Robbie Robertson

Con  Storyville Robbie Robertson, il mitico ex-chitarrista della Band, segue le orme di Daniel Lanois e lava i panni artistici nel Delta del Mississippi. Un album affascinante condito dagli aromi speziati della  ‘Crescent City ‘.

C’è un detto a New Orleans che gli abitanti sfruttano spesso per descrivere la vitalità del posto: “Qui il tempo lo occupiamo ad andare alle feste, organizzare le feste e recuperare le energie consumate alle feste”. Ma niente a che vedere con gli ambienti della bianca (di cocaina) Los Angeles yuppie vagolante tra i droga-parties; nella capitale della Lousiana le feste hanno il sapore forte e tonificante del nero.

Fin dai tempi dei tempi, The Big Easy, com’è comunemente chiamata New Orleans, è stata crogiolo di razze, umori, suoni. Già nel 1700, in Congo Square si potevano ascoltare tamburi africani e canti tribali sui quali si inserivano termini francesi (i fondatori della città) e spagnoli. E anno dopo anno, i continui innesti di musiche e culture hanno dato vita a un sound senza barriere che è presto diventato tradizione: dal rhythm and blues di Professor Longhair, Smiley Lewis, Huey Piano Smith al rock and roll ante-Elvis di Fats Domino e Roy Brown; dal funk’n’soul di Chris Kenner, Ernie K. Doe e Irma Thomas al jazz di Satchmo, Jerry Roll Morton e Freddie Keppard; dai ritmi africani al gospel; dal Cooke sound allo street corner tutto è stato centrifugato e servito nei club cittadini.

Ma, per ragioni apparentemente inspiegabili, il suono di New Orleans stenta a esplodere su disco, quasi non si riuscisse a trasferire la sua profonda spiritualità tra i solchi del vinile. Se è così difficile riprodurre sostanza e forma del suono è anche perchè la musica della città presenta connotazioni inedite nel resto dell’America. Il ritmo che ne costituisce la struttura portante proviene dalla religione africana Urubu, in altre parole dal voodoo, perciò il drumming spinge si la gente a ballare, ma non viene mai spogliato della sua valenza spirituale.

I bianchi, padroni dell’industria abituati a cavalcare puledri diversi con le stesse selle, hanno spesso trattato i ritmi neri con mano pesante, caricando i suoni anzichè liberarli, convinti che marcando col grassetto i caratteri si sarebbe raddoppiata l’intensità dell’effetto finale. Daniel Lanois è stato, nel decennio scorso, l’unico giocatore bianco a vincere in trasferta sul campo di New Orleans, portando i Neville Brothers, vecchi stregoni di soul blues, in una vecchia casa abbandonata della Big Easy (magicamente recidivo il Lanois, avendo in precedenza trascinato gli U2 in un vecchio castello irlandese). L’effetto raggiunto nelle registrazioni di Yellow Moon è proprio quello di un disco live, dove la fisicità del ritmo non ha cancellato la spiritualità di fondo.

Due anni dopo quella cavalcata con i fratelloni Neville, ribadita nella dozzina di corse solitarie a briglia sciolta di Acadie, un altro bianco entra dalla porta di servizio di New Orleans per possederne anima e corpo. Le referenze sono lungamente dispiegate tra gli estremi del nome Robbie e del cognome Robertson; l’indirizzo messo in mano al tassista dice Storyville, quartiere di New Orleans una volta dedicato alla vita senza freni, alla musica bollente e alle notti bruciate dalla luna. Una piccola nota, minuscola come quelle clausole che non ti riesce mai di vedere nei contratti, ammonisce tra la nostalgia e il rimpianto, “Man, if these walls could talk”, ovvero “amico, se questi muri potessero parlare”.

Racconterebbero di luci e ombre sullo sfondo del delta del Mississippi, di brevi storie di lunghi dolori, di fonti a cui si sono dissetati amici, conoscenti e benefattori della Grande Musica Americana, di feste senza fine e notti senza alba. Racconterebbero con altre parole le storie non dissimili del lato nero di Memphis, vissute su quella Beale Street Could Talk (tradotto da Rizzoli ‘Se la strada potesse parlare’), splendido romanzo di orgoglio nero il cui titolo è vicino, in pensieri e parole, alla dedica di Robbie Robertson.

Il nuovo disco del genio della Band, il secondo di una carriera solista avviatasi ottimamente con l’esordio eponimo del 1987, è un album concettuale, di quelli cioè che sviluppano un’unica trama in tutte le canzoni. Il tema è quello di due ragazzi che vanno alla ricerca l’uno dell’altra e di se stessi, tra New York, New Orleans, una piccola città senza nome e l’altopiano Hopi.
Lui viene da uno di quei paesini figli della ferrovia che esistono soltanto perchè si ferma il treno; lei, che abita vicino al fiume come la Suzanne di Cohen, è di Storyville, dove “quando scende la notte se non ti catturano le donne ci pensa la musica”. Otto anni dopo il primo incontro si riconoscono a New York, dove a volte lui “cammina al ritmo della notte e della strada per entrare in sincrono con il battito del cuore della città”, ma più spesso si abbandona a una pioggia lustrale che ti lava la commozione, alla ricerca, per le strade di Harlem, di un suonatore ambulante che ti allevi il dolore.

La conclusione di questo viaggio, che l’autore ha paragonato a quello di Dante e Beatrice, è nelle parole della madrina del protagonista: “Lasciami vedere se hai imparato ad ascoltare il silenzio che c’è tra le parole”. E’ il ritorno a casa dopo aver visto, sentito e vissuto, l’approdo nel punto in cui maturità ed esperienza si collegano all’infanzia, la vecchiaia si rifugia nel grembo materno.

Il piccolo Robbie Robertson trascorreva le estati nella riserva degli Irochesi, sopra il lago Erie, dove vivevano i cugini della madre, di origine indiana. Annusavano l’aria e prevedevano l’arrivo della pioggia, appoggiavano le orecchie a terra e annunciavano il treno. Sapevano ascoltare il silenzio che c’è tra le parole.
Dopo aver molto viaggiato sui sentieri dei grammofoni e su quelli veri di Madre Natura, il piccolo Robbie è cresciuto anche lui e il suo alter-ego protagonista di Storyville oggi sanno ascoltare.

P.S. Indovina chi viene a cena? Tra gli invitati che siedono al tavolo di Robbie Robertson ci sono: i Meters, alfieri funk; gli Zion Harmonizers, maestri del gospel; i Neville Brothers; la Rebirth Brass Band, portavoce della musica tradizionale per big band; Bo Doilis e Monk Boudraux, grandi musicisti indiani; le Code Blue, gruppo di vocalist donne. In più, sconosciuti che rispondevano ai nomi di N. Young, Blue Nile, Mike Mills dei R.E.M., Bruce Hornsby, David and David, M. Isham, Rick Danko. Sperando non si tratti di un’ultima cena.

Massimo Cotto, fonte Hi, Folks! n. 50, 1991

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