoto, per incontrare altre situazioni che forse avrebbero evocato in me altre risposte. E se avessi potuto conoscere abbastanza di una vita diversa, allora, forse a poco a poco avrei potuto apprendere chi io ero, che cosa avrei potuto essere. Non lasciavo il Sud per dimenticare il Sud, ma per potere un giorno o l’altro comprenderlo, per potere arrivare ad apprendere che cosa i suoi rigori avevano fatto a me, ai suoi figli. Fuggivo, in modo che il torpore della mia vita difensiva potesse svanire e lasciarmi sentire, anni più tardi e lontano di lì, il dolore che aveva significato vivere nel Sud”.
È proprio in quel momento che diventa evidente l’urgenza di “usare le parole come un’arma”. A parte l’inevitabile propensione alla fuga, l’unica prospettiva concreta viene dalla letteratura, dalla lettura e dalla scrittura come strumenti di emancipazione e dalla biblioteca come fonte di approvvigionamento, e trincea e baluardo. Ed è così per la musica, anche di più visto che in Otto Uomini che, per via della forma ristretta in cui sono convogliate le storie, è ancora più netta la percezione del ruolo dei canti, che si inseriscono generando una sorta di lettura alternativa che scorre dentro il flusso principale della narrazione di Richard Wright.
Le strofe si alternano a tamburo battente in L’uomo Che Visse Sottoterra e ancora di più in Dio Non E’ Così ed è anche per questo che, in fondo, si nota una distinzione netta, forse persino necessaria, anche per la musica, quando il protagonista di L’uomo Che Andò A Chicago dice: “Mi rendevo conto che a frapporsi fra me e le ragazze bianche con cui lavoravo non c’era solo la razza, il colore, ma il valore stesso che conferisce significato alla vita nel quotidiano. Il loro sguardo costantemente rivolto all’esterno, la loro mania per le radio, le macchine, e mille altri gingilli, facevano sì che vivessero nel mondo dei sogni, le obbligavano a non distogliere gli occhi dalla spazzatura della vita, gli rendevano impossibile imparare una lingua che potesse insegnargli a esprimere cosa ci fosse nei loro cuori e in quelli altrui. Le parole delle loro anime non erano che sillabe di canzonette popolari”.
C’è una bella differenza, eccome, se c’è.
Marco Denti, fonte Il Blues n. 155, 2021