Robbie Basho è morto nei febbraio di quest’anno a Berkeley, Caìifornia, in un modo casuale ed improvviso; le sue ceneri sono state gettate nelle acque della Bay Area, completando l’arco della vita difficile e singolare del chitarrista, nello stesso silenzio e disinteresse che hanno accompagnato la sua produzione musicale. E pur nel tentativo di evitare tipici luoghi comuni commemorativi, non è facile arginare una amarezza profonda, quasi desolante, per la scomparsa di un personaggio così importante ed essenziale nell’ambito della migliore guitar music americana.
Forse proprio oggi è comunque possibile una valutazione diversa e sicuramente più obiettiva dell’arte chitarristica di Basho. Scomparse le etichette discografiche pionieristiche come la Takoma e falliti i tentativi di commercializzazione di un non ben definito ‘genere chitarristico’ da parte di etichette come la Kicking Mule, consolidata la svolta verso una musica acustica di consumo della Windham Hill, la chitarra sembra non avere più molto da dire artisticamente e commercialmente. Lo dimostrano tanto il disinteresse massiccio (e secondo me motivato) del pubblico, quanto (soprattutto) il livello deludente dei pochi dischi che sporadicamente escono.
Qualcosa è sicuramente cambiato, ed è probabile che il vero e proprio ‘turning point’ sia rintracciabile nel momento di maggior interesse che lo strumento ha suscitato, qualche anno fa, in un pubblico tutto sommato vasto, interesse fondato su aspetti inessenziali, teso a stimolare tale pubblico per aspetti tecnici e strumentali più che per il suono e la musica in sé, diversa e particolare per ogni chitarrista.
Artisticamente la morte di Basho sembra veramente suggellare la fine di un’era musicale, quella del famoso ‘guitar triumvirate’ (come veniva chiamato in America vent’anni fa) composto, oltre che dallo stesso Basho, da John Fahey e Leo Kottke: nomi prestigiosi, chitarristi unici ed originalissimi, riconoscibili alla prima nota. Come per Fahey e Kottke, a dir poco deludenti entrambi nella rispettiva produzione discografica degli ultimi anni, anche l’ultima fase della produzione artistica di Basho è meno interessante e mostra una evidente stasi creativa, con una musica strumentale poco originale e con una sensibile mancanza di sbocchi evolutivi in generale. Ma basta tornare indietro di poco fino alle pagine scintillanti di Visions Of The Country o di Song Of The Stallion, con tutta una serie di assoluti capolavori che rappresentano l’apice di una concezione musicale unica, particolarissima, tanto originale da risultare improponibile, commercialmente, ad un pubblico più vasto.
L’inizio dell’avventura musicale di Basho è databile approssimativamente verso la fine degli anni ’50, periodo in cui il chitarrista inizia ad interessarsi di folk music; un’epoca mitica che oggi sembra lontanissima, incontri con personaggi allora ancora totalmente sconosciuti come Leo Kottke e soprattutto John Fahey, che lo ispira a concentrarsi su una musica per sola steel string guitar.
Nel 1962 avviene il primo, essenziale contatto con la musica Hindustani tramite l’ascolto di Ravi Shankar, celeberrimo sitarista, ascolto dopo il quale “ogni cosa non fu più la stessa”. Quindi, alcuni anni a vagare negli States e a raccogliere tutti i suoni, gli eventi, i profumi del Continente, e infine a Berkeley in California, patria riconosciuta di mille movimenti culturali e musicali.
Sono gli anni in cui la guitar-music comincia ad avere forme e realizzazioni più precise grazie a Fahey ed alla sua Takoma Records, minuscola ma coraggiosa casa discografica capace di ambiziosi ‘ponti’ musicali, dai classici Raga indiani al blues del Delta del Mississippi, filosofia comune tanto a Fahey quanto a Basho, anche se poi maturata ed evoluta in modi differenti.
Come Fahey, Basho applica un principio caleidoscopico alla propria ricerca creativa, assimilando musica classica europea, musica indiana, giapponese, cinese, medio-orientale, spagnola, forme folk americane, blues, cajun, cercando di tradurre poi il tutto in un proprio stile e in una propria forma poetica e musicale.
