La figura di John Fahey, nello stesso tempo grande chitarrista ed esimio filologo blues, a parte qualche articolo estemporaneo, non è mai stata ricordata a dovere. Eppure la sua scomparsa, avvenuta nel febbraio del 2001, aveva profondamente colpito quella pattuglia di irriducibili fan affascinati dalla sua singolarità fatta di genialità e stranezze.
C’è voluto poco più di un anno perché Roberto Menabò, a sua volta musicista e appassionato cultore di blues, decidesse di porre fine a questa latitanza e facesse un po’ di luce sulla figura del grande chitarrista scomparso. Quello che ne è uscito è un libretto scorrevole e affascinante che ripercorre i momenti salienti del suo innamoramento della musica tradizionale e i chiaroscuri della sua carriera.
Non si tratta di una day by day scrupolosamente biografico, Menabò preferisce un atto d’amore e di riconoscenza: in un centinaio scarso di pagine tratteggia con precisione e perfetta puntualità gli aspetti salienti di una carriera vissuta ai margini del business, fatta di sensibilità e certezze inossidabili a perseguire lo sviluppo di una linea chitarristica destinata a fare scuola solo in un secondo tempo.
Analizza soprattutto in modo scrupoloso ogni album e si sofferma volentieri anche sui singoli brani, su cui ricama di fino disquisendo di stili e influenze.
Fahey a quindici anni rimane folgorato da una versione di Blue Yodel Number Seven di Jimmie Rodgers, eseguita da Bill Monroe: la riscoperta del blues prebellico lo porta a contatto con tutti i grandi filologi del genere che per primi si accostano alla musica dell’anima, personaggi come Samuel Charters, Moses Asch, Chris Strachwitz, Nick Perls che contribuiscono a fondare le più celebri etichette indipendenti di blues e soprattutto Ed Denson con cui John Fahey crea una propria label, la Takoma Records.
Con Denson va addirittura alla ricerca di bluesmen perduti come Bukka White e Skip James. Contemporaneamente, John Fahey definisce il suo stile chitarristico filtrando l’influenza dei vecchi temi della tradizione bianca e nera e mettendo a punto un suono acustico molto personale che ha la peculiarità di non essere mai accompagnato dalla voce.
Negli anni influenzerà uno stuolo di musicisti come Leo Kottke, Robbie Basho, Peter Lang e altri ancora. Muore dopo un intervento al cuore il 20 febbraio dello scorso anno; lascia in eredità una quarantina di dischi, comprese le collaborazioni.
Roberto Caselli, fonte JAM n. 84, 2002