I primi dischi sono quelli in cui filosofia e musica orientale, assunti come elemento strutturale ed essenziale della propria musica, vengono sviluppati e sperimentati con un intenso processo creativo.
E’ naturalmente impossibile, antitetico alla sua stessa essenza, poter racchiudere il senso della musica orientale in una definizione di poche righe, in uno schema dai rigidi contorni, ma si può comunque cogliere il senso delle cose collegando varie affermazioni di Basho: anzitutto l’assunzione, nella propria musica, della forma ‘Raga’, con varie implicazioni ed evoluzioni. Questo processo, spiega Basho, si manifesta in vario modo: talvolta con specifiche forme tecnico-armoniche derivate da strumenti indiani come il sitar o il veena, altre volte traendo dall’essenza del Raga un atteggiamento di estrema spontaneità nella creazione e nell’esecuzione.
Altri elementi tipicamente orientali entrano inoltre nel suo stile, come le accordature modali, l’uso del bordone, l’improvvisazione concepita come il mezzo per interpretare ogni volta in modo differente uno stesso ‘mood’ musicale. The Seal Of The Blue Lotus e The Grail & The Lotus evidenziano in qualche modo l’inizio di questo processo artistico, con molte incertezze e lungaggini e pochi momenti realmente interessanti (ad esempio The Golden Shamrock, sul secondo disco, che si sviluppa secondo criteri tipicamente orientaleggianti).
Basho cerca in questa fase di combinare le infinite variazioni ritmiche e melodiche della musica Hindu con parti più strutturate armonicamente, costruendo progressivamente uno stile strumentale ed una tecnica chitarristica propri: l’uso dei bassi alternati tipici degli stili tradizionali americani si combina con arpeggi più propriamente classici o flamenco, tecniche che vengono alternate ed evolute sempre in funzione del risultato più specificamente musicale.
I due volumi The Falconer’s Arm sono il punto d’arrivo di tutto ciò, offrendo finalmente alcuni brani notevoli: è il caso di Tassajara, splendido duetto di flauto e chitarra, di Pavan Hindustan che finalmente evidenzia una esposizione più organica e concisa della forma Raga, e di Lost Lagoon Suite che offre momenti di intensità notevole.
D’altro canto tutti questi primi dischi evidenziano anche una tendenza, che sarà superata con fatica più tardi, ad improvvisazioni lunghe ed eccessivamente dilatate, con imprecisioni strumentali e percorsi spesso inconcludenti.
Lo stesso discorso vale per Basho Sings!, disco che presenta la splendida voce tenore di Basho, alle prese con liriche troppo enfatiche e retoriche, usata con uno stile fatto di vocalizzi e gorgheggi decisamente ridondante.
Nei primi anni ’70 escono comunque due dischi epici che sembrano superare miracolosamente qualsiasi incertezza offrendo definitivamente una forma musicale compiuta e musica eccellente. Dedicato al suo guru spirituale, Meher Baba, Venus In Cancer offre momenti tipici della spiritualità di Basho, non nella forma di prediche retoriche e roboanti (come nel secondo volume di The Falconer’s Arm) ma in modo più spontaneo, semplice e concreto. Cathedrals Et Fleur-de-Lis ferma il tempo ed il respiro, con una interpretazione drammatica e solenne, sottile ed incisiva, così come Venus In Cancer che apre il disco sviluppando un arpeggio delicato e struggente; Song Of The Queen e Wine Song fanno accettare le liriche e la poeticità quasi arcaica del musicista in virtù di melodie particolari ed arrangiamenti riusciti.
Song Of The Stallion, uscito nel 1971, è l’album della compiutezza stilistica ed espressiva, introdotto dalle note dello stesso Basho come “un album di guitar music e poesia, un compendio di stili Hindu, medio-orientali, classici occidentali e originali americani applicati alla steel stringed guitar”.
La concezione Raga è finalmente assimilata e trascesa in una forma personale, definita dallo stesso Basho un ‘aggettivo stilistico’ più che una riproposizione formale e scolastica della struttura dei Raga indiani; California Raga ne è un esempio, combinando le tipiche sottigliezze ‘verticali’, infinite variazioni ed abbellimenti, con cambi tonali più definiti, oltre la concezione modale tipicamente indiana. Song Of The Stallion è un ingenuo, bellissimo tributo ad una California mitica e alla sua storia, con una 12 corde squillante che anticipa lo stile ‘classico’ che Basho evolve in quegli anni, e A North American Raga è il primo esempio di una ipotetica creazione di una specifica forma raga che unisce gli elementi musicali Hindu con contenuti e miti degli Indiani d’America.
The Voice Of The Eagle, primo dei due dischi editi dalla Vanguard, celebra cultura e tradizioni degli Indiani d’America, miti e luoghi ormai scomparsi, con un discorso che verrà ulteriormente portato avanti in Visions Of The Country e in Rainbow Thunder.
Voice Of The Eagle è dedicato con spirito di amore e rispetto all’Indiano americano. Altri esempi di questo ‘tentativo’ Raga sono lo Hopi Raga, il Navajo Raga, il Rocky Mountain Raga, il Green River o Mountain Man Raga, usando il significato esoterico e non letterale del Raga per dipingere ‘quadri’ musicali dell’America…
Nonostante tali affermazioni, Voice Of The Eagle non è un disco particolarmente interessante e riuscito, e presenta un divario oggettivo tra le pur nobili intenzioni e l’eccessiva retorica dei testi e della musica.
Decisamente migliore il successivo Zarthus, con un ottimo Raga ed una intera facciata che vede il chitarrista alle prese con il pianoforte usato in modo insolito.
E’ Visions Of The Country, primo album di Basho edito dalla Windham Hill nel 1978, a proporre una saggezza grande e diversa, basata su capolavori che fanno dimenticare ogni discorso enfatico ed inutile. E’ tutto miracolosamente diverso e bellissimo: dal titolo del disco alla copertina che presenta uno stupendo paesaggio dello Stato di Washington al posto dei soliti dipinti roboanti. La retorica stucchevole, le prediche enfatiche, l’inessenzialità lasciano posto ad una semplice e naturale purezza della musica che ‘parla’ e comunica, finalmente, al posto delle parole: si può veramente dire, di questa musica, che esprime un senso autenticamente ‘religioso’ per la profondità e la vastità della dimensione in cui si srotola. Difficile trovare cedimenti o piattezza: tutto pende verso una bellezza tanto semplice quanto acuta e pervasiva. E’ il caso di gioielli strumentali come Rodeo, di ballate come Blue Crystal Fire, della poesia autobiografica di Orphan’s Lament unita ad una melodia epica valorizzata dallo stile pianistico di Basho, fuori da ogni tipo di regola canonica.
Ma è forse Rocky Mountain Raga l’episodio più grande, il brano che in qualche modo sembra sintetizzare una ricerca durata vent’anni, nel tentativo di fondere culture e musiche distanti ma unite da un comune denominatore di ‘amore’ continuamente ribadito da Basho. Rocky Mountain Raga è veramente un ‘dipinto musicale’ del Nord America, dei suoi fiumi, delle sue montagne, dei suoi paesaggi sterminati in cui non troppi anni addietro altri popoli ed altre culture celebravano la vita con semplicità e profondità, un abbraccio tanto ingenuo e idealizzato quanto profondo e sincero, un episodio perfettamente riuscito da un punto di vista prettamente musicale, con l’avvio indolente di 12 corde e violino e il successivo sviluppo intenso e travolgente.
Visions resterà l’apice dell’arte di Basho, un disco bellissimo e senza tempo che resterà insuperato.
The Art Of The Acoustic Steel String Guitar 6 & 12, uscito l’anno seguente, è concentrato sullo stile strumentale di Basho alla chitarra a 6 e 12 corde: disco notevole a livello strumentale, dove il chitarrista esibisce un tono e un tocco splendidi, e che evidenzia le scelte musicali del momento. Un grosso accento su un ‘classicismo’ tutto particolare, scampoli celebri di musica classica suonati in accordatura aperta, nuove versioni di Cathedrals Et Fleur-de-Lis e The Grail & The Lotus, una dimensione non semplice da accettare che comunque evidenzia il tentativo di Basho di dare una dignità ed una ‘serietà’ anche al suo strumento, come la chitarra a corde di metallo, da sempre confinato nell’ambito della folk music. E’ l’ultima realizzazione strumentale del chitarrista, un ‘sampler’ del suo strano ed unico stile strumentale.
Completamente fuori luogo nel ‘nuovo corso’ della Windham Hill, Basho incide un altro album di songs dedicate agli Indiani d’America per una minuscola etichetta californiana, Rainbow Bridge, che resta l’ultimo lavoro ufficiale.
L’ultimo periodo della sua vita lo vede malato e senza un contratto discografico. Gli ultimi lavori sono tre nastri autoprodotti: Basho’s Best, antologia di vecchi brani tratti da albums ormai irreperibili; Bouquet, una raccolta di songs; Twilight Peaks un interessante strumentale. Lavori dignitosi ma decisamente di transizione, che documentano una evidente stasi creativa.
Uno sguardo obiettivo e complessivo di tutta la produzione di Basho evidenzia l’immagine di un musicista assolutamente atipico e bizzarro, per interessi, contenuti e conseguenti realizzazioni, con un risultato sonoro difficile da avvicinare e sicuramente, inesorabilmente, privo di qualsiasi potenzialità commerciale a qualsiasi livello.
Come altri hanno spesso rilevato, molti dei suoi dischi accomunano mediocrità e genialità a volte in modo stupefacente; aspetto comune a qualsiasi altro chitarrista, ma forse il contrasto è veramente stridente nella sua musica.
Malgrado ciò Robbie Basho resta uno dei pochi, rari chitarristi che abbiano creato una musica specifica ed inconfondibile, capace di trascendere il tipico banale errore di quell’esercito di ‘tecnici’ dello strumento, tanto bravi quanto terribilmente anonimi e noiosi, che hanno sempre scambiato il mezzo con il fine; e in quest’ottica non citerei altri nomi oltre Leo Kottke e John Fahey, e qualcosa della produzione iniziale di William Ackerman e Alex DeGrassi.
L’immagine di Robbie Basho, da sempre sporadicamente presente nel mondo ufficiale del music business, si perderà probabilmente quasi del tutto, in una inesorabile e naturale analogia con la scomparsa materiale, fisica del chitarrista, lasciando come sempre alla buona volontà di ciascuno la possibilità di scavare tra i cumuli di musiche sbiadite in fretta e messe da parte dai loro stessi effimeri consumatori; una sorta di grande inevitabile legge naturale, come involontariamente annunciato dalle parole di Rhapsody In Druz, su Zarthus: “lo sono il Fiore del Cuore, svegliatemi e fiorirò ancora…”.
Discografia:
Takoma 1005 – The Seal Of The Blue Lotus (1965)
Takoma 1006 – Contemporary Guitar (1966) (antologìa)
Takoma 1007 – The Grail & The Lotus (1966)
Takoma 1012 – Basho Sings! (1967)
Takoma 1017 – The Falconer’s Arm Vol. 1 (1967)
Takoma 1018 – The Falconer’s Arm Vol. 2 (1967)
Blue Thumb 10 – Venus In Cancer (1970)
Takoma 1031 – Song Of The Stallion (1971)
Vanguard 79321 – The Voice Of The Eagle (1972)
Vanguard 79339 – Zarthus (1974)
Windham Hill 1005 – Visions Of The Country (1978)
Windham Hill 1010 – The Art Of The Acoustic Steel String Guitar, 6 & 12 (1979)
Silver Label 029 – Rainbow Thunder (Songs Of The American West) (1981)
Windham Hill 1015 – Windham Hill Records Samplers ’81 (1981) (antologia)
Cassetta autoprodotta – Basho’s Best (1982) (antologia)
Cassetta autoprodotta – Bouquet (1983)
Cassetta autoprodotta – Twilight Peaks (1984)
Maurizio Angeletti, fonte Hi, Folks! n. 18, 1986